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martedì 31 agosto 2010

“La virtuosa economia dell’Islam” di Davide Romano


L’economia di numerosi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa è influenzata dai precetti del Corano. Tali precetti, a differenza di quanto avviene in Occidente per i principi di ispirazione cristiana, non costituiscono solamente un animus operandi di imprenditori e consumatori, ma influenzano in modo decisivo l’attività economica di produzione e di consumo.
Questo avviene soprattutto perché la legge coranica spesso si confonde o si traspone in modo completo nella legge dello Stato. Spesso i musulmani accusano i paesi occidentali di non comprendere le loro tradizioni e le motivazioni sottostanti certe pratiche economiche. Gli europei si astengono dall’investire e dall’intrattenere relazioni economiche con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa perché li considerano economie poco trasparenti, nebulose e rischiose. È pertanto necessario colmare, anche se solo parzialmente, il difetto di conoscenza delle logiche di base del funzionamento dell’economia reale e finanziaria dei paesi musulmani.
La parte centrale del secolo scorso è stata caratterizzata dall’emergere di una letteratura sull’economia islamica. Lo scopo dichiarato era quello di identificare e promuovere un ordine economico conforme alle scritture coraniche. Gli economisti islamici criticano l’idea di un’applicazione universale del capitalismo o del socialismo, sostenendo che quando queste teorie hanno trovato applicazione nei paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente si sono rivelate fallimentari perché nate in un ambiente culturale lontano dall’Islam.
L’economia islamica nasce per fini culturali e politici. Per questa ragione essa non deve sottostare a regole scientifiche di coerenza, precisione e realismo. Al contrario, il pensiero dominante nel mondo occidentale è che l’economia, in quanto scienza anche se sociale, dovrebbe non tanto dare giudizi di valore, ma fornire spiegazioni circa il funzionamento del sistema economico. L’economia islamica, invece, parte da giudizi di valore ben precisi e poi tenta di sviluppare un sistema logico coerente con questi principi e di dare una spiegazione economica alle regole della Sharia. L’economia islamica non nasce per correggere fenomeni di squilibrio, ingiustizia o ineguaglianza, quanto piuttosto per difendere la civiltà islamica dall’influenza della cultura occidentale.
Nonostante questa critica sulla mancanza di presupposti scientifici, gli economisti occidentali si sono cimentati, da qualche decennio a questa parte, in un’opera di studio e di valutazione sul piano squisitamente economico di alcuni istituti e regole proprie dell’economia islamica, come la zakat (tassa islamica), la proibizione della riba (interesse), le scelte di consumo.
I principi di economia islamica sono stati elaborati dagli economisti islamici sulla base dei precetti della Sharia, la legge santa che trae spunto dai due testi sacri, il Corano e la Sunna.
La Sharia, non essendo un trattato di economia, quando enuncia principi economici lo fa in modo incompleto, prestandosi a numerose interpretazioni, che hanno portato gli islamisti a varie dispute circa la loro corretta esegesi. Inoltre, la Sharia non è in vigore in tutti i paesi musulmani: alcuni di essi, infatti, hanno un sistema giuridico di tipo occidentale, codificato in norme dettate dallo Stato e non dai consigli religiosi; tuttavia, anche in questi paesi la legge civile e l’operato dei giudici risente in modo determinante dell’influenza della tradizione islamica, che rende leciti alcuni comportamenti e ne condanna altri. Per queste ragioni quanto si dirà in seguito non è da ritenersi unanimemente condiviso dagli economisti islamici, ma rappresenta il nucleo essenziale rispetto al quale esiste un livello di consenso accettabile.
Per gli islamici il problema alla base di tutta la teoria economica occidentale, sia essa liberista o marxista, ovvero la scarsità delle risorse rispetto ai bisogni della popolazione, non è un problema o meglio è un problema dell’homo oeconomicus occidentale, ma non dell’homo islamicus. Secondo il Corano, Dio ha creato ogni cosa nella giusta quantità per soddisfare i bisogni umani, quindi la scarsità è frutto del comportamento umano e dell’avarizia da accumulazione. Per questa ragione, l’homo islamicus attraverso la rinuncia e il comportamento altruistico (contrapposto al comportamento egoistico dell’homo oeconomicus) riesce ad ovviare al problema della scarsità delle risorse.
Tra gli economisti islamici esiste un accordo abbastanza ampio circa i principi fondamentali dai quali un sistema economico islamico non può prescindere. I tre capisaldi dell’economia islamica sono: il filtro morale attraverso il quale ogni decisione economica deve passare; la proibizione dell’interesse (riba) nelle operazioni finanziarie; la zakat, ovvero un sistema di tassazione infruttifera con finalità di tipo islamico.
I principi coranici sono molto pervasivi in campo economico, anche se spesso si limitano ad enunciare indicazioni abbastanza generali sui comportamenti da tenere e su quelli da evitare. Tali principi influenzano aspetti importanti della vita economica di una comunità, dalla libertà di iniziativa economica alle scelte di investimento, dalle decisioni di consumo al ruolo economico della donna nella società. Gli agenti economici devono operare all’insegna delle regole disegnate secondo le fonti tradizionali dell’Islam, regole che impongono il bene e condannano il male, che tendono ad evitare sprechi, eccessi che generano esternalità negative; regole che promuovono generosità, lavoro duro, l’applicazione di prezzi equi. Gli agenti che popolano un’economia islamica godono di condizioni di libertà almeno in teoria molto ampie, che devono passare però attraverso un filtro islamico. Per gli economisti islamici le libertà economiche sono troppo ampie nel sistema capitalistico e troppo ristrette in quello socialista: la terza via di equilibrio e di equità è rappresentata per l’appunto dall’economia islamica.
Secondo il Corano tutto ciò che esiste sulla terra appartierne a Dio. Tuttavia la Sharia non nega la proprietà privata, ma la limita nel senso che l’uso che se ne può fare non deve essere contrario ai principi coranici. Spesso queste limitazioni alla proprietà privata sono molto pervasive, provocando una notevole contrazione della sfera d’autonomia. Il Corano garantisce libertà di stipulare contratti per il trasferimento di diritti e impone che si mantenga fede agli impegni presi. I contratti devono essere scritti e con testimoni. Ogni contratto che non è espressamente proibito dalla Sharia è valido. L’attribuzione di diritti di proprietà comporta fenomeni di disuguaglianza tra gli uomini. L’Islam considera accettabile una disuguaglianza moderata, ma condanna le disparità estreme nel reddito e nella ricchezza, l’esistenza delle quali autorizza un intervento riequilibratore della comunità, così come è legittimo l’intervento della comunità nel caso di non uso dei beni o di uso contrario ai principi islamici. La maggior parte dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa è caratterizzata da un intervento pervasivo dello Stato nella redistribuzione della ricchezza, e questo è particolarmente vero per quei paesi come l’Iran, retti dalla Sharia.
Secondo la Sharia, i musulmani maschi sono liberi di produrre e commerciare per il proprio personale profitto, ma nell’esercizio della loro libertà essi hanno la responsabilità di non nuocere agli altri: devono pagare salari equi, applicare prezzi ragionevoli e accontentarsi di un profitto normale, che non sfoci in situazioni di monopolio e di controllo incondizionato del mercato.
Un elemento fondante dell’economia islamica è che la cooperazione tende a rimpiazzare l’idea di competizione alla base dell’economia di mercato occidentale. Più che competere, le imprese costituiscono partnership basate sul principio della condivisione sia dei profitti sia delle perdite di una iniziativa economica. Almeno in linea teorica, l’economia musulmana non è chiusa verso il mercato, ammette l’iniziativa economica privata, anche se pone limiti che creano ampi spazi di intervento pubblico. Se i maschi godono di una certa libertà, diverso è il discorso per la popolazione femminile. Secondo la Sharia, la donna non deve avere un ruolo economico; non può partecipare alla vita produttiva, non ha libertà di movimento, non ha libertà di iniziativa. Queste prescrizioni, ad eccezione di alcuni paesi che stanno cercando di riscoprire un ruolo economico per la donna, hanno finito per rendere nullo il contributo delle donne alla crescita economica.
La Sharia proibisce tutti i contratti di vendita aleatori non legati allo svolgimento di un’attività produttiva. Inoltre un contratto deve produrre un’utilità reale alla società altrimenti non è lecito. Ogni tentativo di aumentare artificialmente i prezzi è condannato dal Corano.
Gli economisti islamici sono abbastanza concordi nel sostenere che la Sharia ammette il principio della determinazione dei prezzi attraverso il mercato, dall’incontro della domanda e dell’offerta. Contrario alla Sharia, invece, è che i prezzi vengano definiti dall’acquirente o dal venditore attraverso l’esercizio di un potere di mercato. Il Corano proibisce il monopolio così come la najash, cioè la pratica di offrire per una merce un prezzo più alto di quello di mercato al solo fine di danneggiare gli altri acquirenti realmente interessati all’acquisto del bene. Come si vede, quindi, alcuni comportamenti anti-concorrenziali oggi contemplati dalle leggi antitrust dei paesi occidentali vengono proibiti anche dal testo sacro musulmano.
L’Islam propugna un sistema molto simile a quello di mercato. Tuttavia esiste un’importante possibilità di intervento per lo Stato che non è giustificata da ragioni di tipo economico o politico ma da ragioni di tipo religioso: l’uso parsimonioso delle risorse evitando il loro spreco, l’eliminazione della povertà, il divieto della riba attraverso la costituzione di banche islamiche pubbliche, il rispetto insomma dei precetti islamici.
L’Islam prevede una moderazione dei costumi: l’eccessivo consumo di beni (definito israf dalla Sharia) sia di uso corrente sia di confort o di lusso, è proibito. La proibizione, secondo il Corano, dovrebbe aiutare a risolvere il problema della scarsità delle risorse e ad eliminare le pressioni inflattive da domanda. I benefici effetti previsti dagli economisti islamici non sempre si realizzano nella realtà. Spesso la moderazione dei consumi nei paesi islamici non è determinata dai precetti islamici, quanto piuttosto dai livelli di reddito pro capite molto bassi, che permettono a stento di coprire i consumi primari. Inoltre, in quei paesi dove il livello di reddito pro capite è più elevato, la produzione di beni di lusso è limitata dalle imposizioni della Sharia e questi beni devono essere importati dai paesi occidentali. Con la conseguenza che gli introiti dell’esportazione del petrolio, anziché favorire la nascita di un’industria locale, hanno dato luogo solamente ad una dipendenza dall’importazione di beni e servizi dalle economie sviluppate.
L’economia classica definisce la funzione di consumo in relazione al reddito e la funzione di utilità in relazione ai beni e servizi consumati che danno utilità immediata. In questo modo si trascura una componente molto importante per gli economisti islamici, che è la spesa “per amore di Dio”, cioè la spesa del proprio reddito che mira a soddisfare i bisogni delle persone meno abbienti. L’obsolescenza dei prodotti, per moda o tecnologia, può portare secondo la visione islamica ad uno spreco di risorse, proibito dalla Sharia, e quindi deve essere contrastata e ridotta al minimo. I prezzi dei beni devono essere ad un livello ragionevole che permetta di soddisfare la domanda di beni e servizi di base. In caso di scostamento del mercato da questi principi, la comunità islamica è autorizzata ad intervenire per correggere le distorsioni.
La Sharia prevede che non tutti i beni possono essere consumati; in particolare i beni sono distinti in tre categorie: halal (beni permessi, consumabili con moderazione); haram (beni come alcol, carne di maiale, gioco d’azzardo il cui consumo è proibito) e makrough (beni che possono essere consumati a certe condizioni, ad esempio in certe ricorrenze particolari). Da questo si evince che in una economia islamica si tendono a valorizzare i beni di prima necessità che devono essere disponibili a basso prezzo e in quantità sufficienti per tutti; viene invece scoraggiata la produzione e il consumo di beni di lusso, anche attraverso elevate imposte su produzione e importazione. I beni prodotti devono essere di durata elevata, cosicché non devono essere rimpiazzati di frequente. Ciò può produrre un atteggiamento ostile verso la tecnologia e il progresso.
Il Corano proibisce la riba, ovvero il pagamento di interessi sui fondi prestati: il denaro, in se stesso, non può essere fonte di guadagno, anche perché se lo fosse si rafforzerebbe la tendenza all’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi. Il divieto della riba non vuol dire che sui fondi mutuati non venga pagata alcuna remunerazione. Alcuni economisti islamici degli anni Cinquanta del secolo scorso, consci dei problemi che questa prescrizione comporta, hanno sostenuto che il divieto fosse diretto a bloccare esclusivamente le pratiche finanziarie socialmente dannose come appunto l’usura, ma non escludesse completamente il pagamento degli interessi. Tuttavia questa posizione è rimasta minoritaria, e negli ultimi cinquanta anni la condivisione del divieto totale degli interessi è stata considerata conditio sine qua non per essere considerato un economista islamico.
Secondo la Sharia, l’obiettivo di una istituzione finanziaria islamica non è solo la realizzazione di profitti, considerata lecita e auspicabile, ma anche il suo contributo al bene della collettività, facendo ad esempio prestiti ai poveri e ai bisognosi senza applicare nessun ricarico.
Il problema del divieto di pagamento di interessi si iniziò a presentare sin dal VI secolo d.C. quando l’Islam divenne il principio organizzativo dominante in tutto l’Oriente. Tuttavia, dalla comparsa dell’Islam fino alla fine degli anni Cinquanta, l’economia di quest’area è stata sempre molto arretrata, prevalentemente agraria e rurale e quindi l’esigenza di servizi finanziari era minima o addirittura assente e i rapporti commerciali con aree del mondo non islamico erano molto limitati.
Le cose cambiarono a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: molti paesi islamici scoprirono importanti riserve di petrolio che esportarono verso i paesi occidentali, i quali però avevano un’economia interest-based. In quegli anni affluirono ai paesi islamici notevoli quantità di denaro, che resero questi paesi i più importanti investitori-risparmiatori del mondo.
L’afflusso di capitali, non accompagnato da una crescita parallela dei consumi, portò ad una situazione di eccesso di offerta di liquidità, che pose il problema di come investire questi fondi. La scelta naturale sarebbe stata quella di prestarli ai paesi occidentali ad un tasso di interesse fisso ma questo non era permesso dalla Sharia. Per questa ragione nacquero le prime banche islamiche che prestavano senza interesse, rispettando il divieto della riba.
Ai giorni nostri esistono istituzioni finanziarie islamiche o loro succursali in più di 60 paesi. Secondo alcune stime le banche e le istituzioni islamiche operanti nel mondo erano circa 170 nel 1998 di cui quasi la metà operanti nell’area dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, con un portafoglio prestiti di circa 170 miliardi di dollari e un numero di dipendenti di quasi 270 mila unità.
Il divieto della riba ha procurato seri problemi alle istituzioni finanziarie, che in alcuni casi hanno cercato di aggirarlo attraverso pratiche poco ortodosse. Sovente il tasso di interesse, seppur formalmente abolito, è ricomparso ex post per effetto di rendimenti delle attività finanziarie islamiche strettamente correlati con i rendimenti di mercato. Queste pratiche elusive sono aspramente criticate dagli economisti islamici, che sostengono che il rispetto del divieto della riba non deve essere solo formale ma anche sostanziale.
La proibizione della riba si fonda sul credo islamico secondo il quale non ci può essere guadagno senza l’assunzione di rischi: il profitto, in una visione islamica, è legittimato solo dal rischio. La nozione di interesse come remunerazione per il differimento del consumo è quindi rigettata: può essere remunerato solo lo sforzo fisico e intellettuale delle persone e non la mera attesa. Il risparmio quindi non è una scelta di consumo intertemporale ma una scelta fatta per far fronte a necessità future e quindi non merita il pagamento di un prezzo, ovvero l’interesse.
Secondo la Sharia la moneta è solo un mezzo di scambio e non ha valore in sé: l’unico scopo per cui si deterrebbe moneta è quello transattivo. Sul piano dell’efficienza, la proibizione del pagamento di un tasso di interesse crea numerosi problemi riguardo alla allocazione del rischio e alla sua gestione. Negare tout court la possibilità di ottenere una remunerazione fissa in forma di interessi non tiene conto della possibilità che diversi operatori hanno di sopportare differenti livelli di rischio: una banca riesce meglio a diversificare il rischio nel prestare i fondi rispetto ad un semplice risparmiatore. Inoltre sottostante il divieto di un interesse fisso c’è una incomprensione di ciò che veramente costituisce un rischio finanziario, poiché non è esatto sostenere che ricevere un tasso di interesse fisso equivale a non sopportare alcun rischio, poiché sussiste sempre l’eventualità del default del debitore.
La zakat rappresenta, assieme al filtro islamico e alla proibizione della riba, il terzo pilastro dell’economia islamica. Essa è una tassa generalizzata sulla ricchezza, con un’aliquota del 2,5 per cento, che grava sulla proprietà di beni non sfruttati per fini produttivi. Letteralmente zakat significa “purificazione” e il suo pagamento viene considerato dagli islamisti essenziale perché purifica la ricchezza dalla sua malefica tendenza ad accumularsi nelle mani di pochi. La Sharia riconduce l’istituzione di questa tassa al credo fondamentale che tutto appartiene a Dio, e quindi parte dei beni posseduti va devoluta alla comunità per far fronte alle esigenze di tutti i membri.
La zakat è essenzialmente un sistema di redistribuzione della ricchezza che dovrebbe arginare i fenomeni di povertà. Da un punto di vista economico, l’applicazione di una tassa su una base imponibile costituita da una ricchezza non produttiva dovrebbe avere effetti positivi, con un aumento dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse e un disincentivo a lasciare improduttivi i propri beni per evitare il pagamento della tassa.
Secondo la legge islamica, gli introiti provenienti dal prelievo della zakat devono essere utilizzati per far fronte alle esigenze dell’intera comunità. Anche sulla zakat, come sugli altri istituti di economia islamica, non c’è accordo unanime tra gli islamici. Alcuni economisti sostengono che la zakat può essere un’arma molto potente contro la povertà, molto di più degli strumenti utilizzati nei paesi occidentali, grazie all’ampio gettito prodotto da una tassa universale religiosa, rispetto alla quale i comportamenti evasivi sarebbero ridotti al minimo; secondo altri, il pagamento avverrebbe spontaneamente anche in assenza di coercizione. Per un terzo gruppo di economisti islamici esiste un altro canale della loro economia che può contribuire alla riduzione della povertà, e questo canale è il micro-credito.
I principi di finanza islamica – risk sharing, solidarietà, giustizia economica e sociale – hanno molto in comune col micro-credito, che sarebbe uno sbocco naturale dell’economia islamica. Inoltre, il micro-credito troverebbe terreno fertile nell’ambito della finanza islamica in quanto alcuni problemi di micro-credito – elevati costi di transazione e comportamenti opportunistici – potrebbero essere ovviati o per lo meno attenuati grazie all’islamic finance.
In molti paesi in via di sviluppo il micro-credito sta attirando sempre maggiore attenzione come politica di sviluppo, per raggiungere i poveri, innalzare il loro tenore di vita, creare lavoro, spingere la domanda di beni e servizi e in questo modo favorire la crescita economica e alleviare la povertà.
I micro-imprenditori non richiedono sussidi, ma accesso continuo e semplificato al credito e ai servizi finanziari. Mentre i sussidi mandano un segnale di disincentivo ad un utilizzo efficiente delle risorse, i prestiti costituiscono uno stimolo allo sfruttamento coerente dei fondi mutuati.

lunedì 26 luglio 2010

“Perché non può esser vera la religione maomettana” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, dottore della Chiesa (1696 – 1787)


“Perché non può esser vera la religione maomettana” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, dottore della Chiesa (1696 – 1787)
(da “Verità delle Fede”)

Premessa
Riproduco di seguito un gustosissimo estratto di un volume ben più corposo del santo dottore della Chiesa cattolica, Alfonso Maria de’ Liguori, sull’Islam. Il libro in questione è un volume di apologetica intitolato “Verità delle fede” che tanta diffusione ha avuto sino ai nostri giorni fra le masse cattoliche, come del resto i numerosi altre opere del fondatore dei Redentoristi. Il saggio, scritto in un italiano scorrevole ed elegante, è interessante da leggersi anche per vedere quanta strada i cristiani, e in particolare la Chiesa cattolica Romana, abbiamo percorso nel confronto con le altre religioni.
Davide Romano
Ps: come casa editrice La Zisa stiamo progettando di ripubblicare alcune delle opere ascetiche e dogmatiche del de’ Liguori.

1. Vediamo in primo luogo le qualità di Maometto, che stabilì questa religione, diciam meglio questa infame setta che ha mandate tante anime all'inferno. Egli ebbe qualche dote naturale; fu di bello aspetto, d'ingegno penetrante, cortese nel tratto, liberale e grato ai beneficj. Ma all'incontro fu dominato dal vizio della libidine, e perciò tenne da 15 mogli, e più di 24 concubine, fingendo di avere avuto in ciò il permesso da Dio, poiché agli altri non concedeva egli più di quattro mogli; e quindi poi nel suo Alcorano ripose nelle sozzure della carne la massima parte della felicità eterna. Fu dominato ancora dalla superbia, che lo fece talvolta diventar crudele. Basti sapere che una volta ad alcuni che si avean presi certi suoi cammelli, fece tagliar le mani e i piedi, e cavare gli occhi con un ferro rovente, e poi li fece lasciar così, finché spirassero l'anima1.
2. Vediamo ora che cosa sia l'Alcorano di Maometto, e quali dogmi e precetti ivi s'insegnino. Alcorano significa lezione, o sia libro di lezione. I titoli del libro sono varj secondo le varie edizioni. Si divide in Sure, o sieno Azoare 114, e le Sure dividonsi in Ayat, cioè segni di diversa lunghezza, che contengono attributi di Dio e precetti o giudizj di cose mirabili, e questi segni terminano col ritmo corrispondente al verso precedente. L'Alcorano è scritto in lingua pura araba e con eleganza di parole, affettando un modo profetico. Vi sono giudizj, istorie ed esortazioni. A' giudizj spettano le leggi così per le cose sacre, preci, pellegrinaggi e digiuni, come per le cose politiche, tribunali, matrimonj ed eredità. Alle istorie spettano molte narrative, parte prese da' libri sacri, ma corrottamente, e parte finte, o pur ricavate da' libri apocrifi e specialmente del Talmud de' giudei. Alle esortazioni poi si riferiscono gl'inviti alla nuova religione, alla guerra per difesa di quella, alle preci ed alle limosine, minacciando le pene dell'inferno a' trasgressori, e promettendo le delizie del paradiso agli osservanti. Talvolta si finge Dio, o l'angelo che parla: talvolta poi parla lo stesso Maometto o ai Meccani o a' giudei, o a' cristiani. Altre volte parlano i beati del paradiso ovvero i dannati dell'inferno: sicché l'Alcorano è una specie di dramma, in cui sono diversi che parlano.
3. Dicono i Maomettani che l'Alcorano non è composto da Maometto, né da altri, ma solamente da Dio, e da Dio è stato dato a Maometto. In quanto poi al modo e tempo, dicono mille inezie. Altri dicono che l'Alcorano è stato eterno, sempre presente al trono di Dio in una certa tavola, ove stavano scritte tutte le cose passate, presenti e future. Altri dicono che in una certa notte del mese romadan, in cui suppongono che Dio dispone tutte le cose, scese questo libro dal trono divino. Altri dicono che l'arcangelo Gabriele rivelò a Maometto tutto quello che sta scritto nell'Alcorano. Altri dicono che Maometto ricevea da quando in quando alcuni versi, ed egli li facea conservare in una cassa: altri dicono altri spropositi. Del resto oggi negli esemplari che noi abbiamo dell'Alcorano vi sono molte lezioni varie che variano sentenza. I nostri scrittori dicono che l'Alcorano fu composto da Maometto o tutto da sé, o coll'aiuto di un certo monaco Sergio, o d'altri. Chi poi volesse intender più cose dell'Alcorano circa la sua scrittura, legga Marraccio nel prodromo all'Alcorano1.
4. Parlando poi della teologia dell'Alcorano, dee sapersi che questo libro è ripieno d'una farragine confusa di favole, di precetti e di dogmi tutti inetti, fuori di quelli che son presi dalla legge ebraica e cristiana. Maometto riconoscea per divina la missione così di Mosè, come di Gesù Cristo, come anche riconoscea per legittima l'autorità delle nostre sacre scritture, almeno in più parti, dicendo che le altre sono state corrotte; ond'egli colla sua pretesa religione (che dicea esser la stessa che tennero Mosè e Gesù Cristo) volea riformare e perfezionare così la religione giudaica, come la cristiana. Ma in verità altro non fece che formare una setta che discrepava dall'una e dall'altra. Maometto credea esservi un Dio, e dalla Sura 4. vers. 17. si ricava che credesse anche la Trinità delle persone nella natura divina: Neque dicant tres (Deos), Deus enim unus est. Credeva esser di fede esservi gli angeli, ma dicea che essi hanno corpo, e sono anche di diverso sesso; Sura 2. e 7. Diceva ancora essere assegnati due angeli custodi a ciascun uomo, e questi mutarsi ogni giorno. Dicea di più che vi sono angeli e demonj di diverse specie, chiamati genj, i quali mangiano e bevono, ed anche si propagano e muoiono, ed anche son capaci della futura salute e dannazione.
5. Vi sono poi nell'Alcorano molte cose indegne di Dio. Ivi si dice (come bestemmiano ancora gli ebrei talmudisti) che Dio fu costretto a dire una bugia, per metter pace tra Sara ed Abramo. Ivi s'induce Dio che giura per li venti, per gli angeli ed anche pei demonj; quando che Dio solo per sé può giurare, non già per le creature. Di più nella Sura 43. s'induce Dio che prega per Maometto: Cum Deus et angeli propter prophetam exorent. Nella Sura 56. dice Maometto che Dio gli permise di violare un giuramento. E nella Sura 43. che gli permise di potersi mischiare con qualunque donna anche maritata e consanguinea. Dice poi molte bugie. Nella Sura 17. scrive che Dio comandò agli angeli che adorassero Adamo, e che tutti gli ubbidirono, fuorché Belzebub. Dice nella Sura 13. che Maria madre di Gesù è adorata da noi per Dio. Nella Sura 27. dice ch'egli fu rapito da Dio in cielo per essere ammaestrato de' misterj. Nella Sura 25. dice che Iddio ha creato il demonio da un fuoco pestifero.
6. Vi sono poi nell'Alcorano mille contraddizioni. Nella Sura 11. chiama Gesù Cristo spirito di Dio e suo messo: Iesus Mariae filius nuntius suusque spiritus; e poi nega essere Dio, e dice che non è stato crocifisso, ma in suo luogo fu crocifisso uno simile a lui. Nella stessa Sura 11. dice che ognuno, sia giudeo o cristiano, e benché lasci una legge per un'altra, se adora Dio, ed opera bene sarà amato da Dio, e si salverà; e poi nella Sura 3. dice che i Maomettani si dannano se lasciano la loro legge. Nella Sura 20. dice che niuno dee sforzarsi alla fede; e poi nella Sura 9. dice che gl'infedeli debbono essere uccisi. Nella Sura 2. dice che ciascuno può salvarsi nella sua religione, sia giudeo, cristiano o sabaita: Qui crediderint et iudaei et christiani et sabaitae in Deum, et fecerint bonum, ipsis erit merces apud Dominum; e poi nella Sura 3. dice il contrario: Et qui secutus fuerit aliam religionem praeter istam (cioè la maomettana), ipse in futuro seculo erit pereundus. I maomettani confessano queste contraddizioni, ma dicono che Dio stesso è stato quello che si è rivocato.
7. Dicono di più i maomettani che dopo morte nel sepolcro da due persone Moncker e Hakir hanno da essere pesate le opere di ognuno in due coppe di bilancia, che eguagliano la superficie del cielo e della terra. Dicono poi che vi è il ponte Sorat, dal quale i peccatori cadranno nell'inferno, dove gl'infedeli staranno per sempre; ma quelli che avranno creduto ad un Dio, vi staranno per qualche tempo, ma non più di mille anni, e poi passeranno alla casa della pace; ma prima d'entrare in questa casa beveranno l'acqua della piscina di Maometto perciò i maomettani si radono il capo, e vi lasciano una ciocchetta di capelli, sperando che per quella Maometto potrà cavarli dall'inferno. Essi sperano che almeno nel giorno del giudizio Maometto colle sue preghiere salverà tutti i suoi seguaci. Il paradiso poi che promette l'Alcorano, è un paradiso di cui si vergognerebbero anche le bestie: è un paradiso ove non vi sono altri piaceri che sensuali. Dice che ivi sono due orti ornati di alberi, fonti e pomi e donne, e che ciascuno avrà in cielo tante mogli, quante ne avrà avute in questa terra, e l'altre poi saranno concubine. Ecco come si scrive nella Sura 86. ed 88. : Ubi dulcissimas aquas, pomaque multimoda, fructus varios et decentissimas mulieres, omneque bonum in aeternum possidebunt. Avicenna maomettano, vergognandosi di tal promessa per la vita eterna, dice che Maometto in ciò avea parlato allegoricamente; ma l'Alcorano in niun luogo ammette questa spiegazione sognata da Avicenna. In quanto poi ai precetti naturali, l'Alcorano insegna: principalmente la legge della natura; scusa non però coloro che l'offendessero per causa di timore. Ammette (come già si è detto) l'avere più mogli, sino a quattro, purché possa conservarsi la pace con tutte, altrimenti ordina che se ne prenda almeno una, e concede il ripudio per due volte.
Proibisce poi il disputare sopra l'Alcorano e le scritture sacre; e ciò asserisce nelle Sure 22. e 29. essere precetto divino. Per altro con molta accortezza da questo impostore fu dato un tal precetto; giacché tutta la forza della sua legge è nell'ignoranza. Vi sono di più altre leggi positive di purificazioni, orazioni e limosine: di più del digiuno nel mese romadan e del pellegrinaggio alla Mecca. Si narra da un buono autore che Maometto mettea del grano dentro del suo orecchio, e che avea avvezzata una colomba a venire a beccarlo, affin da far credere agli altri che egli per tal mezzo era ispirato da Dio circa le cose che insegnava. Ed in conferma di ciò due maroniti presso Bayle dicono trovarsi nella Mecca alcune colombe, che dai turchi son rispettate come sacre, credendo essi che discendano da quella che parlava a Maometto.
8. Sicché non può esser vera la religione de' gentili, non quella de' giudei, non quella de' maomettani: dunque la cristiana è l'unica vera. Ma perché nella cristiana religione vi sono diverse chiese, che discordano dalla chiesa cattolica romana, vediamo per ultimo quale fra tutte sia la vera chiesa e per conseguenza la vera religione.
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1 Maometto fu arabo di nazione, nacque nella Mecca nell'anno 571. Fu oriundo di famiglia nobilissima. Dopo la morte del padre fu applicato alla mercatura da' suoi parenti, attesoché prima fu educato in casa del suo avo e poi di un certo suo zio, dal quale di anni 13. fu condotto nella Siria. Ma di là ritornato nella patria d'anni 25, fu preso nella sua età d'anni 28 da una certa vedova nobile e ricca, chiamata Kadia, per suo fattore. Posto egli in questa condizione più alta cominciò a meditare di mutare e far mutar religione a tutta la sua patria, intendendo di liberare gli arabi dall'idolatria, nella quale egli era stato educato, e di restituire al mondo, come diceva, la religione primiera di Adamo, di Noè, di Abramo, di Mosè ed anche di Cristo, in somma di tutti i profeti del vero Dio; e perciò finse di aver colloquj coll'angelo Gabriele nella grotta d'Hira, che non era molto distante dalla Mecca, dove spesso si ritirava.
Essendo poi d'anni 40, ed essendo stato sino a quel tempo idolatra, si assunse l'officio di profeta, e per tale si fece tenere prima dalla sua moglie e da certi suoi parenti e domestici e poi da un certo Abubekero uomo di grande autorità, coll'aiuto del quale acquistò molti potenti paesani della Mecca. Dopo tre anni adunò in un convito 40 persone con Aly suo cugino, ed allora aprì la sua missione divina, come diceva. Ma da tutti, fuorché da Aly, fu allora deriso. Egli nulladimanco, non perdendosi d'animo, costituì Aly suo vicario, e cominciò a predicare in pubblico nella Mecca, dove fu a principio udito da' suoi paesani; ma quando poi si pose a riprovare i loro dei, lo perseguitarono a morte, e solo un certo Abotaleb colla sua autorità e prudenza lo liberò; ma i meccani stabilirono di non avere più commercio né con Maometto, né co' suoi aderenti. Egli non però avendo in questo tempo composta già parte dell'Alcorano, spesso provocava i suoi avversarj a formare alcuna parte simile, dicendo che non avrebbero mai potuto comporne un solo capitolo. E richiedendo coloro alcun miracolo della sua missione, rispondea ch'egli era stato mandato da Dio non a far miracoli, ma solo a predicar la verità.
Dicono per tanto i maomettani che il miracolo del legislatore è stata la propagazione della loro legge fatta nella massima parte del mondo. Ma a ciò si risponde che non può dirsi miracolo il vedere abbracciata una legge, per cui si vive più secondo il piacere de' sensi, che secondo la ragione. Oltreché questa propagazione fu fatta nell'Arabia, ove la massima parte era di gentili, vi erano pochi cristiani, e gli altri erano giudei o eretici ariani e nestoriani, fuggiti colà per gli editti degl'imperatori, ed in tutti poi regnava una somma ignoranza. Un tal miracolo bensì è avvenuto nella propagazione del vangelo, che insegna una legge opposta agli appetiti carnali. Con tutto ciò Maometto pure vantava di aver fatto un gran miracolo (ma miracolo d'un buffone per la scena): diceva nell'Azoara 64 del suo Alcorano, che essendo caduto un pezzo di luna nella sua manica, egli ebbe l'abilità di racconciarlo: che perciò poi l'imperio de' turchi porta l'impresa della mezza luna.
Indi, essendo morti la sua moglie Kadia e l'amico Abotaleb, Maometto nell'anno decimo della sua finta missione si vide abbandonato quasi da tutti; onde fu costretto a ritirarsi dalla Mecca in Tayef, luogo distante 60 miglia. Ma dopo un mese tornò alla Mecca, e si pose sotto la protezione di Al-Notaam Abn-avi. Nell'anno duodecimo cacciò fuori la favola del suo viaggio notturno in Gerusalemme e di là in cielo; ma questa favola parve così ridicola, che sarebbe rimasto affatto abbandonato da tutti, se un certo Abu-ker non avesse detto ch'egli non poteva negare la sua fede a Maometto. E nello stesso duodecimo anno si strinsero con giuramento a Maometto molti della città di Medina, e tra questi il principe della tribù detta Avos. Maometto avea dichiarato di non aver altro comando da Dio, che di predicar la verità, ma non di forzare gli uomini a crederlo; ma essendo di poi fuggito da Medina per evitar la morte macchinatagli dai meccani, dichiarò egli il precetto di perseguitare colle armi gl'infedeli, e colle vittorie propagar la fede, e d'indi in poi visse sempre in guerra, alle volte perdendo, ma più spesso vincendo.
Andò appresso con 1400 soldati alla Mecca, ed ottenne una tregua co' nemici, ma col patto che gli concedessero il potersi con esso arruolare quei che voleano seguirlo. Scrisse poi lettere al re di Persia, dell'Etiopia e di Roma, e gl'invitò ad abbracciare la sua religione. Indi si fece signore della Mecca: donde avendo scacciata l'idolatria, piantò la sua setta; e nell'anno seguente ricevette gli ambasciatori da tutte le tribù dell'Arabia, le quali, vedendo soggiogata la tribù più potente di tutta la nazione, abbracciarono l'Alcorano. Finalmente Maometto nell'età di sessentatré anni morì, e si dice morto di veleno.