venerdì 2 agosto 2024

Una proposta per l’editoria indipendente

 


Express. LA RUBRICA DELLA CULTURA CHE FA IL GIRO DEL MONDO. Isabelle Kenyon ha pubblicato un articolo dove illustra i problemi del settore invitando a un «radicale ripensamento»

 

Di Maria Teresa Carbone (il manifesto, 1 agosto 2024)

 

Isabelle Kenyon deve essere una persona coraggiosa e soprattutto dotata di energie non comuni. Non solo nel 2018, a ventun’anni, ha fondato la casa editrice The Fly on the Wall a Manchester, la città inglese dove vive e di cui è una sostenitrice appassionata, ma la manda avanti da sola, pubblicando circa otto libri l’anno – di cui cura l’editing, disegna le copertine, organizza gli aspetti tecnici e gestisce le campagne di marketing. A quanto pare, tutto questo lavoro lo fa anche bene, se nei primi mesi di quest’anno «la sua azienda ha vinto il premio Small Press of the Year per l’Inghilterra del Nord ai British Book Awards 2024, battendo la concorrenza di rivali più grandi e affermati», come fa notare Cara Kilman su una testata locale, I Love MCR.

Tra l’altro, oltre all’attività nella casa editrice, Kenyon scrive e pubblica da anni poesie e di recente si è lanciata nella narrativa con un thriller psicologico, The Dark Within Them, di cui, parlando con Kilman, si dichiara molto orgogliosa. Insomma, a giudicare dalla sua attività, tutto si può dire di Kenyon tranne che sia un tipo rinunciatario e piagnucoloso. Eppure a metà luglio sul periodico specializzato britannico The Bookseller è uscito un suo articolo intitolato senza mezzi termini The sums don’t work, «I conti non tornano», in cui sostiene che «le finanze dell’editoria indipendente sono in crisi nera» ed «è necessario un radicale ripensamento».

Secondo Kenyon il problema si può ridurre a una parola sola: il prezzo – che, detto altrettanto sinteticamente, è troppo basso o, meglio, è troppo basso per le piccole case editrici indipendenti che hanno tirature limitate e una distribuzione ridotta rispetto a quella dei grandi gruppi.

Citando anche altri proprietari di piccole sigle editoriali, Kenyon sostiene che puntare a prezzi sempre più bassi è un errore: «Noi prezziamo i libri in base a quello che supponiamo le librerie venderanno – dice Sam Jordison di Galley Beggar Press – ma siamo arrivati all’assurdo che un paperback può costare meno di una pinta di birra. Il prezzo dei nostri libri dovrebbe riflettere meglio i costi di produzione e permettere a noi e soprattutto ai nostri autori di avere un ritorno economico che rifletta il lavoro fatto». Purtroppo, però, sembra il solito caso del cane che si morde la coda, rileva la responsabile di Emma Press, pure citata nell’articolo di Kenyon: «Per rientrare nei costi di manodopera, produzione e vendita, di una raccolta di poesia tirata in 300 copie, dovremmo fissare un prezzo di copertina di 20 sterline, il che probabilmente, renderebbe ancora meno probabile la vendita di 300 copie».

E allora? Kenyon una proposta ce l’ha, ed è appunto un ripensamento dei prezzi che dovrebbe essere condiviso anche dai grandi gruppi e che dovrebbe tenere conto, oltre che dell’esperienza e della fama dell’autore, anche del tempo impiegato nella scrittura e nell’editing, d’altra parte ipotizzando misure di sostegno per gli scrittori emergenti da ambienti «svantaggiati», e per le biblioteche e le scuole.

Il piano, per la verità non sembra di facile realizzazione, se non altro perché Kenyon pare convinta che la risposta dei lettori a questa rivoluzione sarà positiva. Ma è interessante che per una volta si parli di prezzi e si ammetta in modo esplicito come buona parte dell’editoria indipendente (non solo nel Regno Unito, del resto) si regga su un sistema di (auto)sfruttamento.

martedì 9 luglio 2024

Le Edizioni La Zisa e la post-verità di Internet. Se la fantasia supera i fatti

 


Quando diversi anni fa, per la precisione nel 1988, un manipolo di intellettuali, piuttosto incoscienti e coraggiosi, ha deciso di fondare le Edizioni La Zisa, schierandola fin dall’inizio contro le mafie e la malapolitica, decidendo così di non avere né padrini né padroni, sapeva già che la casa editrice non avrebbe mai avito vita facile e, infatti, non l’ha mai avuta. E tutto ciò in una terra piena di sfide come la Sicilia.

Nel corso della nostra non breve storia (36 anni sono tanti e più di trecento titoli in catalogo!) abbiamo dovuto subire e respingere attacchi di ogni tipo. In tanti hanno provato a tapparci la bocca ma non ci sono mai riusciti. Abbiamo resistito senza cedere di un passo forti di una reputazione costruita negli anni con immensi sacrifici.

 

Ora diversi nostri amici e lettori ci segnalano che di tanto in tanto sbuca da quella Cloaca Maxima che è diventato ormai purtroppo Internet, qualche articolo puramente diffamatorio nei nostri confronti. Non abbiamo mai dato importanza ad attacchi di questo tipo e non gliene daremo adesso. Ma ci teniamo a mettere in chiaro le cose.

Recentemente, un sito di notizie, uno di quelli apparsi negli ultimi anni dal nulla come un fungo dopo la pioggia, ha pubblicato un articolo violentemente diffamatorio nei confronti del nostro ultimo direttore, il giornalista Davide Romano, che ha avuto l’unica colpa di raccogliere e rilanciare la preziosa eredità della casa editrice in uno dei momenti meno felici della sua lunga militanza culturale. Nel corso degli anni della sua direzione ha pestato molti calli a più d’uno. E immaginiamo che ci fosse qualcuno che non vedesse l’ora di pareggiare i conti. L’unica cosa, invece, che noi potremmo rimproverargli è che, a un certo punto, abbia deciso di dimettersi tornando al suo primo amore: il giornalismo. Anche i bravi direttori mollano.

 

Ma, parlando dell’articolo di cui sopra – non l’ultimo, come dicevamo, nel suo genere –, la cosa divertente è la storia raccontata, a metà strada tra una favola e una sceneggiatura di un film di serie B, in cui il nostro direttore viene dipinto come un individuo privo di scrupoli e correttezza. Del resto, lo stesso giornale qualche anno prima aveva pubblicato un’altra notizia con un legame molto debole con la realtà sempre sul nostro ex direttore. Ma almeno quella volta non era stata diffamatoria. Solo troppo fantasiosa o molto imprecisa.

Tornando all’articolo in questione, lasciateci dire subito: la realtà è ben diversa. Il nostro ex direttore è da sempre noto per la sua integrità e il suo impegno nel garantire un trattamento giusto e rispettoso a tutti gli autori e collaboratori della nostra casa editrice. E non solo. Non c’è bisogno di indagare troppo a fondo per scoprire che le accuse sono tanto infondate quanto ridicole.

Secondo l'articolo, il nostro direttore avrebbe avuto un modus operandi degno di un romanziere malvagio: promesse non mantenute, autori ingannati e chissà cos’altro. La verità, invece, è che egli ha sempre agito con la massima trasparenza e professionalità. Ogni contratto firmato, ogni promessa fatta, ogni collaborazione avviata è stata sempre gestita con serietà e rispetto. Nessun inganno, nessuna scorrettezza, solo il desiderio di promuovere la letteratura, la buona saggistica e supportare gli scrittori. Soprattutto quelli più scomodi. 

 

Ora, parliamo di realtà. Come molte altre aziende del settore, anche la nostra casa editrice sta attraversando una fase di ristrutturazione dovuta alla crisi economica. Sì, è vero, stiamo facendo delle modifiche per adattarci ai tempi difficili, abbiamo a questo scopo trasferito anche la nostra sede, ma una cosa resta invariata: il nostro impegno verso autori e lettori. Ogni promessa sarà mantenuta, ogni contratto rispettato. L’unico cambiamento riguarda il nostro assetto organizzativo, non la nostra integrità.

Pensiamo che il misterioso autore dell’articolo abbia una fervida immaginazione. Forse ha guardato troppi film noir o letto troppi romanzi gialli. La nostra realtà quotidiana è molto meno drammatica e decisamente più ordinaria. Le nostre giornate sono fatte di impegno costante, scadenze da rispettare e una grande passione per i libri. L’unico mistero che ci piace risolvere è quello di trovare nuovi talenti letterari e portarli al successo.

 

Certo, Davide Romano non è mai stato un supereroe, ma è una persona onesta e dedita al proprio lavoro. Sia come editore che come giornalista. Ha costruito la sua reputazione su anni di lavoro duro e corretto. Ogni autore che ha collaborato con noi può testimoniare la sua serietà e la sua correttezza. Il nostro direttore non ha mai avuto bisogno di trucchi o inganni per conquistare la fiducia degli scrittori; la sua passione per la letteratura e il suo impegno costante sono stati sempre più che sufficienti.

Quindi, caro autore dell'articolo, apprezziamo il tentativo di creare una storia avvincente, ma la realtà è che non c’è nessun complotto, nessuna scorrettezza, solo un gruppo di persone che ama ciò che fa e lo fa con onestà.

Ai nostri lettori, promettiamo che continueremo a offrirvi storie di qualità, basate sulla verità e sulla correttezza, e che ogni nostro impegno sarà mantenuto, crisi economica o no. Al nostro ex direttore, invece, vorremmo chiedere di tornare e, nel frattempo, gli esprimiamo di cuore tutta la nostra solidarietà.

Secondo le ultime classifiche, la fiducia nei giornalisti da parte dei cittadini è ai minimi storici nel nostro Paese. Quasi alla pari coi parrucchieri (non si offendano questi ultimi!). Leggendo un certo tipo di giornali o di siti di notizie non si fa fatica a capire perché.

 

Con affetto e ironia.

La sfida dell’editoria: il 2024 un anno cruciale

 



Nonostante i tentativi di guardare i dati “dal lato positivo”, la consueta conferenza di gennaio della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri, che traccia l’andamento del mercato editoriale per l’anno appena trascorso, non può non lasciare un po’ di amaro in bocca. Rispetto alle disamine precedenti da cui il libro e l’Italia nel suo complesso uscivano decisamente vincitori sulle crisi cui il mondo era andato incontro (la pandemia su tutte), quest’anno è più marcato il potenziale rallentamento.

 

Dalle analisi di Angelo Tantazzi, presidente di Prometeia, emerge infatti che se da un parte il livello di disoccupazione è rientrato ai valori precedenti la pandemia (addirittura sceso del 2% – e questo è un dato di importanza storica), dall’altra è ancora con il debito pubblico che paghiamo la crisi, molto più degli altri Paesi (la performance migliore nel rapporto Pil/debito è, senza troppe sorprese, della Germania) e il nostro Pil cresce molto poco (dello +0,7% nel 2023 e si stima dello +0,4% nel 2024). Siamo però usciti dalla crisi abbastanza bene: i consumi degli Italiani si sono mossi in linea con quelli dei cittadini degli altri Paesi ma decisamente superiore è stata, in questi ultimi quattro anni, la performance degli investimenti, soprattutto perché, da parte dello Stato, sono state messe in atto azioni di sostegno (per esempio con gli incentivi per le ristrutturazioni). Ecco: d’ora in avanti è prevista una normalizzazione delle politiche, dopo gli anni di emergenza che si sono aperti con la crisi Covid-19, e si restringeranno quindi gli spazi per la politica di bilancio. Con il 2024 terminerà l’impatto sui consumi dei sostegni straordinari, che saranno sostituiti solo in parte dalle misure introdotte dalla legge di bilancio, destinate soprattutto a sostenere i redditi delle famiglie, perciò è da attendersi una contrazione nei consumi. In ambito culturale, in particolare, la 18 app – strumento che aveva funzionato assai bene – verrà sostituite da due diverse “carte” con riduzione di fondi da 230 milioni stanziati a 190, mentre per l’editoria è stato rinnovato il finanziamento del Fondo straordinario che ammonterà, per il 2024, a 14.5 milioni di euro.

 

Per fortuna si sta assistendo al rientro dei prezzi al consumo, trainato da quelli dell’energia (-24.7% mese su mese a dicembre) ma in cui la componente alimentare resta erratica e gravosa, e nonostante, nel corso del 2023, i prezzi dell’energia siano scesi, mediamente dimezzandosi, rimarranno comunque permanentemente più alti (circa il doppio) degli anni prepandemici. Al contempo i salari aumentano ma non recuperano l’inflazione e in Italia restano ben al di sotto della media europea (+3% contro il 4.5%) mentre i tassi di interesse continuano a salire. Quindi, anche se il livello occupazionale è decisamente aumentato (rispetto a fine 2019, nel quarto trimestre del 2023 gli occupati sono 560.000 in più e i disoccupati sono quasi 500.000 in meno), il potere d’acquisto reale del reddito è sceso, ma non la propensione al consumo degli Italiani (che hanno anche intaccato i risparmi), tornata ai livelli prepandemici. È ipotizzabile che nel 2024 la ripresa del potere di acquisto, alimentata dalla discesa dell’inflazione e dalla tenuta del mercato del lavoro, sosterrà i consumi in crescita: la propensione al risparmio è infatti calata, rispetto al massimo del +15.6% dell’anno del lockdown, ma rispetto al 2023 (+6.9%) si stima che torni a salire a +7.4%. Sembra una differenza trascurabile, ma non lo è: ogni punto percentuale incide per 13.7 miliardi annui.

 

E su cosa si concentra il consumo italiano? Negli ultimi anni le spese per affitti, luce, acqua, gas, carburanti, salute eccetera (sostanzialmente legati al rincaro dei costi dell’energia) sono salite di due punti percentuali che hanno quindi corrispondentemente “schiacciato” i servizi non obbligati. I libri sono catalogati tra i beni non durevoli (insieme ad abbigliamento, igiene, cosmesi) e dal 2019 sono scesi di mezzo punto. Si stima che nel 2024, in generale, la crescita dei consumi rallenterà. Le famiglie tenderanno a ricostituire il risparmio e ciò influenzerà negativamente la loro propensione a spendere. Per i libri, dopo il veloce recupero dei livelli prepandemia nel 2022, nel 2023 si è osservato un calo sia dei volumi sia dei prezzi invece dal 2024 si stima l’avvio di un trend di crescita.

 

La sensazione dilagante di “sentirsi più poveri” dipende molto dal livello di reddito: le asimmetrie di ricchezza condizionano i comportamenti di consumo. Le famiglie più ricche detengono una ricchezza media tale da poter garantire lo stesso stile di vita, essendo in grado di sopportare gli aumenti di prezzo, e spostano il proprio paniere di spesa sempre di più verso la componente dei servizi, mentre le famiglie meno benestanti restano condizionate dall’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Quindi se l’inflazione per le prime è stata del +5.7% per le seconde invece è stata del +6.5%.

 

In un panorama generale non esattamente roseo, come ha performato il mercato editoriale?

 

I dati dell’Associazione Italiana degli Editori (Aie), raccolti e analizzati in collaborazione con Nielsen, BookScan e IE Informazioni Editoriali, e riportati durante la conferenza dal Presidente della Federazione degli Editori Europei (Fep) Ricardo Franco Levi, hanno mostrato che l’Italia si piazza al quarto posto tra i grandi mercati europei con un valore complessivo di 3-3.5 miliardi di euro, seguendo Regno Unito (4-4.5), Francia (4.5-5), Germania (9.5-10), in un mercato che complessivamente vale 37-38 miliardi di fatturato e che fa del libro la prima industria culturale europea.

 

In Italia l’editoria trade (romanzi e saggistica) è cresciuta del +0,8% a valore rispetto al 2022 (+14.1% rispetto al 2019) invece ha subito una lieve flessione in termini di copie (-0.7% sul 2022 ma +12.6% sul 2019). Nel 2023 il prezzo medio di copertina dei libri comprati è stato di 15.17 euro, in crescita del +1.5% rispetto l’anno precedente ma ben meno dell’inflazione che è stata invece del +5.7%. Confrontando con il 2019, invece, il prezzo dei libri venduti è cresciuto del +2.6%, contro una crescita generale dei prezzi del +15.7%. Sono numeri che testimoniano la riduzione dei margini di guadagno degli editori, ma anche lo sforzo per tenere bassi i prezzi e non deprimere la domanda di lettura.

 

Le librerie fisiche restano il principale canale di distribuzione di libri, recuperando terreno (il 54.7% del totale contro il 53.5% dell’anno scorso), ma sempre in calo rispetto a prima della pandemia (il 64% nel 2019). Questi trend si individuano, con percentuali lievemente diverse, a livello europeo, ed emerge che il libro di carta resta il preferito dei lettori, anche se guadagnano terreno gli audiolibri, che crescono in Italia del +12% rispetto al 2022, e gli e-book che crescono del +2.5%. Nel complesso, quindi, il mercato editoriale italiano cresce in quest’ultimo anno dell’1.1%. Non sono risultati deludenti, ma preoccupanti se si tiene conto che l'anno prossimo verranno meno, come detto, alcune misure a sostegno della domanda.

 

Il 2024 sarà un anno cruciale per il futuro dell’editoria quindi, anche per un altro aspetto, non direttamente legato al mercato, ma alla sua struttura interna: il 2 aprile, con tutta probabilità, verrà approvata la direttiva europea sull’intelligenza artificiale che dovrebbe garantire la trasparenza delle fonti usate per alimentare i database delle reti neurali. Il tema è delicatissimo perché fortemente interconnesso con il diritto d’autore, e non dobbiamo mai dimenticare che a dar vita ai libri che il mercato dell’editoria perfeziona, pubblica e distribuisce è, in primis, chi scrive. Che va tutelato.


(Fonte: di Valentina Berengo, https://ilbolive.unipd.it/)


Istat, sei biblioteche di pubblica lettura su dieci sono al Nord Rapporto sul 2022. Un patrimonio di quasi 167 milioni di volumi



Otto biblioteche su dieci (77%) sono di pubblica lettura.

Di queste, la maggior parte (60,2%) si trova al Nord, mentre molte meno sono nel Mezzogiorno (27,2%) e in Centro (12,6%).

Lo si legge nel rapporto Istat 'Le biblioteche di pubblica lettura in Italia', relativo al 2022.
    Nel nostro Paese ci sono tre biblioteche ogni 100 chilometri quadrati, una ogni 8.500 abitanti, e due comuni su tre (66,3%) ne hanno una di pubblica lettura. La metà delle strutture è nei centri con una popolazione sotto i 5mila abitanti. Un terzo dei comuni totali (33,7%) non ha una biblioteca di nessun tipo. La maggioranza di questi appartiene alle cinture dei grandi centri e alle aree intermedie (69,7%), mentre il restante 30,3% è in posizione periferica o ultraperiferica rispetto ai poli urbani.
    I volumi presenti sugli scaffali sono 166 milioni 950mila, un numero in aumento del 6% rispetto al 2021. In ciascuna biblioteca in media ci sono 29 posti per la consultazione e la lettura. Quelli per altre attività sono presenti nel 69,5% delle strutture, quelli per bambini nel 58,8% e per ragazzi nel 53,4%.
    Per quanto riguarda gli accessi fisici, sono stati 34 milioni in un anno, ovvero 5.900 per ciascuna struttura, una media di 30 al giorno di apertura. Poco meno di cinque milioni di utenti hanno usufruito di almeno un servizio, per un totale di 30 milioni di prestiti fisici erogati.
    Quasi il 60% delle biblioteche sono state aperte per circa 200 giorni su 252 lavorativi. Quelle pubbliche hanno mediamente cinque addetti tra personale interno, di ditte esterne, collaboratori, volontari e operatori del servizio civile. Due sono bibliotecari.
    In otto biblioteche su 10 (78,5%) sono stati realizzati interventi per rendere accessibili le aree comuni alle persone disabili, ma solo il 16,7% organizza progetti per chi ha una disabilità. Il 14,6% ha attivato progetti per chi vive in povertà economica, educativa o culturale. Le principali iniziative riguardano la promozione della lettura e gli incontri con gli autori (70,4%) e i laboratori per i bambini (65,1%). A fronte di una maggiore disponibilità finanziaria, quasi un terzo delle biblioteche promuoverebbe attività volte a coinvolgere il territorio (30,3%) e organizzerebbe incontri ed eventi culturali per ampliare l'offerta culturale (29,2%). 

(Fonte: Ansa)

Addio a Kadare, l'ultimo libro dello scrittore albanese uscirà in Italia a ottobre


 

Quando un dittatore chiama, pubblicato dalla Nave di Teseo

Quando un dittatore chiama, l'ultimo libro di Ismail Kadare, il grande scrittore, poeta e sceneggiatore albanese, morto a 88 anni, sarà nelle librerie italiane ad ottobre 2024 per La nave di Teseo nella traduzione di Cettina Caliò.


Considerato tra i migliori libri del 2023 dal 'Wall Street Journal', selezionato per l'International Booker Prize 2024, nel romanzo di 164 pagine Kadare ricostruisce, con un'affascinante combinazione di momenti onirici e indagini su fonti attendibili, i tre minuti di una telefonata tra Stalin e Pasternak e quello che questo momento teso, misterioso e assai poco conosciuto della storia moderna, ha causato. Si narra che nel giugno del 1934 Joseph Stalin telefonò al famoso romanziere e poeta Boris Pasternak per discutere dell'arresto del poeta sovietico Osip Mandelstam.
 

"Il compagno Stalin desidera parlare con te".
Intrecciando le testimonianze di personaggi legati a Pasternak e Mandelstam, scrittori come Isaiah Berlin e Anna Achmatova e giornalisti, Kadare da vita a un romanzo avvincente che mette in luce i rapporti tra arte e potere in cui uno scrittore, che dovrebbe essere libero per definizione, è costretto a fare i conti con la politica e con un tiranno sanguinario. Un racconto febbrile e sentito che rivela inquietanti similitudini con l'esperienza diretta di Kadare quando, sotto la feroce dittatura di Hoxha, ricevette anche lui una telefonata inaspettata.
La nave di Teseo, presso cui è in corso di riedizione l'opera di Kadare - vincitore nel 2005 della prima edizione dell'International Booker Prize, nel 2009 del Premio Principe delle Asturie, più volte candidato alla selezione finale per il premio Nobel e membro d'onore dell'Académie française - ha pubblicato La bambola (2017), La provocazione (2018), Aprile spezzato (2019), La città di pietra (2021), Le mattine al Café Rostand (2021), Il dossier O. (2022) e Il palazzo dei sogni (2023). 

(Fonte: Ansa)
   

La figlia della Nobel Munro: 'Abusi dal mio patrigno, lei sapeva'

Il duro racconto sulla sua infanzia affidato al Toronto Star

Per la maestra del racconto che per decenni ha puntato i riflettori su intricati rapporti familiari e' un'onta e uno shock: la premio Nobel Alice Munro sapeva che il suo secondo marito aveva stuprato e molestato ripetutamente una delle sue figlie da quando la ragazzina aveva appena nove anni e tuttavia aveva continuato a stare con lui fino a quando non era morto nel 2013.

L'oscuro segreto di casa Munro e' emerso in un articolo sul Toronto Star della diretta interessata, Andrea Robin Skinner, ormai adulta

Gli abusi sarebbero cominciati nel 1976 quando una notte, mentre Alice non era in casa, il patrigno Gerald Fremlin si introdusse nel letto della bambina per aggredirla sessualmente.

Gli abusi erano continuati fino a quando Andrea Robin non era diventata teen-ager: "Mi raccontava delle ragazzine del vicinato che gli piacevano e dei bisogni sessuali di mia madre. Quando eravamo soli in macchina ne approfittava per calarsi i pantaloni e farsi veder nudo". Arrivata a 25 anni, dopo aver letto un racconto in cui Alice mostrava simpatia per un personaggio morto suicida dopo esser stata abusata dal patrigno, la ormai giovane donna si era confidata con la madre, che tuttavia aveva deciso di restare con Fremlin, un vecchio compagno di università sposato negli anni '70 dopo la fine del primo matrimonio.

"Reagi' come temevo che avrebbe fatto, come se avesse appreso di una sua infedelta'", ha scritto la Skinner: "Cosi' tornammo a fare come se niente fosse". Arrivata a 38 anni, tre decenni dopo l'inizio degli abusi, Andrea Robin si era pero' rivolta alla polizia dopo aver letto un'intervista di Alice al New York Times in cui la scrittrice era piena di elogi per il secondo marito. Nel 2005, ormai ottantenne, Fremlin si era dichiarato colpevole di atti osceni e aggressione indecente ed era stato condannato a due anni di liberta' vigilata. "Volevo che quel che era successo fosse messo agli atti, che venisse registrato che non mi ero meritata quanto avevo subito", ha detto la donna: "Volevo anche che la mia storia diventasse parte di quanto si dice quando si parla di mia madre".

Invece, a causa della fama materna, "continuo' il silenzio". La Munro ha vinto il Nobel nel 2013, l'anno della morte di Fremlin. A quel punto la scrittrice aveva cominciato a mostrare i primi segni della demenza che l'ha accompagnata fino alla morte il 13 maggio 2024. L'anno prima la maestra del racconto aveva smesso di scrivere: la sua ultima raccolta, Dear Life - Uscirne Vivi, e' stata pubblicata in Italia con Einaudi dieci anni fa. 
(Fonte: Ansa) 

giovedì 2 maggio 2024

Dagli archivi di YouTube: il giornalista Roberto Saviano e l’attore Pierfrancesco Favino parlano del volume di Ugo Pettenghi, “La grande crisi del ‘29”, pubblicato dalle Edizioni La Zisa, e della casa editrice palermitana.


“La grande crisi del ‘29” ripropone una pagina complessa, e quanto mai attuale, della storia americana. Il 1929 e la crisi di Wall Street non rappresentano solo una macchia luttuosa della storia contemporanea, ma anche la prima vera incrinatura di un sistema considerato perfetto. Spesso i libri che parlano di storia e si danno aria di “saggi” finiscono per diventare noiosi. Sicuramente questo non è il caso del libro di Ugo Pettenghi, che con uno stile semplice e discorsivo porta il lettore a immedesimarsi con i piccoli risparmiatori. 

Pettenghi, cronista di altri tempi, non spiega ma racconta ,attraverso gli occhi abbagliati di tanti americani, la fine di un sogno chiamato capitalismo. Durante il mandato di Hoover la borsa, gonfiata da titoli fantasma e da falsi bilanci, tracolla il 24 ottobre 1929, lasciando il “paese dei miracoli” con milioni di disoccupati, migliaia di aziende chiuse e tanti risparmiatori sul lastrico. L’occhio del cronista focalizza la sua attenzione sui cittadini americani, su come fossero diventati patiti di Wall Street e del suo gioco, unico svago legale al tempo, visto il proibizionismo. 

Di come fossero pronti a vendersi per le strade, dopo aver scoperto che le proprie azioni erano diventate pezzi di carta senza alcun valore. Ma come ricorda Pettenghi “… quasi sempre lo schiavo bianco restava senza compratore…”. Il disastro del 1929 non si limita all’America, ma trascina dietro di sé un’Europa distratta e piena di debiti, che porterà al trionfo Hitler e Mussolini. Non manca una critica di sottofondo alla fine del libro, che Pettenghi dedica alle vicende di Sam Insull, unica testa considerata responsabile del crollo del 1929: un uomo inseguito per anni dalle forze dell’ordine americane, con due milioni di nemici lasciati in patria. Tuttavia questo libricino lascia l’amaro in bocca per un altro motivo, e cioè che leggendolo sembra di ascoltare un telegiornale recente. Nella speranza che l’uomo faccia la storia, ma che la memoria faccia l’uomo.

Ugo Pettenghi, “La grande crisi del ’29. Una storia che si ripete”, Prefazione di Nino Amadore, Con una nota di Michelangelo Bellinetti, Edizioni La Zisa

lunedì 22 aprile 2024

Torna in libreria il più antico ricettario di cucina tradizionale ebraica italiana!

 


 

Ines De Benedetti, “Poesia nascosta. Le ricette della cucina tradizionale ebraica italiana”, Edizioni La Zisa, A cura di Davide Romano, Presentazione di Daniela Fubini, Prefazione alla terza edizione di Nanette R. Hayon, Prefazione alla seconda edizione di Ines De Benedetti, Prefazione alla prima edizione di Lucia Levi, Illustrazioni di Letizia Romano

 

Ines De Benedetti, con la sua “Poesia nascosta”, non ha soltanto raccolto e pubblicato delle ricette. Ha messo a disposizione di quattro generazioni di famiglie ebraiche italiane (fino ad oggi) un compendio di kasherut (regole alimentari ebraiche) applicato, vissuto nel quotidiano in modi che nella sua, di generazione, erano evidentemente a rischio di andare perduti. E Lucia Levi nel presentare il libro al lettore di allora ne ha segnalato subito il valore come strumento per riportare i sapori ebraici alla tavola insieme ai rituali e all’osservanza dei precetti. Oggi, a distanza che appare siderale dagli anni del primo dopoguerra, dopo la seconda guerra, la Shoah e il ritorno alla vita, dopo l’arrivo in Italia degli ebrei da tutto il mondo arabo, con tradizioni ebraiche e culinarie tutte nuove, ancora oggi la Poesia nascosta trova spazio nelle nostre cucine. Con i suoi fogli macchiati e unti dall’uso, le annotazioni a margine e le modifiche appuntate su foglietti volanti, è un pezzetto di storia ebraica italiana, rivolto come la sua autrice a un futuro più consapevole e orgoglioso della propria tradizione, anche culinaria.

(dalla Presentazione di Daniela Fubini)

 

Ines De Benedetti, nata il 12 novembre 1874, è scomparsa a Padova nel 1960. Per anni è stata presidente della sezione padovana, da lei fondata nel 1929, dell’ADEI, l’Associazione Donne Ebree d’Italia, diventata in seguito ADEI Wizo, che si occupa di volontariato sociale e di diffondere la cultura e i valori dell’ebraismo e del sionismo, nonché di promuovere la condizione della donna e sostenere le istituzioni Wizo in Israele.


La cucina russa è servita... in un libro!

 


 

Il volume "Non solo caviale" di Tatiana Kalinina raccoglie ricette semplici e piatti più elaborati, per un approccio facile e gustoso ai sapori dell'est

Un viaggio nella cucina russa. Per scoprire non solo nuove ricette e sapori diversi, ma anche abitudini e costumi della Russia sovietica e immediatamente post-sovietica. Nel libro, curato dal giornalista Davide Romano, “Non solo caviale. Le ricette della cucina tradizionale russa” di Tatiana Kalinina (edizioni La Zisa) è infatti stata raccolta una selezione di ricette russe, in parte recuperate dall’autrice da alcuni ricettari russi degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.

“Fin da piccola ho sempre amato cucinare - racconta l’autrice -. E, da sola o insieme a qualche amica, mi divertivo a rielaborare piatti già conosciuti. Durante la mia infanzia, però, non c’era una grande varietà di prodotti, quindi capitava spesso di dover utilizzare fantasia e creatività per poter realizzare pranzi invitanti, anche se con pochi ingredienti a disposizione”.

I piatti proposti nel libro, spiega Tatiana Kalinina, rappresentano un mix di ricette semplici, realizzabili con pochi ingredienti, e ricette più elaborate. “Al giorno d'oggi in commercio si trovano tantissimi libri dedicati alla cucina russa - prosegue Kalinina -, ma la mia idea era quella di realizzare un volume snello che, oltre alle ricette più popolari, offrisse anche una breve storia dei singoli piatti. Un manuale che consiglierei soprattutto a coloro che si stanno preparando per un viaggio in Russia, in modo da poter essere preparati ad assaggiare nuove pietanze, senza pregiudizi, ma con una sana curiosità”.

Da borsch ai pelmeny, sono tantissimi i piatti particolari della tradizione russa, spesso sconosciuti agli italiani. “Difficilmente entreranno nella quotidianità delle famiglie italiane - prosegue -, ma alle persone più curiose suggerirei di provare qualche insalata fresca, le zuppe di funghi, i secondi piatti di pesce o i bliny con salmone e caviale”.

E a proposito dei gusti degli italiani verso la cucina russa: “Mi sembra che gli italiani siano dei buongustai, anche se ho l’impressione che non amino i sapori troppo forti, come l’eccessivo utilizzo di sale e di condimenti grassi, che invece le rigide condizioni climatiche del nostro Paese richiedono”.

 

(fonte: https://it.rbth.com/)

 

Mafia, È morto Vincenzo Agostino, il padre coraggio simbolo della lotta alla mafia. Il figlio Nino fu ucciso insieme alla moglie incinta


Il figlio Nino, agente di polizia, venne ucciso con la moglie dai killer di Cosa nostra nel 1989. All’aula bunker riconobbe «faccia da mostro» durante un drammatico confronto all’americana

È morto Vincenzo Agostino, il papà dell'agente della polizia di stato Nino, ucciso da Cosa Nostra assieme alla moglie Ida Castelluccio, l'8 agosto 1989. Vincenzo Agostino, nato il 22 marzo 1937, era il papà coraggio, che non si era mai rassegnato alla morte del figlio e della nuora - incinta di qualche mese - e aveva da subito denunciato i tentativi di depistaggio legati al duplice omicidio.

Aveva una lunga barba bianca che - aveva detto - «non avrebbe più tagliato» fino a quando non sarebbe emersa la verità sui mandanti del duplice omicidio, sui silenzi e soprattutto sui depistaggi alle indagini. Vincenzo ha continuato a combattere per il figlio anche dopo la morte di sua moglie, Augusta Schiera, avvenuta a febbraio 2019.

La scomparsa di Vincenzo Agostino non rappresenta la fine della battaglia intrapresa in nome di suo figlio, l'agente di polizia Nino, e della moglie di quest'ultimo, Ida Castelluccio, trucidati da Cosa nostra il 5 agosto 1989. Per questo delitto - per cui furono molteplici le piste investigative, di cui alcune totalmente depistanti - sono state accusate tre persone, tra le quali il boss di Resuttana Nino Madonia, il killer preferito da Toto' Riina, che ha optato per il rito abbreviato e nel 2021 è stato condannato all'ergastolo, confermato anche in appello il 5 ottobre scorso.

Anche quel giorno Vincenzo - accompagnato dalle figlie, dai nipoti e dalla sua inseparabile scorta ma senza più la moglie Augusta Schiera, scomparsa nel 2019 - si presentò al palazzo di giustizia di Palermo. La sua barba bianca, che aveva deciso di non tagliare finché non fosse stata fatta giustizia per il proprio figlio, il passo lento ma deciso agevolato da un bastone, dopo la sentenza Vincenzo Agostino fu netto, come sempre: «Sono soddisfatto perché hanno condannato il macellaio di mio figlio e di mia nuora. Soddisfatto anche per mia moglie, desideravo tanto che ci fosse anche lei accanto a me. Ora toglierò la scritta sulla sua lapide 'morta in attesa di verità e giustizia. Si sta avvicinando il giorno in cui potrei tagliare la barba, perché si avvia a conclusione anche il procedimento ordinario, in caso di condanna posso dire che quel giorno posso mantenere la promessa che ho fatto sulla tomba di mio figlio«.

«Oggi - aveva scritto su Facebook il mese prima rivolgendosi alla moglie - avremmo festeggiato 64 anni di matrimonio. Ogni secondo senza di te e' un'agonia, mi manchi infinitamente. Continuerò ad amarti, sempre tuo, Vincenzo».

Gli altri due imputati - sotto processo con il rito ordinario sono il boss dell'Arenella Gaetano Scotto, accusato del duplice omicidio aggravato, e Francesco Paolo Rizzuto, uno amico di Nino Agostino, accusato di favoreggiamento. Anche in questo procedimento Vincenzo - costituitosi parte civile, assistito dall'avvocato Fabio Repici e con lui anche le figlie, i nipoti e i familiari di Ida Castelluccio, tra gli altri - ha sempre voluto essere presente, a ogni udienza, nonostante gli acciacchi dovuti all'età.

Assisterà da altrove alla sentenza, essendo il processo alle battute finali: hanno già discusso le parti civili, il 3 maggio e il 21 sono in programma gli interventi dei difensori degli imputati e poi la Corte d'assise, presieduta da Sergio Gulotta, dovrebbe ritirarsi in camera di consiglio per la sentenza.

(Fonte: La Stampa)

Gli editori sul caso Scurati: libertà di espressione è cuore della democrazia



“L’Associazione Italiana Editori è a fianco degli editori nel ribadire che la libertà di espressione è al cuore della democrazia ed è principio guida inderogabile per tutto il mondo del libro. Un Paese forte della sua democrazia non dovrebbe mai temere le opinioni degli scrittori, qualunque esse siano”. Lo ha dichiarato il presidente di AIE Innocenzo Cipolletta in merito al dibattito che si sta sviluppando intorno alla cancellazione del monologo dello scrittore Antonio Scurati sul 25 aprile che sarebbe dovuto andare in onda su Rai3.

(Fonte: https://www.primaonline.it/)

mercoledì 10 aprile 2024

Anniversario. Il genocidio del Ruanda non è stata solo una parentesi di follia

 

Da quel 6 aprile del 1994, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Tedeschi e belgi avevano preparato lo scenario, dividendo i ruandesi per tribù

Trent’anni. E sembra ieri. I machete che si alzavano per uccidere il vicino, le radio che incitavano all’odio, l’Occidente che si girava dall’altra parte, dopo aver contribuito a creare le premesse per il disastro. Ottocentomila morti in 100 giorni, nella stragrande maggioranza tutsi, per mano delle milizie hutu, il gruppo maggioritario del popolo ruandese. L’odio e l’orrore li abbiamo visti e raccontati in mille ricostruzioni, film, libri, testimonianze, un flusso di parole e immagini che hanno provato a descrivere come, da quel 6 aprile del ’94, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Gli europei – i tedeschi prima, i belgi dopo – avevano preparato lo scenario, introducendo negli anni Trenta le carte d’identità e dividendo i ruandesi per tribù: prima, in Ruanda, si consideravano tutti ruandesi.

Poi i colonizzatori favorirono la minoranza tutsi, considerandola superiore. Funzionò fino alla “rivoluzione hutu” dei primi anni Sessanta, primo soffio di quella ventata d’odio che sferzò il Ruanda fino al genocidio, a quello «schiacciare gli scarafaggi tutsi» di cui il mondo finse di accorgersi troppo tardi. La notte di quel 6 aprile l’aereo su cui viaggiava l’allora presidente ruandese Juvénal Habyarimana, un hutu, fu colpito con un missile terra-aria vicino all’aeroporto della capitale Kigali. Fu la scintilla che causò la successiva uccisione del 20% della popolazione ruandese e lo smembramento di famiglie, comunità, amicizie nel Paese dalle mille colline. Uno dei massacri più sanguinosi avvenne a Murambi: 50mila tutsi, abbandonati dalle truppe francesi, vennero massacrati in appena otto ore. Molti di loro si erano rifugiati in un centro di formazione. Sopravvissero appena in 34: oggi il memoriale che ricorda quell’eccidio è uno dei sei principali luoghi della memoria di quanto avvenne in quei giorni.

Gli assalti di massa finirono solo quando il Fronte patriottico ruandese, un’armata formata da tutsi e hutu moderati e guidata dall’attuale presidente Paul Kagame, riuscì a conquistare la capitale. Era metà luglio, le immagini delle file infinite dei teschi delle vittime del genocidio facevano il giro del mondo, mentre un milione di profughi hutu, ai quali si mischiarono le brutali milizie Interamwe, fuggiva nei Paesi vicini per paura di vendette. C’erano, evidentemente, troppe persone da processare e con ruoli diversi nel genocidio: ai tribunali locali si affiancarono nel tempo un Tribunale penale internazionale con sede ad Arusha, in Tanzania, e le corti tradizionali gacaca, che ebbero un ruolo anche di riconciliazione per le comunità, oltre che di giustizia per i sopravvissuti.

Trent’anni dopo, cosa ne è di quei fatti, che Paese è diventato il Ruanda, che ruolo ha nello scenario regionale? Kagame, 66 anni e solidi rapporti con l’Occidente, è ancora lì, vincitore di tre successive tornate di elezioni presidenziali con oltre il 95% dei voti. Il 15 luglio si vota di nuovo e non c’è dubbio alcuno sulla sua riconferma: corre da solo, o quasi. L’unico sfidante è Frank Habineza, del partito dei Verdi: nel 2017 ha avuto lo 0,45% dei consensi. Victoire Ingabire, unica esponente di spicco dell’opposizione, è stata bandita direttamente dai giudici. Non potrà candidarsi perché la magistratura ha respinto la sua richiesta di ottenere nuovamente i diritti civili di cui è stata privata dopo la contestata condanna di 11 anni fa a 15 anni di carcere, metà dei quali “abbonati” con una grazia. «Decisione politicizzata, i tribunali non sono indipendenti», il suo commento. Non potrà fare appello se non prima di due anni.

Se è difficile negare l’importante ruolo ricoperto da Kagame per la stabilità e lo sviluppo del Ruanda post-genocidio, da più parti sono arrivate negli anni al presidente ruandese accuse sul suo mancato rispetto dei diritti umani, della libertà dei media e dell’opposizione. I cambiamenti della Costituzione gli consentono di governare per altri due mandati quinquennali: difficile che Kagame ci rinunci. Negli anni il Ruanda è diventato da un lato uno dei Paesi più tecnologici del continente africano, e con indicatori in crescita su scuola e sanità, dall’altro si è assegnato il ruolo di “poliziotto d’Africa”, inviando suoi militari negli scenari di crisi diventando tra i principali fornitori di truppe per le missioni Onu. Il suo interventismo, dal Centrafrica al Mozambico, è stato spesso apprezzato, anche se qualche critica non è mancata.

Le accuse principali, però, riguardano il coinvolgimento ruandese nel Kivu, la regione orientale della Repubblica democratica del Congo ricca di risorse ma devastata dalle milizie armate. Il Ruanda è sospettato dal governo congolese di sostenere in particolare il gruppo M23. Proprio tramite il Ruanda verrebbero smerciati minerali di cui viene depredato l’Est del Congo. Tantalio, stagno, tungsteno, oro, litio, terre rare: anche l’Ue ha siglato a febbraio con Kigali un accordo sulla sostenibilità e tracciabilità di minerali strategici. Ma il Ruanda «ne è diventato grande esportatore solo grazie alle guerre che esso ha acceso a ripetizione nella Repubblica democratica del Congo a partire dal 1996, sempre attraverso interposti movimenti di copertura, che in questi anni prendono il nome di M23», hanno accusato ancora di recente otto enti tra cui Rete pace per il Congo. Lotta per le risorse e il potere, vittime, profughi: l’eterno passato che rischia di non passare mai, pur in altre forme, pur in altri modi.

(Fonte: Avvenire)

martedì 9 aprile 2024

In libreria: Ernesto Buonaiuti, “Apologia del cattolicesimo”, a cura di Davide Romano, prefazione di Francesco Armetta, Edizioni La Zisa


 

L’Apologia del cattolicesimo venne pubblicata per la prima volta a Roma nel 1923 all’interno della collana Apologie, creata e diretta da Angelo Fortunato Formiggini. L’Apologia e il saggio di apologetica religiosa intitolato Verso la luce, guadagnarono al Buonaiuti la scomunica papale e la messa all’indice di tutte le sue opere. Le argomentazioni, così come affrontate dal Buonaiuti nell’Apologia, non si basavano più sui precetti della filosofia scolastica ma erano impregnate di un misticismo che diede vita ad una sorta di antitetico individualismo dell’anima. È lo stesso Buonaiuti a chiarire sin dall’inizio la sua tesi apologetica: «il movimento religioso, scaturito dalla predicazione del Vangelo, rappresenta la perfezione soprannaturale nello sviluppo della religiosità umana, e che del cristianesimo, sigillato e consacrato dalla luce incontaminata di un divino afflato rivelatore, il cattolicismo costituisce in una completa identità sostanziale la logica realizzazione nella storia».


Ernesto Buonaiuti (1881-1946), illustre esponente della corrente modernista italiana, presbitero e accademico, nei suoi studi indagò ogni aspetto e ogni figura appartenente alla storia cristiana. Oltre all’Apologia possiamo ricordare, tra i suoi scritti più significativi, Lutero e la Riforma religiosa in GermaniaGioacchino da FioreStoria del cristianesimo e l’autobiografia dal titolo Pellegrino di Roma.


martedì 2 aprile 2024

In libreria la ristampa del saggio di Laura Veccia Vaglieri, “Apologia dell’islamismo”, a cura di Davide Romano, con una nota di padre Marcello Di Tora op., Edizioni La Zisa

 

 


Quest’opera, concepita per celebrare la grandezza dell’Islam, è stata pubblicata per la prima volta nel 1925 dall’editore Formiggini e rivede ora la luce grazie all’opera meritoria della casa editrice La Zisa di Palermo, sempre attenta a riscoprire autentici gioielli ormai da tempo sepolti.

A distanza di quasi un secolo, l’autrice, la celebre arabista e islamista Laura Veccia Vaglieri, ci invita a considerare «l’Islam come religione e come civiltà, ancorate nella perfezione insuperabile e divina del Corano».

«Dunque, una religione, una rivelazione che (…) conferma e rinnova il messaggio dell’unico e stesso Dio per mezzo di un profeta, Muhammad, che si iscrive nella catena degli inviati o profeti divini che (…) hanno ricordato alle loro rispettive comunità religiose il monito divino alla responsabilità sacrale e spirituale dell’uomo in questo mondo. Quale Monito? (…) “considerare Iddio unico nella Sua sovranità, a Lui sottomettendosi devotamente, a Lui prestare obbedienza nei comandi e nelle proibizioni, facendo il bene e astenendosi dal male”».

 

Laura Veccia Vaglieri (1893 – 1989), antesignana dell’arabistica e dell’islamologia italiane, fu professore ordinario presso l’Istituto Orientale di Napoli e autrice d’importanti manuali che svelano la sua approfondita conoscenza della cultura arabo-islamica e della lingua araba. Oltre al presente volume, si ricorda il più completo e preciso testo di grammatica araba scrittoi in lingua italiana: “Grammatica teorico–pratica della lingua araba”.

 


sabato 30 marzo 2024

Torna in libreria il saggio di Dante Lattes, “Apologia dell'ebraismo”, a cura di Davide Romano, prefazione di Rav Giuseppe Laras, nota di Claudio Vercelli, La Zisa



Quest'opera di Dante Lattes, pubblicata per la prima volta dall'editore Formiggini nel 1923, all'interno di una collana di Apologie, continua ad essere un valido strumento per un primo, esaustivo approccio alla religione e alla cultura ebraica, ancora oggi poco o approssimativamente conosciute in Italia, ma alle quali tutti siamo largamente debitori. Se a ragione l'uomo moderno “non può non dirsi cristiano”, non è meno vero che la storia dell'umanità avrebbe preso una strada diversa, e senza dubbio peggiore, senza l'apporto fecondo e determinante del popolo ebraico. Conoscere l'ebraismo è, dunque, necessario per riflettere sulle nostre radici e, nel contempo, valutare se il nostro percorso ha pienamente tenuto conto degli insegnamenti morali e sociali elaborati dalla Chiesa e dalla intellighenzia di Israele. Merito dell’editore La Zisa è di aver riportato in libreria un testo agile e fondamentale per comprendere la religione e la cultura d’Israele.

 

Dante Lattes (1876-1965), uno dei maggiori rappresentanti dell'ebraismo italiano, è stato scrittore, giornalista (“Il corriere israelitico”, “Israel”, “La Rassegna Mensile di Israel”, del quale è stato direttore fino alla morte), traduttore, educatore, rabbino. Oltre al presente volume, si ricordano: “Commento alla Bibbia”, “Il sionismo” e “Nel solco della Bibbia”.


giovedì 28 marzo 2024

Torna in libreria il saggio di Anna Momigliano, “Israele e gli altri. Un dissidio irrisolto”, prefazione di Tobia Zevi, Edizioni La Zisa


 

Per cercare di comprendere le radici di un conflitto che sembra ormai infinito


“Lo Stato di Israele […] è grande più o meno quanto la Sicilia. Vi risiedono circa sei milioni di ebrei e due di arabi, senza contare gli abitanti della Cisgiordania. In più vi sono una serie di minoranze storiche ma non così conosciute: drusi, circassi, beduini, ecc. […] l’identità di questa terra è talmente complessa che possono percepirsi eccentrici, rispetto alla maggioranza, i giovani che non si riconoscono nella politica e nel mainstream; la classe media che perde potere d’acquisto e non riesce a pagarsi un affitto; gli arabi israeliani che si sentono cittadini di serie B; gli arabi cristiani rispetto alla maggioranza musulmana; i neri africani in rapporto alle altre etnie; le popolazioni beduine e nomadi; i lavoratori immigrati del Sud-est asiatico; i religiosi e i laici, entrambi; i russi o gli etiopici di fronte ai pionieri; i sefarditi nei confronti degli ashkenaziti. Il miracolo del sionismo consiste proprio nell’aver integrato – tra mille contraddizioni – milioni di esseri umani in pochissimi anni: solo tra il 1945 e il 1951 sbarcarono circa 685 mila immigrati, innestandosi su una popolazione di 650 mila persone, […]. Pensiamo a cosa succederebbe in Italia – considerato il livello dell’attuale dibattito pubblico – se arrivassero 65 milioni di immigrati nei prossimi cinque anni!”. (dalla Prefazione di Tobia Zevi).

 

Anna Momigliano collabora con il New York Times e il Mulino. Ha scritto Karma Kosher. I giovani israeliani tra guerra, pace, politica e rock’n’roll (Marsilio 2009).  

martedì 26 marzo 2024

In libreria: Girolamo Li Causi, “Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960”, a cura di Davide Romano, prefazione di Oliviero Diliberto, Ed. La Zisa

 



Questa opera inedita di Girolamo Li Causi, terminata nel 1974, e non più rivista dall’Autore, è una lunga riflessione critica, ed autocritica, sull’attività svolta dal PCI e dalle classi dirigenti siciliane, negli anni della ricostruzione post-bellica, dai mesi immediatamente successivi allo sbarco delle truppe anglo-americane sino alla formazione dei governi Milazzo. Un arco di tempo lungo un quindicennio, durante il quale Li Causi assolse anche l’incarico di segretario regionale del partito. Da questo suo osservatorio privilegiato emerge il ritratto vivo e spesso pungente di uomini e vicende che hanno segnato la storia passata e presente dell’Isola.

 

GIROLAMO LI CAUSI (Termini Imerese 1906 - Roma 1977) è stato uno dei massimi dirigenti nazionali del Partito comunista italiano, al quale aderì giovanissimo poco dopo la sua fondazione. Parlamentare per diverse legislature, è stato per alcuni anni vice presidente della Commissione nazionale antimafia. Collaboratore e direttore di numerosi periodici, ha pubblicato: Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma, Editori Riuniti, 1974.

 

DAVIDE ROMANO, giornalista. Da sempre attivo nel mondo del volontariato e appassionato di studi religiosi, lavora da molti anni nell’ambito della comunicazione politica, culturale, religiosa e sindacale. Ha scritto e scrive per numerose testate ed è stato anche fondatore e direttore responsabile del bimestrale di economia, politica e cultura “Nuovo Mezzogiorno” e del mensile della “Funzione Pubblica Cgil Sicilia Forum 98”.  Ha pubblicato, tra l’altro: “L'amore maldestro”, Palermo 2001; “La linea d’orizzonte tra carne e Cielo”, Prefazione di Paolo Scrima, Palermo 2003; “La buriana e altri racconti”, Prefazione di Maurizio Rizza, Palermo 2003; “Nella città opulenta. Microstorie di vita quotidiana”, Prefazione di Diego Novelli, Palermo 2003, 2004; “L’anima in tasca”, Prefazione di Antonio Riolo, Palermo 2004; “Piccola guida ai monasteri e ai conventi di Sicilia”, Palermo 2004; “Il santo mendicante. Vita di Giuseppe Benedetto Labre”, Palermo 2005; “25 e non li dimostra. Storia della Funzione pubblica Cgil-Sicilia”, Palermo 2005; “Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera”, Presentazione di Rosalinda Camarda, Prefazione di Pino Apprendi, Palermo 2005; “La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo contemporaneo”, Presentazione di Marcelle Padovani, Prefazione di Anna La Rosa, Con un contributo di don Vitaliano della Sala, Palermo 2007; “A mio padre con rabbia” in Aa. Vv., “Specchio poetico. Raccolte in dialogo”, Sant’Arcangelo di Romagna (Rn) 2008; “Bagnarsi di sole, nutrirsi d’arte. L’Italia vista dai russi”, Palermo 2010, 2015; (con Fabio Bonasera) “Inganno padano. La vera storia della Lega Nord”, Prefazione di Furio Colombo, Palermo 2010, 2011; “Uno spettro s'avanza. Globalizzazione, mafie, diritti e nuova cittadinanza”, Presentazione di Paolo Ferrero, Prefazione di Daniele Gallo, Palermo 2011, 2013. Ha curato, fra gli altri, i seguenti volumi: Ines De Benedetti, “Poesia nascosta. Le ricette della cucina tradizionale ebraica italiana”, Palermo 2013, 2015, 2017; Tatiana Kalinina, "Non solo caviale. Le ricette della cucina tradizionale russa”; Lev Tolstoj, “Riflessioni di un vegetariano”, Palermo 2017; Lev Tolstoj, “Vita di Gesù e altri scritti”, Palermo 2017.

Ha fondato la comunità informale di cristiani La Compagnia del Vangelo per il servizio degli ultimi.

lacompagniadelvangelo.blogspot.com

 

 

La prefazione di Oliviero Diliberto

 

Gli anni raccontati da Girolamo Li Causi in questo straordinario libro sono quelli decisivi della Repubblica italiana, quelli che l’hanno indelebilmente segnata, ne hanno condizionato il futuro sviluppo: anni che pesano ancor oggi. Dal 1944 al 1960, accade infatti praticamente tutto. La fine della guerra e la vittoria sul nazi-fascismo; la formazione dei primi governi democratici di unità nazionale e la successiva esclusione delle sinistre da essi; l’Assemblea Costituente e la nascita della Costituzione; l’attentato a Togliatti; la sconfitta delle sinistre nel ’48 e il centrismo; l’avanzata del Pci e delle sinistre a prezzo di lotte, politiche e sociali, grandi e terribili; le conseguenti repressioni di Scelba; la legge-truffa, e poi ancora la crisi del centrismo, le prime avvisaglie del nascente centro-sinistra, e infine la formazione dei governi Milazzo alla Assemblea regionale siciliana, resa possibile da una spaccatura all’interno della Democrazia cristiana, e la conseguente estromissione temporanea di questo partito dalle leve del potere.

In questi primi anni si coglie soprattutto la fine di una stagione di speranze aperta dalla Resistenza, la constatazione che la classe dirigente sceglie allora di non rompere decisamente con il passato, di non voltare pagina – anche e soprattutto per via del contesto internazionale, il mondo diviso in due blocchi, la guerra fredda degli anni più cupi –, in un continuiamo deteriore tra passato e presente, tra apparati dello Stato gravemente collusi con il regime fascista e riciclati, a vario titolo, in quelli della nuova Repubblica. I nemici di ieri diventano “utili” in quel momento per contrastare i nuovi nemici, i comunisti: e certo non solo in Italia. Le conseguenze di quelle scelte sciagurate, in Sicilia come nel resto del Paese, le paghiamo ancor oggi.

Li Causi racconta tutto ciò da un’ottica particolare, ma decisiva: la Sicilia del dopoguerra. L’autore narra, da protagonista, la battaglia contro la mafia, la connessione tra Stato, malavita organizzata, economia forte, le incursioni dei servizi americani. Oggi, tutto ciò ci appare più evidente. Sono emersi documenti, testimonianze, i fatti si delineano nella loro gravità e complessità: ma in Li Causi – attore protagonista tra i più importanti del periodo, a livello siciliano e nazionale – l’analisi è sin da quegli anni di una lucidità che oggi appare straordinariamente lungimirante. Aveva già chiaro tutto. E lo diceva.

L’autore – è quasi superfluo dirlo, ma forse non è inutile sottolinearlo in questi tempi di perdita colpevole di memoria – è stato personaggio leggendario. Incarcerato nel 1928 dopo la condanna a 20 anni di reclusione comminata dal tribunale speciale del fascismo, liberato nel ’43, è subito tra i capi della Resistenza nel Nord Italia, poi dirige il partito e le lotte per l’occupazione delle terre (e non solo) in Sicilia, è autorevole parlamentare e membro della direzione nazionale del Pci.

Popolarissimo e amatissimo tra le masse, Li Causi è l’alfiere della lotta contro la mafia, quando in certi ambienti politici (e giornalistici) essa non si poteva neppure nominare, negandosi addirittura la sua esistenza. Li Causi accusava apertamente di connivenza con la mafia i vertici dei partiti di governo in Sicilia, ad iniziare ovviamente dalla Dc, parlava delle collusioni con Cosa Nostra: lo faceva quando pochissimi, isolatamente, osavano farlo. Le prove giudiziarie sono venute a galla solo nei processi più recenti. Ma quelle politiche erano già allora di fronte agli occhi di chi voleva vederle. Li Causi univa dunque la capacità, straordinaria, di conoscenza e di analisi, ad un eccezionale coraggio.

Emerge a tutto tondo la figura di Li Causi comunista. Ma anche di Li Causi siciliano. Di quella Sicilia che ha dato straordinarie figure di dirigenti, nel corso dei decenni, al Pci nazionale, ma che ha visto protagonisti anche migliaia di donne e uomini meno noti o sconosciuti, militanti e dirigenti locali, politici e sindacalisti, che hanno dedicato al riscatto della propria Isola tutta la loro vita, non di rado mettendola concretamente a repentaglio e talvolta perdendola, proprio in nome e per via delle battaglie antimafia. Un nome per tutti: Pio La Torre.

Guttuso – altro siciliano illustre – amava ripetere, con la civetteria dei siciliani colti e cosmopoliti, che anche quando dipingeva una mela, c’era dentro la Sicilia. Se la portava dietro ovunque fosse e qualunque cosa facesse. Saudade isolana, ma anche coscienza della propria identità forte, delle radici che non si recidono, di valori che urlano dentro di sé. Ed è proprio in Sicilia che Li Causi matura alcune delle sue convinzioni più profonde, ad iniziare dall’adesione senza tentennamenti, e da subito, alla svolta togliattiana del ’44, la nascita del partito nuovo, capace di unire sempre la protesta alla proposta, l’identità e le alleanze. Li Causi è sempre attento all’unità delle masse, mai velleitario, nemico giurato del massimalismo. Egli crede e si batte per un partito che aderisse pienamente ai valori e ai principi della nuova Costituzione, scegliendo di tenere uniti democrazia e socialismo.

Li Causi fu dirigente comunista di prima grandezza. Pieno di umanità e partecipazione personale ai drammi del sottosviluppo, della povertà, dell’emarginazione sociale. In lui, nelle sue pagine, si avverte come prioritaria gli appaia la lotta contro le ingiustizie, i soprusi, le prepotenze dei potenti contro gli umili: Manzoni avrebbe detto le soperchierie. Passione politica, dunque, unita sempre alla tensione morale. Ma dal libro si chiarisce anche che nei comunisti siciliani la battaglia per la legalità e quella per il riscatto sociale non siano mai astrattamente scisse, anzi esse appaiono indissolubili tra loro: pena la sconfitta su entrambi i terreni.

Un esempio, dunque, ancora oggi vivissimo. Queste riflessioni politiche inedite, che commentano e si incrociano con alcuni passi significativi della sua vicenda autobiografica postbellica, sono quindi utili, feconde, istruttive. Ne dobbiamo essere grati ai brillanti curatori, che allegano anche pagine particolarmente struggenti, come le lettere di Li Causi dal carcere e le testimonianze dei compagni e dei dirigenti del Pci, seguite alla sua scomparsa.

Concludendo la lettura, mi viene spontaneo pensare (ripensare, ancora una volta) allo scioglimento di quel partito – il Pci – al quale Li Causi e intere generazioni di comunisti in Italia hanno dedicato l’intera propria vita. Anche questo straordinario libro, infatti, testimonia la grandezza e i meriti storici di quella comunità di donne e uomini che lo costituivano. Vi ho riflettuto con amarezza.

Ma è motivo di ottimismo e di speranza pensare anche che questo libro possa esser letto, e meditato, da una generazione ancor più giovane: quella che viene dopo la mia e non ha conosciuto il Pci, per un ovvio fatto anagrafico. A questi giovani, che oggi hanno vent’anni, e nascevano quando crollava il Muro di Berlino, questo libro insegna che ciò che è stato fatto era giusto farlo e che i comunisti italiani sono stati i protagonisti della lotta per la democrazia, la legalità, l’emancipazione del popolo: in definitiva, per un’Italia migliore.

In definitiva, questo libro ci insegna, ancora una volta, quanto sia straordinariamente vitale il vecchio principio che i filosofi ci ripetono da un migliaio di anni. Noi, oggi, riusciamo a vedere più lontano di chi ci ha preceduto non perché siamo più bravi, ma semplicemente perché siamo nani issati sulle spalle di giganti.

 

Oliviero Diliberto