Ci sono infiniti modi per raccontare una città. E tante le
chiavi di lettura da cui partire. Perché una città, soprattutto una grande
città, ha tante sfaccettature che forse risulta difficile, per riassumerle
tutte, dedicarvi anche una vita intera.
Appare bella Palermo, sontuosa direi. Allegra nelle sue
vetrine illuminate, nella gente che sciama per le strade, nelle centinaia di
rosticcerie profumate che trovi ad ogni angolo di strada, nella pasticcerie che
ti adescano voluttuose per offrirti delizie mai assaporate, nei ristoranti
sempre affollati stracolmi di pietanze stuzzicanti, nei mercati ricchi di cibi
esposti con spudorata sensualità, sì, ti affascina Palermo, e la credi
fortunata, felice, anzi “felicissima” come si diceva una volta. E poi, basta
soltanto inoltrarti per una stradina secondaria, fare pochi passi lontano dal
centro e ti trovi di fronte a spettacoli di miseria che avresti creduto
appannaggio esclusivo di popolazioni del Terzo e Quarto Mondo. Ma non è una
miseria dignitosa, come la puoi trovare in Africa, in Asia, o in Sud America.
Non c’è dignità nella miseria palermitana, così come nella sua ricchezza.
Eppure a sentire i
cittadini del capoluogo siciliano, Palermo è la più bella città del mondo, ha
un clima invidiabile, vanta storia e tradizioni di tutto rispetto (ma quanti le
conoscono veramente, e non per sentito dire?). Tanta devozione avrebbe dovuto
partorire chissà quale crescita culturale, ed invece poco e niente. È un
mistero inspiegabile, ma Palermo è anche la città dei misteri inspiegabili.
Non mi riferisco qui alle tante vicende di mafia che le
hanno dato fama imperitura in tutti e cinque i continenti. Palermo, per
fortuna, non è soltanto la capitale della mafia (e dell’antimafia, non
dimentichiamolo), ma sembra che per il mondo intero l’unico argomento degno di
nota riferito a questa città siano i delitti di Cosa Nostra. Questa opinione
diffusa, quasi impossibile da contrastare e sradicare, ha a sua volta generato,
proprio nel campo della cultura, una distorta visione della città stessa, anche
tra le menti più lucide e colte che in essa operano ai più diversi livelli.
È una condanna, ormai. Un luogo comune, dal quale non si
riesce a venirne fuori. Responsabilità degli altri, sicuramente. Ma non solo.
La verità è che Palermo non vuole o non sa proporsi sotto altra luce.
Una città cannibale, qualcuno l’ha definita. E forse non ha sbagliato del tutto. Non credo che ci sia altra città al mondo che ami divorare se stessa, il suo passato, il suo presente e il suo futuro come Palermo. Una città che rifiuta la sua storia, quasi fosse un peso insopportabile, è giocoforza destinata a prendere in prestito modelli comportamentali altrui, non si confronta con essi, li accetta passivamente, senza offrire in cambio il contributo della propria identità, con la quale gli altri debbano a sua volta confrontarsi. In fin dei conti rimane soltanto una grande città di provincia, senz’anima.
Si può amare Palermo, soltanto odiandola. Nei suoi vizi
secolari, e nei suoi miasmi segreti. Un città che si riunisce e si attarda
volentieri di fronte a tavole riccamente imbandite, ma dove il pettegolezzo e
la calunnia, la maldicenza e il rancore trasudano anche nelle chiacchiere
frivole, nella fantasiosa mimica facciale e nella gesticolazione esuberante e
talora un po’ sboccata. Dove il parlare chiaro e tondo è un difetto
imperdonabile, e l’ammiccamento e il sottinteso una pregevole virtù. Un città
ambigua, falsa e bugiarda. E frantumata in gruppi o caste che mai sono riusciti
a identificarsi in un comune sentire. Un agglomerato di uomini e cose, più che
una città, tenuta insieme da fili sottilissimi e inestricabili, da legami di
convenienza e di subordinazione, imposti e accettati, ma sempre sul punto di
esplodere in conati di violenta ribellione. Una ribellione che non si capisce
bene, quando scoppia, verso chi sia diretta. Perché a Palermo tutti sono
colpevoli e innocenti nello stesso tempo. O così almeno si vuol far credere, e
forse il crederlo non è poi così errato.
Una città autolesionista, che non si ama e non si riconosce
come città. Come tutto ciò sia potuto succedere e come rimanga immobile nei
secoli, questo resta ancora una questione irrisolta. Ma Palermo è la città
delle questioni irrisolte. Come quello di una classe dirigente capace, colta e
moderna. Perché qui abbiamo imprenditori cialtroni e bottegai spocchiosi,
politici boriosi ed egocentrici e intellettuali vanesii, popolino tracotante e
piccola borghesia servile e ipocrita. Città incolta, Palermo. Improduttiva e
gaudente. Opaca, anonima, stanca: una città che sospira e non respira.
Eppure la cronaca di ogni giorno, la più recente e la più
antica, è ricca di storie straordinarie, che possono dare spunto ed alimento ad
una produzione artistica di buona e talvolta ottima levatura. Storie grandi e
storie piccole. Nelle quali un russo, un americano o un cinese possono
ritrovarsi. Perché le storie degli uomini sono comprensibili da tutti, anche
se, com’è naturale, possono essere diverse da quelle di altre città. Anzi,
proprio la diversità ne costituisce il pregio maggiore.
Ci sono a Palermo,
non meno che in altre città, personaggi, situazioni, vicende che possono
aiutare a capire il mondo in cui viviamo. Oltre, ovviamente, allo spirito
peculiare del luogo in cui tali storie nascono. Palermo vive le contraddizioni,
le mode, i gusti, i drammi che vivono città come Roma, Milano, Parigi, Londra o
New York. In modo diverso, senza dubbio, ma nella sostanza sono più le
somiglianze che le differenze. Eppure la produzione letteraria di Palermo,
tanto per fare un esempio, varca raramente i confini dell’isola (e, il più
delle volte, della stessa provincia).
Calorosa e spietata, dunque. Partecipe e indifferente.
Solidale ma inflessibile con chi cade. Che mette in mostra tonnellate di cibo,
e non riesce a sfamare i poveri delle borgate maleodoranti. Che rimpinza di
soldi un esercito di inutili burocrati, e nega un aiuto modesto a chi ne ha
estremo bisogno. Che ha edificato centinaia di chiese, che venera la sua santa
patrona, certificando in questo modo la sua religiosità, ma lascia che i suoi
figli portatori di handicap vivano, o meglio muoiano, isolati come nei tempi
antichi si usava fare con i lebbrosi. Che ama parlare di democrazia e di
libertà, e nello stesso tempo insinua nella mente dei più che il potente di
turno va rispettato, ossequiato e che soltanto da lui dipende il loro futuro.
Che si crede moderna, ed invece è ancora maledettamente, tragicamente,
inesorabilmente feudale. Che perfidamente, prima ti seduce e poi si nega.
Una città impossibile da decifrare. Che non è mai quella che
sembra. Una città difficile da vivere per chi non è potente, per chi non ha
amici potenti, per chi verso i potenti non ha alcun riguardo particolare. O,
più semplicemente, per chi ha occhi per vedere, orecchie per sentire, e bocca
per gridare la propria rabbia.