Sergio Givone (Avvenire, sabato 9 novembre 2024)
Un saggio di Francesco Marino scandaglia il capolavoro: il
misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara e proveniente da un
minuscolo asteroide interroga l’uomo di ogni tempo
l problema che assilla la coscienza
occidentale moderna e soprattutto post-moderna è quello del rapporto tra
libertà e
Tutti conoscono il Piccolo Principe;
tutti almeno una volta nella vita sono stati sfiorati dall’idea che il
misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara provenendo da un
minuscolo asteroide ai confini dell’universo avesse qualcosa di molto
importante da dirci, anche se poi sarebbe difficile trovare qualcuno che gli
abbia davvero dato retta.
Ma nessuno o quasi nessuno finora era
andato a cercare negli scritti postumi dell’autore della favola più letta e più
tradotta nel mondo la conferma del suo sospetto: cioè che a far da presupposto
a quella favola fosse una riflessione filosofica di tutto rispetto in cui
Saint-Exupéry fu impegnato lungo tutta la vita.
E dire che non sarebbero mancate le
pezze d’appoggio, assai numerose. Vedi ad esempio la raccolta intitolata Citadelle e ordinata dallo stesso
Saint-Exupéry per temi e problemi di ordine speculativo. Ma vedi anche, e
soprattutto, i Carnets, che sono una
miniera di spunti, sia occasionali sia organici, e la dicono lunga sulla
temperie culturale fra le due guerre ma soprattutto testimoniano un pensiero in
divenire non privo d’una sua originalità e d’una sua novità anticipatrice.
In questo libro Francesco Marino
legge Le Petit Prince alla luce
dei Carnets e della Citadelle, ma anche della Correspondance, e ne ricava una tesi non
meno sorprendente che convincente. Sostiene Marino: la filosofia di
Saint-Exupéry – perché di filosofia si tratta – è tutta incentrata su un
concetto di verità che rompe con la tradizione metafisica e inaugura una prospettiva
che l’ermeneutica farà sua. Verità come esercizio di libertà. Verità come atto
e non come stato di cose. Verità come fare, come creare, anzi, come ridestare,
e non come contemplare o corrispondere. Ridestare che cosa? Ridestare
l’essenziale umano, dice Saint-Exupéry. L’essenziale umano non è qualcosa che è
lì e lì sta, da sempre, per sempre, immutabilmente. Cosa dell’essere,
l’essenziale umano non è a disposizione dell’uomo, come se l’uomo potesse farne
ciò che vuole e magari dargli il nome che crede, secondo il suo capriccio.
Al contrario, in esso l’uomo incontra
il suo sé più proprio, la sua vocazione, il suo destino. Grazie all’essere. È
l’essere a provocare l’uomo a essere sé stesso. Come da una trascendenza,
l’essere strappa l’uomo all’identità di sé con sé e lo chiama a rinascere altro
da sé, infinitamente altro, e ad abitare l’infinito. Ma è l’uomo ad accendere
nell’essere una luce che non è della natura perché è dello spirito. Venendo al
mondo l’uomo attesta che lo spirito è irriducibile alla natura. Questa
irriducibilità è la libertà. E la libertà è l’espressione di ciò che noi siamo
veramente. La libertà è la verità dell’essere: e non solo dell’essere al mondo,
ma dell’essere in quanto tale. Il mondo sarà pure la prigione dell’uomo. Ma se
l’uomo è prigioniero del mondo – questo il suggerimento di Saint- Exupéry – suo
primo dovere sarà fuggirsene via, tornare libero, riconquistare il cielo, sia
il cielo dove ci si libra in volo sia il cielo figurato dell’anima.
E come potrebbe l’uomo rispondere a
questo appello originario, se non in nome dell’essere? Originariamente l’essere
è libertà. Dire, come fa una certa metafisica (per esempio la metafisica che
Luigi Pareyson definiva “ontica”, ossia la metafisica che prende atto del dato
oggettivo, dello stato di cose esistente, dell’essere come essere-stato, e lo
identifica con la realtà contrapponendolo alla mera apparenza), che l’essere è
e non può non essere, insomma, dire che l’essere è necessità significa tradire
non solo il senso dell’essere ma addirittura la verità dell’essere. La verità
dell’essere è la libertà. Tolta la libertà, niente di ciò che è ha più alcun
senso. Tutto si fa opaco, si spegne, muore. Il mondo diventa il regno
dell’assurdo. Con la libertà, invece, non c’è cosa che non appaia degna di
essere accettata e addirittura amata. Al punto che anche la condizione più
miserabile, se liberamente scelta, acquista valore inestimabile. È il paradosso
della libertà. Ed è anzi, a voler andare perfino più in là, il paradosso
dell’amore.
Perché l’amore non è oggetto di
volontà. Tantomeno può essere imposto ad altri. Eppure, nel momento in cui ne
facciamo esperienza (nel momento in cui ci capita di amare, nel momento in cui
amiamo perché amiamo e non perché abbiamo deciso di amare) scopriamo che una
luce si è accesa da qualche parte, più precisamente nel nostro cuore, e questa
luce, per quanto ciò appaia inverosimile, e anche un po’ folle, è in grado di
rischiarare il mondo intero, dissipare le ombre, raggiungere perfino le
oscurità più tenebrose. Ogni cosa appare illuminata. E come potrebbe darsi un
prodigio del genere se l’amore, che non si dà mai a comando, non coincidesse
con il desiderio, e dunque con il contenuto più intimo e più profondo e più
intensamente voluto del nostro essere?
A partire da considerazioni di questo
tipo Marino svolge la filosofia di Saint-Exupéry nella direzione di
un’ontologia che rimette al centro il problema del senso e della verità
dell’essere (e che quindi è una metafisica, per restare al lessico
pareysoniano, “ontologica”). Particolarmente felice appare qui un cenno di
Marino: quello che invita a leggere filosoficamente Saint-Exupéry muovendo da
Pascal.
Tre sono i motivi per farlo. Il primo
riguarda il celebre pensiero intorno al cuore che ha ragioni sue proprie del
tutto ignote alla ragione: ragioni, non sentimenti o intuizioni, ma forme del
discorso in grado di argomentare intorno a una verità che evidentemente non è
univoca e forse neppure unica, ma certo è irriducibile alla logica e alla
scienza. Il secondo evoca l’altrettanto famoso tema della scommessa in forza
della quale una speranza del tutto infondata o comunque non suffragata da prove
potrebbe mostrarsi plausibile, credibile, degna di fede, in una parola più
capace di avvicinarci al vero di quanto non possa fare la disperazione. Il
terzo motivo fa riferimento alla posizione conquistata per via pratica e non
teoretica, cioè attraverso una sfida che, per così dire, stana il vero dal suo
nascondimento e ne fa il principio dell’agire umano, esposto sì al nulla, ma nondimeno
proteso a uno scopo e già da sempre orientato.
Tutto ciò secondo Marino permette di
ascrivere a pieno titolo la filosofia di Saint-Exupéry al campo
dell’ermeneutica. Un’ermeneutica che ben poco ha a che fare con la
decostruzione del mondo cui ci ha abituati il postmoderno, perché semmai si
tratta di una sua ricostruzione, se non addirittura di una nuova creazione. A
parlare espressamente di nuova creazione è proprio Saint-Exupéry. Il quale ne
trova le tracce ovunque l’uomo si lasci interrogare, come il Piccolo Principe,
dal mistero che avvolge l’universo.
Stupore, meraviglia, ma anche
sgomento, lo accompagnano, anzi, affiorano in lui sempre di nuovo come dalla
sorgente stessa della vita. E non è già questo un risveglio, non è già questa
una rinascita? Sia come sia, le domande in questione sono le stesse di una
ontologia che voglia essere al tempo stesso ontologia della verità e ontologia
della libertà. Ma anche le stesse di un aviatore che si alza in volo sul suo
traballante monoplano come se a chiamarlo fossero le stelle, ma che a un certo
punto s’inabissa nella notte.