E’ assurto al mainstream
nazionale, tramite il sito web de Il Fatto Quotidiano, il caso di Linda Rando,
la blogger condannata dal tribunale di Varese per la presenza sul proprio sito
– così dicono – di commenti da qualcuno giudicati diffamatori della propria
reputazione.
Linda è l’amministratrice del
blog writer’s dream, e parla a migliaia di persone dei problemi del mondo
dell’editoria e della scrittura. Di recente s’è schierata contro i cosiddetti
editori a pagamento; quelli che, per intenderci, pubblicano le opere dietro
corrispettivo, archiviando l’ideale romantico dell’imprenditore che crede in un
autore, lo finanzia, e ne condivide a proprio rischio i successi e gli
insuccessi. Non si tratta tanto di crisi di talenti, anzi: gli aspiranti autori
sono sempre di più, ma per gli editori diventa sempre più difficile scegliere
se e come investire, e alcuni (tanti?) si sarebbero riciclati in questo
compromesso.
Linda, dicevamo, s’è schierata,
affrontando l’argomento sul proprio blog. Ha avuto quindi l’idea – scrive
Alessandro Madron sul pezzo de Il Fatto Quotidiano che se n’è occupato sul web,
presto ripreso e rilanciato da decine di altri siti web e quotidiani
tradizionali –“di creare delle liste nelle quali elencare tutti gli editori che
in qualche forma si facevano pagare dagli autori per pubblicare i loro libri”.
La discussione – prosegue Il
Fatto – “ ha dato vita ad una lunga sequenza di commenti, alcuni dei quali
oggettivamente lesivi dell’onorabilità e della dignità delle case editrici
citate”. Una di queste, quindi, ha portato Linda innanzi al Tribunale di
Varese. “Sono andati a colpo secco su di me” – si legge nell’articolo –
“ritenendomi responsabile del contenuto dei commenti scritti dai lettori”.
Facciamo chiarezza. Della vicenda
ci eravamo occupati in Caffè News qualche giorno fa: stupiti dalla notizia,
siamo stati tra i primi a contattare Linda, a offrirle la nostra solidarietà e
a chiederle, ottenendola, copia della sentenza. Dopo averla letta, abbiamo
deciso di non pubblicare alcun articolo in proposito. I presupposti e i fatti
non danno invero, a legger la sentenza, alcuna ragione a Linda, né abbiamo
intravisto tra le motivazioni alcuna ingiustizia, malversazione o persecuzione
giudiziaria. Linda ha pubblicato sul proprio blog, dal 2008 al 2010, contenuti
gravemente diffamatori per terzi (“cloache editoriali”, “strozzini”, “cosche
mafiose”, “repressa del cazzo”: “affermazioni travalicanti il diritto di
critica” – si legge in sentenza – obiettivamente tali da ledere l’onore della
casa editrice), ed è stata condannata: multa e risarcimento, più le spese. Se
ricorrerà in appello, come annuncia di fare, la vicenda proseguirà in secondo
grado. Nessuna notizia, quindi, a nostro giudizio, a meno di non considerare
notiziabile la circostanza che chi sbaglia paghi. Per noi, quindi, nessun
articolo, e non ne avremmo parlato più.
Nei giorni successivi però, con
nostro grande stupore, abbiamo visto la notizia cavalcata dai media nazionali,
con un taglio teso ad avvalorare in chi legge l’idea che la blogger abbia
subito un torto giudiziario. Prospettiva che purtroppo travisa del tutto il
contenuto stesso della sentenza.
Si legge infatti su Il Fatto, per
esempio, che “il blog è stato trattato come un qualunque giornale cartaceo, per
cui Linda, in qualità di responsabile della pubblicazione, secondo il giudice –
che cita espressamente la legge sulla stampa del 1948 – avrebbe dovuto
intervenire censurando i commenti diffamatori”.
Da una lettura persino
superficiale della sentenza, però, ci si rende facilmente conto che non occorre
essere giuristi per capire che questo non è vero. Sarebbe bastato semplicemente
leggerla con maggiore attenzione: “nel caso di specie” – recita infatti – “il
sito writersdream.org non ha caratteristiche di informazione ascrivibili alla stampa,
ma costituisce la base per la costruzione di un gruppo settoriale di interesse,
composto da scrittori esordienti, o aspiranti tali, mediante la discussione di
temi comuni”. Il giudice quindi non ha affatto assimilato il blog a una testata
giornalistica, e conseguentemente non ha applicato per esso la normativa cui
queste soggiacciono, ma ha considerato invece il sito web niente più che “un
mezzo di pubblicità” delle offese recate (“documentate ampiamente“), in parole
povere una specie di megafono privo di dignità giornalistica, pur ammettendo
che compete al giudice, volta per volta, decidere se un sito web possa
qualificarsi, o meno, come “stampa”.
Venendo alla vexata quaestio
della condanna avvenuta a causa dei commenti pubblicati dai lettori del blog,
considerata su Il Fatto online la vera notizia, tanto da assurgerne a titolo: «
Diffamazione, blogger condannata: “Responsabile per i commenti dei lettori »,
ci amareggia constatare che in sentenza la questione dei commenti non è
affrontata se non marginalmente: “l’attribuzione di responsabilità
all’imputata”, recita infatti il dispositivo, “è diretta”.
Linda Rando è stata condannata
intanto per quanto da lei stessa scritto (“intraprendeva una campagna
denigratoria”), e poi – è qui l’unico accenno ai commenti – per quant’altro di
diffamatorio fosse pubblicato sul sito da lei amministrato, intendendosi
implicita la sua approvazione dei commenti pubblicati dai lettori. Gli autori
dei commenti, si legge, “semmai concorrono nel reato, ma di essi in questo processo
non v’è traccia d’identificazione, né sono imputati”. Se mai restasse un
dubbio, basta leggere quanto dichiara a Il Fatto la stessa blogger: “ancora
oggi non sono riuscita a trovare i commenti oggetto della condanna”. Hai visto
mai. In ordine alla responsabilità oggettiva dell’amministratore di un sito sui
commenti per suo tramite postati in rete, nulla da dire: basta applicare un
filtro, ed approvarli tutti ad eccezione di quelli da codice penale. Chi non lo
fa, bene che si sappia, ne ha colpa, e condivide le responsabilità con
l’offensore. Il reato, infatti, non solo si commette in casa mia ma, di più, si
commette a causa del fatto che ho lasciato imprudentemente la porta aperta.
La vicenda, fuor dal processo, è
comunque di primissima attualità, e per due motivi.
Il primo è sotto gli occhi di
tutti, e pone molti interrogativi, nel constatare il persistere d’un certo modo
di fare informazione travisando fatti pur evidenti in nome dello scoop
giornalistico, finendo così per confezionare la notizia, piuttosto che
raccontarla. La notizia, a nostro avviso (ma è la stessa etica giornalistica a
parlare) non può sovrapporsi ai fatti, ma deve piuttosto riferirli, certo
commentandoli in vario modo, ma senza mai piegare la realtà. Se sono leciti
differenti punti di vista nella redazione di un articolo – quelli che gli
addetti ai lavori chiamano tagli redazionali – ecco che questi devono sempre
sapersi mantenere nell’alveo dell’obiettività oggettiva. Che in questo caso,
come in altri, e purtroppo sempre più spesso, è venuta a mancare.
Il secondo si legge nel
dispositivo della sentenza, nel punto in cui il giudice considera,
relativamente alla condotta complessiva della blogger, le circostanze
aggravanti che le sono contestate equivalenti all’attenuante della giovane età
e “di una sottovalutazione delle condotte illecite, frutto di una diseducazione
di cui essa stessa è vittima, in un contesto sociale di falsamente proclamata
liceità di qualsiasi lesione dell’altrui personalità morale, tanto più se
veicolata dai mezzi di comunicazione”. Il giudice di Varese ha qui preso atto
del dilagare di una violenza verbale non più tollerabile, tanto nel mondo reale
che in quello digitale, esito di una cultura distorta entro la quale
sembrerebbe essere invalsa l’opinione che la rete è una zona franca nella
quale, protetti dall’anonimato del nickname, è lecito sparare a zero contro
tutti e tutto, lasciarsi andare ai commenti più triviali, ed esternare ogni
pensiero proveniente dalla pancia come mai ci si sognerebbe di fare nella
realtà.
Non è così. E sarebbe ora di
capire che la rete è strumento di comunicazione mediata che non ci pone al di
fuori, ma ancor a più stretto contatto con la realtà. E come accettiamo che i
contratti che stipuliamo in rete sono contratti veri, o che i conti correnti
online sono conti correnti veri, parimenti dobbiamo riconoscere che le offese
che rivolgiamo ad altri in rete sono offese vere e, di più, destinate a
persistere per tempi che non potremo controllare, e a circolare con velocità
che ancor adesso neppure comprendiamo.
L’argomento contrario fa leva
spesso sulla censura: “come principio non censuriamo i commenti”, si legge
nell’intervista rilasciata da Linda a Il Fatto Quotidiano. Il blog, dice, “è
uno spazio di libera espressione e ciascuno dovrebbe poter dire quello che
pensa, assumendosene la piena responsabilità”. Ebbene, anche a rischio
d’apparire retrogrado, dirò che se qualcuno dei miei commensali, invitati una
sera a cena a casa mia, si sognasse d’insultare gli altri gratuitamente, lo
censurerei eccome, e gli indicherei pure la porta, senza timore d’esser passato
per quello che non consente la libertà d’espressione del pensiero.
Libertà d’espressione non è
infatti il poter cedere ad ogni impulso coprolalico, non è rutto libero, e non
ha esito nella sovranità d’insultare tutti impunemente. Non si tratta infatti
di censura, ma sono chiamate in causa, assai più banalmente, alcune elementari,
quanto dimenticate, regole di ordinaria buona educazione.