La cura dell’
“oltraggio”
… S’egli ha fatto
questo a sangue freddo,
che cosa non farebbe a sangue caldo?”
che cosa non farebbe a sangue caldo?”
Cervantes (Don Chisciotte)
Un inappagato eros lirico-poetico –
offerto come una macchina da guerra e vorticosa voragine – gira, rivolta e
brucia a nudo e “brama il fuoco tra le cosce” della follia amorosa ( Tua, p.
29), e “senz’aria” adagia in “plurimi, carnali diletti” (Inquieta vanitas, p.
44); un teatro di “lingue deliranti” in lotta tra le desublimazione dell’anima
e il fluttuare dirompente del corpo con le sue ragioni oniriche quanto sragione
in gioco … “per dilaniarne il senso” (Il pensare, p. 18), “mentre gli uragani
alitano sulla nostra carne” (La dannazione di un abbraccio, p. 70).
Un linguaggio iconicamente meticcio (né solo visivo, né
solo verbale, né solo logico, né solo ritmico…) che si scaraventa sulla pagina
con la grazia dissacrante e non curante di un “bicchiere di alchermes”
(Silenzio, p. 71); che, informe/dis-forme, fluttua per attaccare il nome del
vecchio cuore – il simbolo strumentalizzato dall’illusoria liberazione del
potere oppressivo (il potere cattura e non libera anche quando provoca le
libertà del sesso) – per trattarlo come un ramo impazzito, disarmonico e
“rancido” e salvaguardare la soggettivazione eteroclita autonoma che lo
ramifica (imprevedibilmente), lì dove oggi il dominio sui corpi invece passa
attraverso la fabbrica dei desideri e del godimento immediato.
Potente quanto raffinato il
monologo erotico-narcisistico (la “cura del sé” – M. Foucault –, elevata,
credo, a materia della poesia dei tuoi testi), nella sua stratificazione
memoriale, porta anche la presenza e la continuità con poeti e poetiche della
tradizione culturale che inevitabilmente ci attraversa, mentre lascia l’aureola
del poeta idealista e si fa dialogo della vecchia “madre” terra con la
fulmineità del “fu” dei guizzi che fanno esplodere i limiti: il “fu” del “fu
oltraggio!”.
La scrittura procede coniugando
con cura e padronanza costruttiva le “equivalenze” della funzione poetica con
la lingua della poesia. Inoltre, le immagini (del pittore o del fotografo), che
affiancano il dettato verbale del libro giocano, credo, la funzione di potenziamento
“espressivo” come usa fare la stessa anadiplosi (semplice o più articolata),
per esempio, ovvero quella parte della tecnologia retorica del “raddoppio” che
movimenta “L’attimo”: “ Mio per mio peccato / peccato per mio abbandono alla
tentazione/ …” (p. 26).
Come un teatro a scena aperta e
montaggio filmico degli atti in corso e in primo piano, l’insegna del conflitto
valorizza il contrasto tra i gioiosi peccati della carne (con-fusa/fusa) e il
retaggio repressivo della colpa incolpevole e dell’impotente vanità che cerca
di offuscare la forza e la potenza dell’anima corporea, carnale.
Certe “correspondences”,
variamente connotate – dall’invocazione alla “musa”: Nox et omnia-preghiera
della notte”, p. 15; dalla rivisitazione di Cecco Angiolieri: “… Minima ed
immensa…”, p. 56, … alle “tentazioni” – “covami / confondimi / superami /
eternami” (Inquieta vanitas, p. 44) della Patrizia Valduga –, sono sia il segno
di un legame con il passato (che non ci lascia), sia il segno di una
soggettività che lo visita e lo ridice con la coscienza del proprio tempo e una
sensibilità intellettuale che è propria a ciascuno.
Del resto il poeta è sempre
parlato anche da una lingua che non domina, se al mondo è venuto costruito da
un tessuto culturale e storico-contestuale che gli permette di dire e scrivere;
così come la continuità con chi ci ha preceduto è solo segno di una vitalità
che è sotto la cenere e che poi, come una “rovina” palpitante, riemerge non
appena soffia il pensiero delle passioni; quel pensiero riflettente che con la
sua temporalità tempestiva-intempestiva è sommosso dall’urgere del non
contemporaneo dimenticato ma non scomparso; la presenza che non molla e si fa
contemporaneo struggere coniugando artificiale e reale (“mi struggerò in
lacrime sopra una fantasia”, Puskin).
Credo che l’ascendenza romantica
dell’amore come follia e delirio del corpo, o il ricorso a Venere, Adone,
Narciso, nell’insieme della tua scrittura poetica, giochino come il ritorno del
rimosso e un rinforzo del sognare: “perché occorre sempre avere un sogno nella
vita!” (Cerca la vera bellezza, p 85).
Il valore d’uso di questa prova
poetica “… e il corpo fu oltraggio” di Margherita Ingoglia, donna del secolo
XXI, il tempo del virtuale e del simulacro, ri-propone (invece) la potenza
concreta del corpo e della carne come il grido della vita che aborre tanto
l’immateriale ideologizzato quanto il materiale manipolato dell’“uniforme”
dell’eterno presente di questo secolo del marketing del sesso “anarchico” come
della libertà desocializzata. Il rifiuto dell’omologazione uniformante, che
disprezza il dis-forme e cartavetra l’eterogeneo nel recinto delle forme
canonizzate, non poeticamente, essere più incisivo e parlante.
Se nei depositi dell’archeologia
dell’anima, c’è la lacerazione del senso nelle/delle notti di luna piena e la
genealogia del lupo predatore, il violentatore dell’“uniforme” e della rapina
all’ordine, allora salut all’ “oltrage”, l’esplosione dell’oltraggio che irride
il limite e la norma e canta la fusione oltre il principio di realtà e del
piacere per una pulsione che solo la logica poetica è in grado di
concettualizzare sensualmente.