L'eterna lotta tra potenti e poveri nel nuovo romanzo del giornalista palermitano Nonuccio Anselmo. La guerra tra confraternite durante la Settimana santa diventa metafora della voglia di riscatto dei più deboli da tutti i soprusi.
Di chi è Gesù Cristo? Dei nobili che per blasone e tradizione da anni curano la deposizione del Venerdì Santo? O del popolo, che da quella cerimonia è sempre stato escluso e che finalmente trova il coraggio di rivendicare il proprio diritto, nel nome di un Cristo morto per tutti? E dove porta questa guerra del Cristo, in un paesino fine anni '50 dove ancora vivi sono gli echi della guerra del feudo, spenta nel sangue dai mafiosi legati a doppio filo ai signori del feudo?
È uno splendido affresco di una Sicilia antica e al tempo stesso immortale quello tratteggiato nel romanzo «I campieri di Cristo» del giornalista e scrittore Nonuccio Anselmo (edizioni La Zisa, 13 euro). Una Sicilia di provincia che Anselmo, una vita al Giornale di Sicilia del quale è stato caporedattore, ha descritto to già nei primi due suoi romanzi - «Farmacia Bisagna» e «I leoni d'oro» - e che ancora una volta offre molto da raccontare, se guardata con l'occhio attento del cronista che, appunto, osserva ciò che si offre alla sua vista.
Anche ne «I Campieri di Cristo» c'è un cronista che ha il sapore dell'antico storico: il maestro Brasi Ferrante, che dopo aver educato frotte di ragazzini, una volta andato in pensione, si dedica alla vera passione della sua vita, osservare e annotare, nel suo diario.
Ed è davvero un avvenimento storico quello che Brasi Ferrante annota nell'anno di grazia 1957: lo stravolgimento della tradizione che da anni si perpetua nella Settimana Santa, tradizione che prevede che la deposizione del Cristo morto sia appannaggio della Confraternita dei Bianchi. Sì, perché nell'anno di grazia 1957 accade che la Confraternita dei Rossi, che trova il suo capopolo in un giovane cresciuto a rabbia, lavoro e fatica, Luca Stellario, quel Cristo lo ruba, sotto il naso ai nobili, in uno storico Venerdì santo. Perché Cristo, almeno lui, è di tutti.
Il racconto si dipana snello, coinvolgente, tra le cronache del maestro Ferrante e l'azione vera e propria dei protagonisti, concentrata in pochi incalzanti giorni. Ne viene fuori un affresco mirabile, specie per l'attenzione che Anselmo, amante della storia e del folclore (ha scritto anche diversi saggi), dedica alla descrizione dei riti della Settimana santa, ancora molto sentiti in larga parte della Sicilia. Una descrizione non didascalica. I riti, attraverso i protagonisti del romanzo, vengono vissuti dall'interno. Con un finale amaro, un po' a sorpresa, che in fondo fa da corollario a tutta la vicenda.
Di chi è Gesù Cristo? Dei nobili che per blasone e tradizione da anni curano la deposizione del Venerdì Santo? O del popolo, che da quella cerimonia è sempre stato escluso e che finalmente trova il coraggio di rivendicare il proprio diritto, nel nome di un Cristo morto per tutti? E dove porta questa guerra del Cristo, in un paesino fine anni '50 dove ancora vivi sono gli echi della guerra del feudo, spenta nel sangue dai mafiosi legati a doppio filo ai signori del feudo?
È uno splendido affresco di una Sicilia antica e al tempo stesso immortale quello tratteggiato nel romanzo «I campieri di Cristo» del giornalista e scrittore Nonuccio Anselmo (edizioni La Zisa, 13 euro). Una Sicilia di provincia che Anselmo, una vita al Giornale di Sicilia del quale è stato caporedattore, ha descritto to già nei primi due suoi romanzi - «Farmacia Bisagna» e «I leoni d'oro» - e che ancora una volta offre molto da raccontare, se guardata con l'occhio attento del cronista che, appunto, osserva ciò che si offre alla sua vista.
Anche ne «I Campieri di Cristo» c'è un cronista che ha il sapore dell'antico storico: il maestro Brasi Ferrante, che dopo aver educato frotte di ragazzini, una volta andato in pensione, si dedica alla vera passione della sua vita, osservare e annotare, nel suo diario.
Ed è davvero un avvenimento storico quello che Brasi Ferrante annota nell'anno di grazia 1957: lo stravolgimento della tradizione che da anni si perpetua nella Settimana Santa, tradizione che prevede che la deposizione del Cristo morto sia appannaggio della Confraternita dei Bianchi. Sì, perché nell'anno di grazia 1957 accade che la Confraternita dei Rossi, che trova il suo capopolo in un giovane cresciuto a rabbia, lavoro e fatica, Luca Stellario, quel Cristo lo ruba, sotto il naso ai nobili, in uno storico Venerdì santo. Perché Cristo, almeno lui, è di tutti.
Il racconto si dipana snello, coinvolgente, tra le cronache del maestro Ferrante e l'azione vera e propria dei protagonisti, concentrata in pochi incalzanti giorni. Ne viene fuori un affresco mirabile, specie per l'attenzione che Anselmo, amante della storia e del folclore (ha scritto anche diversi saggi), dedica alla descrizione dei riti della Settimana santa, ancora molto sentiti in larga parte della Sicilia. Una descrizione non didascalica. I riti, attraverso i protagonisti del romanzo, vengono vissuti dall'interno. Con un finale amaro, un po' a sorpresa, che in fondo fa da corollario a tutta la vicenda.