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mercoledì 16 novembre 2022

“C’è cattolicesimo e cattolicesimo. Ovvero la fede cattolica secondo Ernesto Buonaiuti” di Augusto Cavadi

 



Chi legga la nuova edizione dell’ Apologia del cattolicesimo di Ernesto Buonaiuti (La Zisa,  Palermo 2021, ed. or. Formiggini, Modena 1923) resta stupito almeno due volte.

Il primo choc è dovuto all’impavida sicumera con cui l’autore, presbitero e teologo, espone la sua “difesa” della Chiesa cattolica inanellando una serie di tesi che, a suo parere, sono quasi evidenti allo sguardo di un osservatore onesto e razionale: che esiste un Dio “al di fuori e al di sopra di tutti gli esseri sensibilmente percepiti” (p. 54); che “ha posto al vertice delle esistenze sensibili una volontà libera” (p. 59) ; che questo essere ha rovinato tutto con una “colpa originale, sconvolgimento morboso delle umane facoltà e delle umane attitudini” (p. 61);  che Dio stesso (nella seconda persona della Trinità) si è incarnato per realizzare, “col suo eccelso sacrificio e la sua inarrivabile abnegazione, un tesoro di meriti, da cui potranno attingere, senza esaurirlo, fino alla consumazione dei secoli, i figli innumerevoli del dolore e della colpa” (ivi); che questo Dio-uomo ha fondato una Chiesa “visibile” che possiede “l’infallibile potere di trasmettere e interpretare la parola del divino Maestro” (p. 62); che, dal 1500 in poi (con la filosofia moderna e il protestantesimo) si è infranto “questo meraviglioso ed organico piano sistematico” con la conseguenza che “da quattro secoli il pensiero e la moralità del nostro così detto mondo civile vanno miseramente barcollando nell’oscurità di una notte lunga e penosa” (p. 70); che comunque non va perduta la speranza/certezza  che la società moderna troverà la “salvezza” “il giorno in cui, ai piedi dell’insegnamento cattolico, reciterà la sua netta palinodia” (p. 73).

Nelle pagine dell’agile libretto – scritto, per altro, con raffinata arte letteraria – non c’è traccia di dubbi né dal punto di vista metafisico (come se, ad esempio, agnostici come Kant e atei come Feuerbach non fossero mai esistiti) né dal punto di vista storico (come se la tanto esaltata Chiesa medievale non avesse indetto né Crociate né caccia agli eretici né processi alle streghe): incredibile!

Non ci si è ancora ripresi dal primo choc che si viene colpiti da una seconda batosta quando si apprende che questo libro, pur così deciso nel difendere l’indifendibile, è stato “incluso nell’ Index librorum proibitorum” ed ha contribuito alla scomunica papale dell’autore! Motivi dell’inspiegabile decisione magisteriale?

Forse perché ospitato in una Collana di opere di autori vari, ciascuna delle quali dedicata alla apologia di una religione diversa (La Zisa stessa ha ripubblicato, sinora, Apologia dell’ebraismo e Apologia dell’islamismo); forse perché troppo condiscendente al filone agostiniano e mistico piuttosto che al filone tomista e dottrinale; forse perché, in ciò pericolosamente vicino al protestantesimo, vuol “provare la validità della dottrina più riferendosi alla Bibbia che non alla tradizione e all’autorità del magistero” (così Andrea Panerini a p. 15) o perché insiste sull’aspetto rivoluzionario del vangelo di Gesù quale “integrale rovesciamento degli umani valori” (p. 18).

Emerge prepotente, dunque, almeno una domanda: cos’hanno in comune il cattolicesimo del primo ventennio del XX secolo con il cattolicesimo del primo ventennio del XXI secolo? Quasi a metà del cammino temporale li divide il crinale del Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) e neppure le politiche reazionarie di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sono riuscite a frenarne le conseguenze sconvolgenti. Papa Francesco è, nonostante tutte le sue cautele teologiche e la sua devozione religiosa datata, l’icona di un cambiamento di paradigma: dirsi cattolici oggi è toto coelo differente dal dirsi cattolici cento anni fa.

Ma se una comunità-istituzione cambia così radicalmente, come può continuare a ritenersi “costituita da Dio” quale  “organo del magistero celeste, attuantesi nella storia”, sotto “la guida inerrante della Chiesa docente diretta dal supremo gerarca” (p. 62) ? O ha sbagliato prima o sta sbagliando adesso. Chi non coglie questo dilemma non può capire nulla della tragedia del cattolicesimo odierno. Chi ritiene che stia sbagliando adesso, non può che rifiutare la maggior parte delle ricerchef filosofiche scientifiche, storiche, archeologiche, filologiche in atto dentro e fuori i confini delle Chiese cristiane (ricerche ardite, ma sofferte, perché mettono in discussione tutte le tesi della catechesi tradizionale esposte, ad esempio, nel libro di Buonaiuti).

Chi, invece, ritiene che la Chiesa cattolica abbia sbagliato prima, soprattutto quando un papa (Pio IX) è arrivato a proclamare (1870) il dogma dell’infallibilità pontificia nelle questioni di fede e di morale, non può continuare a dirsi cattolico. Infatti, se si intestardisce in questa dichiarazione di appartenenza confessionale, si condanna inesorabilmente all’incomprensione: è, per così dire, cattolico per equivoco e non può stupirsi se chi cattolico non è gli attribuisca certezze, pensieri, atteggiamenti pratici che egli non si sogna di condividere neppure la notte.

mercoledì 12 maggio 2021

Il libro di Dino Paternostro "La strage più lunga": gli anni di piombo della Sicilia che chiedeva diritti


dUMBERTO SANTINO

 

Primo Levi, nel suo I sommersi e i salvati, parla di «derive della memoria», una reazione difensiva, da parte dei superstiti dell’Olocausto, per rendere meno intollerabile il ricordo di «un’offesa insanabile» . Ma più che una “ deriva” forse si dovrebbe parlare di una vera e propria rimozione, se si pensa che tanti sopravvissuti si sono decisi a raccontare quello che avevano vissuto soltanto dopo moltissimi anni. E non c’è solo l’Olocausto, una realtà tanto inaccettabile, al limite dell’incredibile, da doverla rimuovere. Gennaro Jovine, il protagonista di Napoli milionaria, di Eduardo De Filippo, tenta di raccontare gli orrori della guerra, ma i familiari non vogliono ascoltarlo. « La guerra è ‘ fernuta » , gli dicono, aggrappati come sono alla ragnatela dei contrabbandi, ma per lui la guerra non è “fernuta”, poiché per chi l’ha vissuta la guerra è un’esperienza incancellabile.

Questa rimozione della memoria è avvenuta anche per i protagonisti di questo libro di Dino Paternostro (“ La strage è più lunga. Calendario della memoria dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino caduti nella lotta contro la mafia”, Edizioni della Zisa), che finalmente ricostruisce, nome per nome, vita per vita, una storia che è stata in gran parte cancellata o rievocata per frammenti e con imprecisioni o fraintendimenti. E bisogna chiedersi perché e come è potuto accadere. La memoria non è un automatismo, ha bisogno di chi se ne assume l’impegno: una persona o un’organizzazione, un partito, un sindacato, un comitato, un’associazione che la considerano essenziale per la loro storia e la loro identità.

Facciamo qualche esempio. La memoria dei Fasci siciliani, che destarono interesse a livello internazionale, suscitarono consensi entusiastici e stroncature implacabili, è stata sotterrata perché il Partito socialista, che ne resse le fila, almeno per buona parte, è andato per altre vie, fino a naufragare nel pantano di Tangentopoli. Ma questo è accaduto anche per molti dei sindacalisti, militanti e dirigenti del movimento contadino caduti nel corso del Novecento. Non ne hanno mantenuto viva la memoria i familiari, tranne alcune eccezioni, perché non se la sono sentita, perché sono stati lasciati soli, perché sono andati via e, anno dopo anno, giorno dopo giorno, è sopravvissuto solo un ricordo sempre più sbiadito. Come la fotografia, spesso una fototessera, che mostrano a chi cerca di ridestare quel ricordo. Ma è un ricordo lontano, il fantasma di un’altra epoca, perché la storia è andata per altri percorsi, con i flussi migratori che spopolavano i paesi che avevano visto maturare quelle lotte, che erano stati insanguinati da quelle stragi e da quegli assassinii. Dei primi anni del Novecento si sono salvati i nomi di alcuni dirigenti sindacali o di partito che hanno lasciato tracce del loro operato, ma il nome di Giovanni Orcel, che ebbe un ruolo significativo come segretario della Fiom e tessitore di rapporti con il movimento contadino, non figura nei libri più noti su mafia e antimafia. Orcel è una figura scomoda, in contrapposizione con una linea “ riformista”, svilita da una pratica compromissoria con il padronato. E questo, assieme all’eliminazione del capomafia, indicato come responsabile del suo assassinio, una sorta di “giustizia proletaria”, in sostituzione dell’impunità istituzionale, può aver pesato nelle “ ragioni dell’oblio”.

Per i sindacalisti e i manifestanti uccisi nel secondo dopoguerra, c’è incertezza pure sul numero. Si parla di 39 vittime, compresi i caduti di Portella, dal 1944 al 1955; sarebbero 52 i dirigenti politici e sindacali morti per mano mafiosa dal 1944 al 1960, secondo l’elenco contenuto nella legge regionale n. 20 del 13 settembre 1999; 60 dal 1944 al 1968; 150 se si considerano anche le vittime della banda Giuliano e di altre bande e i caduti ad opera delle forze dell’ordine durante manifestazioni popolari, come la “ strage del pane” del 19 ottobre 1944 a Palermo. Ma in questi elenchi figura anche qualche personaggio vittima di scontri all’interno del mondo mafioso, come se la morte avesse azzerato conflitti e prese di posizione che hanno segnato un confine tra mafia e antimafia.

Questo libro è il frutto più maturo della strategia di recupero della memoria che ha visto la Cgil negli ultimi anni colmare un vuoto, con segni materiali, lapidi, targhe stradali, che possono essere i primi passi per rinnovare una toponomastica ferma al mito monarchico e risorgimentale, con pesanti risvolti sicilianisti: a Palermo, sul piedistallo del monumento a Francesco Crispi, il massacratore dei Fasci, c’è scritto: ”La monarchia ci unisce...” e le scuole sono intitolate a re e regine sabaudi, tra cui Vittorio Emanuele III, che aprì le porte al fascismo e firmò le leggi razziali. Sono questi gli esempi che offriamo ai nostri studenti. Le commemorazioni di figure dimenticate, considerate non come eventi rituali, ma parte integrante dell’azione sindacale, hanno tracciato un nuovo cammino e un buon tratto di strada è stato percorso con il Centro Impastato. Alla luce di queste esperienze si spiega l’adesione della Camera del lavoro di Palermo come partner del Centro nel progetto del Memoriale- laboratorio della lotta alla mafia.

Il sottotitolo del libro è “Calendario della memoria”, ma questo libro è più che un calendario, non è solo una sorta di santorale laico. Ricostruisce biografie individuali e le inserisce in un contesto. Riscopre una storia. La storia di un percorso di Liberazione che può considerarsi la Resistenza della Sicilia in lotta, a mani nude, contro un nemico che fa uso delle armi e considera la violenza come risorsa e strategia. Troppo spesso vincente. E la memoria, che ripercorre questa storia, come viene sottolineato nella citazione che apre il libro, è « una memoria d’amore » , come quella del soldato Mizushima del film di Kon Ichikawa,“ L’arpa birmana”, ma la Spoon River siciliana più che un cimitero abbandonato è un luogo d’incontro in cui ognuno ha il suo volto e il suo nome e racconta la sua vita.

(La Repubblica Palermo, 29 aprile 2021)

 

giovedì 11 marzo 2021

"La Sicilia terra di eroi che fanno grande quest'isola" di Giuseppe Petralia

Grazie a Giuseppe Petralia per la bella recensione del volume di Alfio Di Costa, "La Sicilia in noi", pubblicato dalle Edizioni La Zisa, apparsa a sua firma su "La Sicilia" di Catania di martedì 9 marzo 2021.



mercoledì 10 febbraio 2021

“Verso Timimoun 'La Rossa'. Cronaca di un viaggio in Algeria” di Sophia Mazzeo (Leggere:tutti 15 gennaio 2021)

 


Il libro “Verso Timimoun 'La Rossa'. Cronaca di un viaggio in Algeria”, è un libro pubblicato da La Zisa nel gennaio 2021

di Sophia Mazzeo

L’autore del libro, nonché anche l’illustratore e scrittore emergente, è Pietro Nastasi e questo è il suo primo libro, all’interno del quale narra le esperienze vissute nei suoi viaggi, le sue sensazioni e i suoi pensieri; potremmo infatti considerarlo come un vero e proprio diario di viaggio.

Pietro Nastasi ha sempre sognato i suoi viaggi già dall’adolescenza e crescendo ha mostrato un interesse per le diverse culture del Mondo; ma è grazie alle esperienze road trip che si scopre appassionato della cultura sahariana e di fotografia.

E’ proprio dalla sua curiosità e da questo interesse per l’Africa che nascono i suoi viaggi; e inevitabilmente, proprio da questi viaggi, nasce il suo desiderio di raccontare ciò che sente, ciò che prova, e di descrivere a parole ciò che i suoi occhi vedono con stupore e meraviglia.

In questo suo libro, Pietro Nastasi racconta il suo ennesimo viaggio in Africa, descrivendo con passione la sua esperienza di viaggiatore tra oasi e infinite sabbie del Sahara, esperienza che gli permette di entrare in contatto con altre realtà locali e altri popoli, che vivono in luoghi molto spesso non raggiungibili dalla maggior parte degli esseri umani, e con tradizioni e abitudini decisamente diverse. E’ viaggiando attraverso Tunisia, Algeria e Libia che l’autore coglie ogni singolo dettaglio, in ogni singolo luogo e in ogni singolo momento, narrando dei lunghi tragitti percorsi con le jeep e delle varie difficoltà affrontate; descrivendo con minuziosi dettagli le dune del Sahara e le notti stellate, i tramonti ogni giorno diversi, le tempeste di sabbia, il rito del tè, l’ospitalità mai negata; parlando di un popolo che si accontenta di quello che ha e che davvero riesce ad essere felice con poco, affermazione che trova il suo punto di forza nella frase: “abbiamo regalato quattro penne al ragazzo, da queste parti sembra sempre essere un regalo graditissimo”.

Pietro Nastasi, Verso Timimoun, “La Rossa”. Cronaca di un viaggio in Algeria, La Zisa, 2020

venerdì 5 febbraio 2021

"Non scordiamo gli eroi dei diritti dei lavoratori". Pietro Scaglione intervista Dino Paternostro

Su Famiglia Cristiana di questa settimana (7 febbraio 2021) Pietro Scaglione intervista il nostro Dino Paternostro a proposito del volume, da poco pubblicato dalle Edizioni La Zisa, "La strage più lunga. Calendario della memoria dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino e bracciantile, caduti nella lotta contro la mafia (1893-1966)".

Il libro: Dino Paternostro, “La strage più lunga. Calendario della memoria dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino e bracciantile, caduti nella lotta contro la mafia (1893-1966)”, Edizioni La Zisa, pp. 336, euro 24,90

 

In Sicilia, dall’Unità d’Italia alla metà degli anni Sessanta del ‘900, si è consumata “la strage più lunga” della nostra storia. Una strage “al rallentatore”, potremmo definirla, snodatasi nel corso di un secolo, il cui “filo rosso” è dato dalla pervicace volontà con cui mafia, agrari e “pezzi” di politica han no colpito il movimento contadino e bracciantile, guidato dal sindacato, che coraggiosamente rivendicava lavoro, diritti, libertà. Sono tanti i caduti di questa lunga strage, la maggior parte dimenticati. Questo libro recupera le loro storie e i loro volti, rendendo a tutti almeno la giustizia della memoria. Raccolti in questo “calendario”, voluto fortemente dalla Camera del lavoro di Palermo e dalla Cgil siciliana, ci sono i nomi dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino e bracciantile, caduti nella lotta contro la mafia. Di questi personaggi Dino Paternostro racconta le storie, così come emergono dagli archivi dello Stato e dagli archivi privati, dai documenti pubblici e privati, dai giornali e dalle interviste dei familiari. Le verità che emergono consentono una lettura aggiornata della nostra storia e del ruolo importante del sindacato e dei suoi dirigenti che, a pugni nudi, hanno lottato contro la mafia e per la costruzione di una Sicilia del lavoro, libera, giusta, civile e democratica.

 

DINO PATERNOSTRO, laureato in Filosofia, per anni segretario della Camera del lavoro “Placido Rizzotto” di Corleone, è oggi responsabile del dipartimento legalità della Cgil di Palermo. Giornalista pubblicista, dirige dal 1989 il giornale (adesso online) “Città Nuove Corleone” (cittanuove-corleone.net). Ha scritto diversi saggi storici, tra cui Placido Rizzotto e le lotte popolari a Corleone (Palermo, 1992), Corleone, l’antimafia sconosciuta 1893-1993 (Palermo, 1994), Antologia di un’epopea contadina (Palermo, 2011), Placido Rizzotto. I funerali di Stato (Palermo, 2016), Pio La Torre e la Cgil. L’impegno sindacale a Palermo e in Sicilia (Roma, 2018).

 

Parte del ricavato della vendita del presente volume sarà destinato ai progetti dell’Associazione INSHUTI Italia-Rwanda onlus

giovedì 19 marzo 2020

“Una vita spirituale in un contesto storico ben preciso” di Pier Giovanni Vivarelli (Riforma, 19 marzo 2020, pag. 4)


L’autobiografia del pastore Giulio Vicentini: una vocazione nell’Italia uscita dalla guerra 

Con il titolo Signore, tu mi hai chiamato per nome – memorie 1932-1960*, la casa editrice palermitana La Zisa dà alle stampe un intenso “diario spirituale” del pastore Giulio Vicentini, scomparso pochi mesi or sono, nell’ottobre 2019. Introdotto da una bella prefazione di Paolo Ricca, che sottolinea la sostanziale continuità del percorso vocazionale dell'autore, il volume è composto da tre capitoli, scritti tra l’agosto e il settembre del 1994, anno della sua emeritazione. Nella migliore tradizione evangelica del Sola Scriptura, ognuno di questi capitoli trae ispirazione anche dai versetti biblici suggeriti dalle Losungen di alcune domeniche di quel periodo.

Primo di una numerosa famiglia contadina, Giulio Vicentini nasce nel 1924 a Lonigo, in provincia di Vicenza (nomen omen), nel Veneto rurale (e “cattolicissimo”) di inizio secolo. Fin dalla più tenera età, rimane profondamente colpito dalle predicazioni di alcuni religiosi della sua zona e ben presto esprime ai suoi genitori la vocazione a seguire le loro orme. Nel ’35 entrerà dunque come “fratino” nel collegio dei frati minori francescani del suo paese. Sarà l’inizio di tutto per il piccolo Giulio, che amerà fin da subito l’idea di povertà evangelica.

La vita e lo studio proseguiranno quindi per diversi anni, con la loro rassicurante, seppur rigida, regolarità, fino al noviziato nel ’39, anno nel quale il suo nome di battesimo viene sostituito con il nome di Ulderico e che si concluse con il pronunciamento dei voti cosiddetti “semplici”. Fra’ Ulderico, nella sua felicemente ingenua, ma genuina, innocenza giovanile, continuerà dunque il suo percorso formativo prima a Gemona e poi a Padova, appena sfiorato dai tragici eventi che al di fuori delle mura conventuali sconvolgono il mondo intero. Anche l’Italia è in guerra, ma le uniche difficoltà per fra’ Ulderico sono di natura alimentare, niente e nessuno riesce a scalfire la coscienza evangelica e il generico patriottismo del giovane religioso, che prosegue i suoi studi a Venezia fino al ’48. Ma il ’48 segna anche il suo definitivo (o almeno tale sarebbe dovuto essere) ingresso nel clero cattolico-romano, con l’ordinazione al sacerdozio, motivo di grande orgoglio per tutta la sua famiglia. Trasferito a Roma, nel pontificio Ateneo Antoniano, i suoi studi teologici si fecero sempre più intensi e generalmente apprezzati.

Pochi anni dopo però, dal 51 circa, si affacciano i primi dubbi a tormentare l’anima del giovane sacerdote: la scoperta dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e degli orrori nazifascisti in generale, alcune questioni di “coscienza sacerdotale” legate alla confessione auricolare di alcuni (e alcune) fedeli, a cui si aggiunsero la conoscenza di alcune forme di devozione popolare (molto prossime all’idolatria) che egli incontrerà in alcuni suoi viaggi in Calabria e infine l’ingerenza in politica dell’establishment cattolico del dopoguerra. Tutto ciò comincia a minare le “fondamenta spirituali” del sacerdote Ulderico (frattanto tornato a Venezia), sempre alla ricerca della libertà cristiana e della coerenza evangelica, che lo stesso Vicentini riassume in una (apparentemente) semplice domanda: “«Cristo dov’è?» (p. 107).

In una domenica del ’55 sarà proprio questa indifferibile domanda a condurlo a fissare un appuntamento con l’allora pastore della chiesa valdese di Venezia, Liborio Naso. Un incontro che gli cambierà la vita per sempre. «I capisaldi della Riforma (solo Cristo, sola Grazia, sola Scrittura) presero ad ancorarsi presto al fondo di me stesso, tanto che ebbi ripulsa a continuare a dire messa e a confessare […] Non sopportavo più di ingannarmi e di ingannare» (p.109). Vicentini giunge quindi a una drastica e radicale scelta, una sorta di salto nel buio (ma con Cristo a fungere da “rete di protezione”): ecco dunque la sua rocambolesca fuga (quasi un’evasione) dal convento dove viveva, la fraterna ospitalità ricevuta da tutta la famiglia del pastore Naso, il suo primo impatto con il mondo evangelico al Centro Ecumene di Velletri, che contribuirà a costruire e dove incontrerà la sua futura moglie Evangelina, a cui seguiranno gli studi a Roma nella Facoltà valdese di Teologia e la consacrazione a pastore nel 1960.

Questa autobiografia non si limita solo all’aspetto spirituale della vicenda umana di Giulio/Ulderico Vicentini, ma ha il grande merito di inserire questa vicenda all’interno di un più ampio affresco storico e sociale. Un libro “orgogliosamente umile”, così come lo furono le vite e le opere di Francesco d’Assisi e Valdo da Lione, e che rappresenta un’ulteriore, preziosa testimonianza della vocazione alla vita nella fede in Cristo. Una vocazione che Dio, nel suo infinito amore, può donare a ciascuno e ciascuna di noi chiamandoci per nome (Giulio, Ulderico o altro, poco importa), una vocazione capace di stravolgere la vita di chiunque trovi il coraggio di accogliere la libertà che viene dall’Evangelo.

* G. Vicentini, Signore, tu mi hai chiamato per nome – memorie 1932-1960. Palermo, La Zisa, 2020, pp. 136. 


mercoledì 13 febbraio 2019

Il debutto letterario di Marco Palumbo. “Sogno (e mistero) di una Sicilia a stelle e strisce” di Riccardo Arena (Giornale di Sicilia, 13 febbraio 2019)



«La stella mancante» e il viaggio nella Trinacria che poteva essere

L’avveniristica Sicilia del 2000 ha il treno superveloce che collega Palermo e Catania, le autostrade senza buche né interruzioni, i grattacieli e le spiagge tipo Malibù e Miami Beach, il turismo e il mare 365 giorni l’anno, i giovani parlano come lingua madre solo l’inglese, anzi l’americano, e chiamano italiani gli stranieri, la Patria è a stelle e strisce e lontana 10mila miglia, ma collegata con re-golari voli di linea diretti. La Sicilia di Marco Palumbo, 54 anni, dirigente regionale alla sua prima fatica letteraria, è una stella, la stella che non c’è e che sarebbe potuta essere, «La stella mancante» (Edizioni La Zisa, 207 pagine, 14 euro, prefazione di Rino Francaviglia) della bandiera americana. In un romanzo gradevole, ben scritto da un esordiente, Palumbo immagina la… tanto immaginata e discussa, possibile annessione della Sicilia agli Stati Uniti, con la sua trasformazione, nel 1950, nella quarantanovesima stella della bandiera americana. Con un governatore che si chiama Alfio Caruso, una conturbante bellezza siculo-americana, di Catania, che si chiama ovviamente Agata, e un professore, il protagonista, Alex Collins, docente di Harvard, che arriva a Palermo per partecipare alle celebrazioni del cinquantennale dell’annessione ma si porta dietro, a sua insaputa, un mistero familiare risalente alla Liberazione da parte delle truppe alleate. Un mistero che Collins andrà scoprendo a poco a poco, in un crescendo che affronta anche questioni irrisolte e ancor oggi controverse, come quella del bandito Giuliano. Perché anche nella Sicilia yankee c’è la mafia. Ma questa è un’altra storia, anzi la solita storia. Purtroppo. (* RAR*)

Il dirigente regionale all’esordio con un romanzo in cui l’Isola è annessa agli Stati Uniti, ci sono grattacieli, un treno superveloce fra Palermo e Catania ma la mafia...

domenica 27 gennaio 2019

Il romanzo della peruviana Alcira Acosta. “Anna, la donna Inca che lotta per i propri sogni” di Salvatore Lo Iacono (Giornale di Sicilia, giovedì 24 gennaio 2019)




«Pianto nel ventre» è un piccolo vademecum contro ogni avversità. Sudamericana naturalizzata, ormai a Palermo è leader motivazionale per le donne del suo Paese. Il racconto è stato «benedetto» da Paulo Coelho, che la incita: scrivere è un atto di coraggio

Una peruviana ormai residente in Sicilia, a Palermo, e un libro, il suo, un racconto lungo «benedetto» da Paulo Coelho. Proprio una dedica di supporto e incoraggiamento («Combatti per i tuoi sogni e i tuoi sogni combatteranno per te, segui i sogni e ascolta il tuo cuore. Scrivere è un atto di coraggio. Che Dio ti benedica») dello scrittore brasiliano di fama planetaria apre il volume. La peruviana Alcira Acosta è una leader motivazionale e fonte di ispirazione per migliaia di donne, specie nell’America centrale e meridionale, una drammaturga e ha portato i suoi monologhi e lavori teatrali in giro per il mondo, dal 2012 anche in Italia.

Il suo racconto «Pianto nel ventre» (85 pagine, 9,90 euro) pubblicato dalla casa editrice palermitana La Zisa, è un piccolo vademecum contro ogni avversità («che arrivano nel momento meno sperato»), un messaggio di coraggio e speranza, un invito a reagire, nella convinzione che «la tristezza travolge quelli che lo permettono», non quelli che si ribellano e la affrontano.

La protagonista del libro di Alcira Acosta è Anna Vilchez, peruviana di orgogliose origini inca, la cui parabola esistenziale è fatta di alti e bassi, fra Perù e Italia (una storia di sfruttamento nei panni di migrante, una storia d’amore nata fra Palermo e San Vito Lo Capo, un matrimonio lungo quindici anni, interrotto da una tragedia aerea, un ritorno in patria); Anna vivrà una graduale evoluzione, che la condurrà alla fede in Dio, ma soprattutto sperimenterà il sapersi mettere in gioco continuamente da donna, moglie, amica e madre, prima spettatrice incredula e ferita per gli errori della figlia Hazé, poi al suo fianco, senza dubbi. (*SLI*)

mercoledì 11 luglio 2018

Su Leggere:tutti di giugno-luglio una recensione del romanzo di SALVATORE GIRGENTI, “Il caso Tancredi. Una storia siciliana”, La Zisa



Recensione di Loredana Simonetti (LEGGERE TUTTI N.122,  GIUGNO-LUGLIO 2018, p. 52)

SALVATORE GIRGENTI, “Il caso Tancredi. Una storia siciliana”, Edizioni La Zisa, 2018, pp. 160, euro 14,90

Sicilia, terra di profumi e gelosie, di infedeltà e disonori, di sguardi bassi e ‘nturciunati’, quella terra che “Garibaldi se lo sarebbe sognato di sbarcare a Marsala, se non ci fosse stato l’aiuto della massoneria”, dove “cumannari è megghiu chi futtiri” e il predominio economico e politico sul territorio fa appello al senso di abnegazione di matrimoni d’alleanza. Ne “Il Caso Tancredi” di Salvatore Girgenti, c’è tutto questo e l’assassinio di Massimo Tancredi, sindaco della città di Marsala, sembra coinvolgere l’intera regione, con un flusso inarrestabile di tutte le cose che non funzionano in Sicilia. Il maresciallo Altisi, piemontese di nascita, nelle indagini si scontra con testimoni oculari che non vedono bene, lettere anonime che citano i nomi degli assassini, contrasti geografici a causa delle sue origini “nordiche” e poi amanti rimaste nell’ombra e uomini che pensano solo a salvaguardare il loro onore.
“Le corna sono come i denti di un bambino: quando crescono fanno male, ma poi ci si mangia bene.” La morte di Tancredi tira fuori tutto quello che era sospeso, perché, come dice l’autore, il siciliano ha la memoria più lunga di quella dell’elefante, non dimentica antichi rancori ed è sempre pronto a fartela pagare.

martedì 8 maggio 2018

“Memorie familiari in una Panormus capitale di fasti e miserie” di Salvatore Lo Iacono (Giornale di Sicilia, venerdì 4 maggio 2018)




Foto dall’album di famiglia, pezzi di vita personale, con sguardo al proprio albero genealogico, a partire dai bisnonni, e, parallelamente la storia del capoluogo siciliano dai primi del Novecento agli anni Sessanta, con le sue conquiste e le sue efferatezze. La città, con i suoi luoghi, la sua lingua, il suo cibo è inevitabilmente protagonista, personaggio vivo, di «Sotto il cielo di Palermo» (141 pagine, 12 euro) di Mariceta Gandolfo, memoir pubblicato dalle Edizioni La Zisa, che però si fa romanzo, anche per le reinvenzioni narrative di alcune vicende private di personaggi reali (c’è chi ha mantenuto la propria identità, ad altri, su richiesta, è stata leggermente modificata).
L’autrice, ex insegnante di scuola superiore che ha scritto e diretto vari lavori teatrali, porta a termine un compito, dar forma concreta a memorie familiari –intarsiate dai principali avvenimenti storici, che fin qui si erano tramandate oralmente –un patrimonio di storie e sentimenti che resterà agli eredi, in particolare ai figli Chiara e Roberto, che condividono la dedica del volume con la madre e una zia dell’autrice: una scrittura senza svolazzi, chiara e semplice, che va al nocciolo delle questione ed è dunque abbastanza efficace.
Come sempre, quando si fa memoria, quando si rievoca il passato, non si può non gettare lo sguardo al presente e soprattutto al futuro. Palermo, che nel romanzo di Mariceta Gandolfo appare come capitale di fasti e miserie, splendori e contraddizioni, per alcuni aspetti non sembra essere cambiata più di tanto. Scorci, persone, situazioni, tradizioni che sono allo stesso modo affascinanti e scoraggianti, sembrano ripetersi ineluttabilmente e invariabilmente. E non è solo una questione di contrapposizione fra le anime diverse, anche quelle apparenti, della città, già dai primi decenni del Novecento – i ricevimenti delle famiglie aristocratiche in ville magnifiche e monumentali contrapposti ai mercati e alle viuzze buie e maleodoranti  – ma qualcosa che fa fatica a muoversi, a rinnovarsi, a cambiare nelle teste di chicchessia, al di là di capacità intellettive, credo religioso, disponibilità economiche, aspirazioni e realizzazioni.
Nella Palermo di Gandolfo fa capolino anche la mafia, infiltrata e riciclata nella politica nell’immediato dopoguerra che rigettava (apparentemente) solo il fascismo. Ma forse la mafia ha già attraversato tre secoli e può rintracciarsi anche poco prima dell’Unità d’Italia. 

martedì 17 aprile 2018

“Sotto il cielo di Palermo” cosa è accaduto… il romanzo della Gandolfo




Di Augusto Cavadi (siciliainformazioni.com, 16 aprile 2018)

Sulla scia luminosa di Rainer Maria Rilke, Wim Wenders ha provato a raccontarci, in un celebre e riuscito film del 1987, cosa si muova sopra il cielo di Berlino. Più modestamente, ma anche più realisticamente, Mariceta Gandolfo prova a raccontarci cosa si muova Sotto il cielo di Palermo (La Zisa, Palermo 2017,) o, meglio, qualcosa di ciò che si è mosso sotto il cielo palermitano negli ultimi cento anni. Qualcosa: più precisamente alcune vicende delle famiglie dei suoi genitori, il dottor Nino e mamma Ela, intrecciate con le “microstorie” di parenti e amici, più o meno noti, appartenenti alla piccola e media borghesia cittadina. La narrazione, sostanzialmente biografica, non lo è in maniera esclusiva: infatti, come dichiara l’autrice in quarta di copertina, si tratta di “un misto di realtà e d’invenzione: autentiche le ricostruzioni storiche, tratte da fonti accreditate e dalla memoria orale; frutto di fantasia alcune vicende private che rispettano tuttavia carattere e temperamento dei personaggi reali”. In questa narrazione Palermo non risulta mero palcoscenico né una sorta di telone dipinto come sfondo: come dichiara la stessa autrice, nello stesso luogo, si tratta di una vera e propria “protagonista del romanzo, con i suoi riti, le sue tradizioni e il suo dialetto colorito, attraverso le ripercussioni che la Storia avrà sulle vite dei personaggi”. Tra queste tradizioni non potevano mancare, di certo, almeno alcuni accenni alle delizie culinarie che aiutano a perdonare tante altre esperienze assai meno delizianti: se è vero, come spiega alla nipotina un personaggio de La lunga storia di Marianna Ucrìa, che l’inferno possiamo immaginarlo fedelmente come una specie di grande Palermo senza pasticcerie. Personalmente ho sottolineato la pagina dedicata alla “pasta al forno” (traduzione italiana dell’enigmatica pasta cu furnu dialettale) (pp. 42 – 43). Raccontare Palermo è impossibile senza notare le sue molteplici contraddizioni che, ancor oggi, mutatis mutandis, la rendono tanto interessante e stimolante quanto faticosa e scoraggiante. Per limitarmi a una sola evidenziazione: la contraddizione, nella Palermo anteriore al boom economico degli anni Sessanta del Novecento, fra la ricchezza, parassitaria ed esibita, degli aristocratici di origine spagnola e la miseria, accettata come dato naturale da una maggioranza di proletariato e sotto-proletariato (nonostante occasionali vampate di ribellione, ma più fuori le mura della capitale che al suo interno: vedi i “Fasci siciliani” di fine Ottocento). Palermo è, storicamente, come quasi tutto il Regno delle Due Sicilie, una capitale senza borghesia colta e soprattutto produttiva, weberianamente intraprendente. Negli anni Venti, quando la nonna materna dell’autrice arrivò a Palermo dalla nativa Milano, trovò “due città: una era la città del popolo, con le viuzze, i mercati, la gente vestita poveramente che parlava ad alta voce in tono sguaiato con un orribile accento dalle vocali molto aperte, che viveva per strada, mettendo le sedie davanti all’ingresso delle abitazioni troppo piccole e buie per poter ospitare tante persone in una stanza; l’altra era la città dei nobili, con i suoi palazzi grandiosi, le ville magnifiche, le signore elegantissime che andavano due volte l’anno a Parigi per rinnovare il  guardaroba, la Palermo dei ricevimenti, delle corse automobilistiche, del golf. Osservò tutto questo con i suoi acuti occhi azzurri e decise che non avrebbe fatto parte di nessuno dei due mondi: loro erano borghesi, venivano dalla più operosa città d’Italia, non si sarebbero mescolati al popolino ignorante, ma neanche alla nobiltà parassitaria, che viveva in modo grandioso ed era capace di bruciare in una sola notte, al tavolo da gioco o in una cena per cento invitati, le rendite di un anno intero delle loro campagne” (pp. 17 – 18). Lei, il marito commerciante, avrebbe riempito il vuoto storico nel mezzo dei due strati sociali opposti: come i Florio, i Whitaker, gli Ingham, i Woodhouse, i Caflisch… Due notazione in chiusura. La prima è una precisazione. A proposito dello sbarco delle truppe statunitensi in Sicilia nel 1943, e della nomina a sindaci di vari mafiosi, l’autrice scrive che “la mafia era così entrata ufficialmente in politica, infiltrandosi nel principale partito di governo, comprandosi il voto degli elettori” (p. 72). Ma è davvero questo il momento in cui la mafia entra in politica o vi era entrata a metà del secolo precedente? Anzi: la mafia non era diventata mafia proprio quando era entrata nei gangli dello Stato? Lo dimostra, con una serie impressionante di testimonianze, Umberto Santino nel suo recente La mafia dimenticata. D’altronde è proprio in nome di un ambiguo antifascismo dei mafiosi (di quei mafiosi che non erano riusciti a riciclarsi nei quadri del Partito fascista e che erano stati perseguiti dal regime, almeno sino al trasferimento del prefetto Mori) che essi vengono nominati sindaci. La seconda notazione apre uno spiraglio sul futuro. Infatti, come avviene di norma, anche in questo libro lo sguardo attento e curioso sul passato suggerisce – pur senza proporselo intenzionalmente – delle idee per l’immediato futuro. Un esempio lo traggo dalle righe iniziali di pagina 51: “Mondello è tutt’ora bellissima, ma a quei tempi doveva essere una specie di paradiso: anche le foto in bianco e nero lasciano intuire la trasparenza dell’acqua, il bianco accecante della sabbia, il verde fitto dei giardini e dei palmeti. Una volta, quando vennero a Palermo lo zio Ernesto e la zia Dina, i ragazzi, in loro compagnia, avevano preso il battello a vapore che collegava giornalmente il porto di Palermo col porticciolo di Mondello e quella gita per mare era rimasta indelebilmente impressa nei loro cuori” (p. 51). Dunque l’idea di un collegamento giornaliero fra Palermo e Mondello via mare non è solo una bizzarra fantasia che mi accompagna da molti anni, ma è stata effettivamente realizzata quasi un secolo fa ! Perché non potrebbe realizzarsi nuovamente, magari estendendosi in estate tra porti siciliani più distanti?


mercoledì 14 marzo 2018

“L’origine del male. Sul pensiero filosofico dell’ultimo Pareyson”. Una bella e stimolante recensione di AUGUSTO CAVADI




L’origine del male. Sul pensiero filosofico dell’ultimo Pareyson (La Zisa, Palermo 2016, pp. 112), di Giada Trapani, si presta almeno a tre prospettive di lettura. E’, infatti, prima di tutto, uno studio su Luigi Pareyson (1918-1991): e, da questa angolazione, ha il merito di evocare uno dei maggiori pensatori italiani del XX secolo, maestro di Umberto Eco e di Gianni Vattimo. Secondariamente è uno studio su una delle fonti principali della meditazione speculativa dello stesso Pareyson: il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling ( 1775-1854), a sua volta uno dei maggiori pensatori del XIX secolo. Per quanto interessanti, queste prime due angolazioni riguardano direttamente la storia della filosofia e, dunque, intrigano molto di più gli specialisti della disciplina che il lettore “comune”. A quest’ultimo, invece, può interessare piuttosto la terza prospettiva da cui questo testo della Trapani si presta a essere letto: la domanda, inquietante e universale (cui si riferisce il titolo stesso della monografia), su “l’origine del male”. Ed è su quest’aspetto che mi propongo di dire qualcosa nel corso della presentazione del libro della Trapani previsto, in compagnia di Giampiero Tre Re, presso la Libreria del Mare (a Palermo, in via Cala 50) venerdì 16 marzo alle 17,30. Le cronache quotidiane, ma prima ancora la biografia di ciascuno di noi, sono sommerse da eventi dolorosi: bambini che nascono con gravi malformazioni genetiche, individui irresistibilmente attratti dal sadismo e dal masochismo, terremoti e uragani, conflitti tribali e guerre mondiali… Il quadro non si alleggerisce certo se lo sguardo si amplia sino a coinvolgere gli altri animali senzienti della Terra o le catastrofi cosmiche in milioni o forse miliardi di galassie. Di fronte a questi dati irrefutabili si registrano molte, diversissime, reazioni. Una prima reazione è il voltarsi dall’altra parte, il decidere di non farci caso. Di non pensarci, almeno sino a quando non veniamo visitati dal male nell’intimità della nostra casa. Pascal parlerebbe della strategia del divertissment. Pareyson accenna a qualcosa di simile quando parla di “nichilismo consolatorio, come forma di eudemonismo” che “va alla ricerca della felicità percorrendo una strada sollevata dal peso della pena e del dolore” (così la Trapani a p. 90). Un modo simile di non pensarci è di affidarsi a una Volontà superiore che chiamiamo talvolta Destino talvolta Dio : la “rassegnazione” pagana degli stoici o di molte correnti del cristianesimo (da alcuni passi evangelici al fideismo di circoli cattolici e protestanti contemporanei). Una terza reazione ha trovato in sant’Agostino il suo maestro e in Leibniz il suo esponente estremista: il male c’è, ma come risvolto inevitabile del bene. Agostino: Dio ha voluto creare un essere libero (e la libertà è un bene), ma l’uomo ha usato male la libertà (il peccato è appunto male morale) e, di conseguenza, ha sperimentato la sofferenza (il male fisico come effetto del male morale: l’anima si è ribellata a Dio, il corpo si è ribellato all’anima, l’universo si è ribellato al corpo). Tutta questa tragedia ha costituito la condizione di possibilità dell’incarnazione redentrice: “ O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere  redemptorem ! ”. Insomma, alla fin dei conti, un mondo con un Dio incarnato per riparare il peccato dell’uomo è un mondo migliore di un mondo senza peccato, senza sofferenze, ma anche senza Cristo. Leibniz va oltre: questo mondo, con i suoi chiaroscuri di bellezza e di bruttezza, non è solo migliore di un mondo senza libertà, ma – dal momento che Dio è sommamente buono e sommamente potente – è “il migliore dei mondi possibili” (l’autrice del saggio ne riferisce alle pp. 66 – 67). I tentativi di salvare onnipotenza e assoluta bontà divina non convincono l’ebreo Hans Jonas: dopo Auschwitz bisogna scegliere fra un Dio onnipotente ma non buono e un Dio buono ma non onnipotente. Siamo a una quarta, possibile, reazione davanti al tema del male nell’universo: Dio, per creare il mondo, si è ritratto (antica dottrina dello zim-zum), lasciando uno spazio alle creature. In quello spazio egli non ha più potestà: accetta il rischio che le cose vadano come devono andare, o come gli uomini vogliono che vadano, senza poter interferire attivamente. Sia i cristiani Agostino e Leinbiz sia l’ebreo Jonas cercano nella libertà umana la chiave di spiegazione dell’enigma costituito dal male: ma non è questo un orizzonte troppo antropocentrico? Soprattutto alla luce delle scoperte cosmologiche da Copernico all’astronomia contemporanea, come cercare in un esserino comparso pochi secondi fa la ragion d’essere di sconvolgimenti che hanno interessato l’universo da tempi immemori e, per non andare troppo lontano, gli animali del nostro pianetino (vedi dinosauri) ben prima della comparsa dell’homo sapiens (e, sia pur condizionatamente, liber)? E’ sulla base di simili considerazioni che pensatori come Schelling (e come Pareyson che a lui si rifà) ritengono inevitabile allargare enormemente il campo d’indagine e spingersi a cercare l’origine del male, del negativo, in Dio stesso (o comunque si voglia denominare il Fondamento primo e assoluto da cui scaturisce momento per momento tutto ciò che è): non accettano di “affermare che la sola libertà dell’uomo può sostenere l’intero peso del male che dilaga nell’universo”, convinti che una visuale solo etica “si rivelerebbe troppo ristretta per un affare così immane e sconvolgente” (p. 101). Il male si squaderna nell’universo non come un imprevisto – più o meno riparabile, più o meno provvidenziale – ma come espressione necessaria di una ferita originaria nel cuore stesso della Sorgente abissale di ogni ente. L’ipotesi interpretativa non è facile da sintetizzare perché si basa sull’intuizione vertiginosa che ci sia “Dio prima di Dio” (p. 103). Schelling infatti distingue, nella sfera del divino, la Persona di Dio da una più radicale, abissale, Natura divina che come un humus primordiale contenente di tutto, tanto di positività quanto di negatività: “La natura di Dio è il desiderio che prova Dio di generare se stesso, è il volere esistere di Dio. Ma il volere di Dio è privo di luce, di forma, di ordine: è il <<volere nel volere>>, è la bramosia cieca, il buio dell’irrazionale, il cupo mistero di Dio.[…] Dio esce dall’abisso per divenire Dio vivente, personale e conquista la sua personalità attraverso il suo movimento in cui si realizza la sua libertà.[…] Il principio  oscuro e il principio di luce in Dio sono inseparabili” (pp. 56 – 57). Insomma: “per Pareyson, come per Schelling, il male è nel mondo perché è già in Dio” (p. 58). Tutta questa teoria vorrebbe illuminare ciò che accade ogni giorno sotto i nostri occhi: “La vita, che è conflitto tra il bene e il male, rispecchia l’originaria lotta che è già nell’Assoluto, e la storia degli uomini che diventa strumento e fine della vittoria del positivo sul negativo riverbera l’affermazione che si è compiutamente realizzata eternamente in Dio, e attraverso la quale Dio si costruisce come persona che si fa” (p. 59). Se Dio stesso, in quanto “libertà originaria, ha avuto una profonda radicale esperienza del negativo al punto da averlo vinto e debellato per sempre, ciò significa che Dio stesso non è pensabile se non come contenente in sé il male per quanto questo si mostri già superato e vinto all’interno stesso della positività di Lui”; non è pensabile senza ammettere “una zona d’ombra nella positività originaria stessa” (p. 103). Ma se è inquinata la Sorgente, tutto il corso del ruscello ne risentirà: “Il dolore, l’insopprimibile tristezza umana, la malinconia di ogni vita, la sofferenza, la finitezza della condizione umana, il fatto ampiamente constatabile che il male è contemporaneamente nel cuore di ogni realtà vivente e dell’universo intero, secondo il nostro filosofo, hanno la loro radice proprio in questa zona d’ombra intrinseca alla positività stessa” (ivi). Non è questo il luogo opportuno per approfondire questa concezione del male, ma almeno un cenno lo si deve all’idea di Dio che essa comporta: un Dio pensato non più come pura Trascendenza, ma come Trascendenza-Immanenza; non monoteisticamente (né tanto meno teisticamente) , ma pan-en- teisticamente. Un’osservazione in margine. Queste opinioni su Dio differiscono molto dall’idea che di Dio mostrava di avere Gesù di Nazareth, almeno se ci basiamo sui vangeli (canonici ed extra-canonici). Tale differenza può mettere in crisi la fede (nell’accezione abituale del vocabolo) del credente “comune”? Dipende dalla nostra attrezzatura esegetica in campo biblico. Se siamo ancorati a una visione medievale di Gesù come Onnisciente, incaricato di rivelare le verità divine più segrete, quasi una sorta di cassaforte metafisica a disposizione dei teologi, apprendere che egli avesse una concezione di Dio altissima, ma imperfetta, può risultare sconvolgente. Se, invece, alla luce degli studi biblici degli ultimi due secoli, abbiamo riscoperto la vera umanità di Gesù, e dunque abbiamo capito che egli non era un esperto di tematiche speculative ma un maestro di vita, allora le indicazioni più tipicamente evangeliche (riguardanti l’impegno per una società improntata alla sobrietà, alla nonviolenza, alla solidarietà, alla fraternità e così via) resteranno valide, per nulla intaccate. Personalmente, insomma, ho molte riserve sulle teorie pareysoniane circa l’origine del male, ma non mi sognerei di dichiararle eretiche: vanno esaminate e discusse laicamente come laicamente va vagliata ogni teoria filosofica. Eretico, in questo campo, può essere chi viola l’ortoprassi più che l’ortodossia: chi conta di vivere al riparo della sofferenza, anche a costo di seppellirsi nel bunker del proprio privato per non vedere né ascoltare il dolore dell’universo.

(Siciliainformazioni.it, 13 marzo 2018)


martedì 19 dicembre 2017

“Indagare la morte con la poesia” di FRANCESCA VITALE (Leggere:tutti, dicembre 2017)




È una poesia non intitolata, No Title, la suprema essenza del messaggio che Giulia Chines, autrice della sua prima raccolta poetica L’ombra della morte e il diaspro sanguigno (Edizioni La Zisa), vuole trasmettere. “Ho paura di non poter più ascoltare il mio cuore battere ogni sera, di non potermi stringere al petto e sentire il mio respiro”. La scrittrice, nella sua continua ode alla morte come divoratrice di anime sole ingannate da una luce che alla fine tutto toglie, sembra ritrovare nell’assenza della vita il vero esistere libero dal tormento che giace eterno nel mondo sopraffatto dal tempo che, come si evince nel componimento la clessidra del tempo, “è un infame aguzzino, un tremendo padrone”. E la morte sembra l’unica voglia ristoratrice del cuore, e ne ricerca avidamente e voracemente il convincimento. È, però, ancora un dubbio amletico, tanto da non riuscire a trovar la giusta risposta alle sue colpe travestite da domande: “dimmi se soffri di più vivendo senza poter volare o morendo senza poter gioire. È più nobile il coraggio di stare in catene o la forza di strapparle via?” Ma in questo continuo indagare la morte, la scrittrice ammette che il desiderio più intimo nel pensiero è quello di un bacio, “quasi che l’amore possa far svenire ogni paura, ogni dolore, solo con un tocco di labbra...” E allora in questo Campo di battaglia esiste ancora Verità in questo inferno e la speranza che tutto questo un giorno finisca. “Mentre urlo al cielo che mi prende bestemmio senza capirlo guardando l’inferno che lascio su questa landa in fiamme sperando che il mondo mi ricordi.”
Il libro: GIULIA CHINES, “L’ombra della morte e il diaspro sanguigno. Poesie”, La Zisa, 2017 pp. 72, euro 8,00

lunedì 8 giugno 2015

Il quotidiano tedesco “Der Patriot” (http://www.derpatriot.de) recensisce “Neve dall'Etna. I racconti siciliani di Thomas Valentin” (Ediz. italiana e tedesca) della nostra Cristina Sanfratello (Ed. La Zisa).




Due parole sul libro recensito: Dopo la presentazione dell'autore e della sua poetica, offerti quindi gli strumenti necessari per la difficile interpretazione di un testo letterario, l'autrice lascia la parola a Thomas Valentin e alle sue suggestioni meridionali, fiduciosa di aver accompagnato con la cura necessaria gli astanti all'interno dell'anima del testo tradotto. La Sicilia raccontata da Valentin è una Sicilia senza veli, senza falsi entusiasmi e liberata dalla morsa di pregiudizi il più delle volte infondati. Per poter arrivare a tale comprensione non basta "muoversi e partire" ma è necessario, il più delle volte, che in quei luoghi si senta l'odore di casa; una casa intesa non nell'accezione di origine, ma piuttosto come quell'imperscrutabile luogo in cui dimora l'animo umano. Quello di Valentin è infatti un viaggio che racchiude in sé il momento del ritorno, del ritorno a sé: l'autore, quel luogo, che non fece altro che porgergli uno specchio, lo trovò proprio in Sicilia, nei suoi abitanti, nei suoi tramonti, in quegli sguardi traboccanti di parole; Valentin trovò la Sicilia soprattutto nei suoi silenzi.