Metti un imprenditore coraggioso che sfida la mafia. Uno
Stato che appare assente se non ostile e tanti amici che non si rassegnano e
continuano a lottare con lui perché le cose in Sicilia, e non solo, cambino
davvero. Ancora grazie a Daniele Ventura, Andrea Turco, Beatrice Raffagnino,
Stefania Petyx, Giancarlo Cancelleri, Raffaele Genova e a tutti quelli che sono
intervenuti, così numerosi, alla presentazione del libro "Cosa nostra non
è cosa mia" (Ed. La Zisa) alla Feltrinelli di Palermo. Il cammino è appena
iniziato!
La casa editrice La Zisa nasce nel 1988 a Palermo e in breve tempo si afferma nel settore dell'editoria di qualità proponendo classici ormai dimenticati e nuovi autori di talento.
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venerdì 8 giugno 2018
Un pomeriggio davvero speciale con Stefania Petyx e tanti altri amici
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giovedì 12 aprile 2018
Cosa nostra non è cosa mia, parla un imprenditore «Ho denunciato pizzo ma Stato mi ha lasciato solo» di Andrea Turco (MeridioNews, 27 MARZO 2018)
Nel libro pubblicato da
Edizioni La Zisa Daniele Ventura racconta la sua vicenda di ex gestore di un
bar, costretto a chiudere dopo aver pubblicamente denunciato i suoi
estorsori. «La mia è una sconfitta per tutte le istituzioni». Ora gli sono
rimasti i debiti e una flebile speranza «nei giovani»
«Resto nella mia Palermo». Daniele Ventura è
un ex imprenditore, ora assediato dai debiti per un'attività commerciale iniziata
sotto i migliori auspici e finita tra richieste estorsive, denunce isolate e la
paura di una vendetta da parte della mafia.
Non è un eroe, ammette di aver avuto paura e di continuare ad averne. «Il
coraggio, uno, se non ce l'ha mica se lo può dare» per citare don
Abbondio: ma la forza di volontà, quella sì, ce
la si può dare: «Ho valutato altre ipotesi, ma ho scelto
di restare per cercare di cambiare qualcosa, per non darla vinta a loro».
Ora Daniele, classe 1984, ha deciso di raccontare la sua vicenda
in un libro. Si intitola Cosa nostra non è cosa mia,
pubblicato dalla casa editrice La Zisa,
con laprefazione di Stefania Petyx e
la collaborazione di Franca Stefania Lo
Cicero. «Questa è la mia storia - si legge
nell'introduzione - la storia di un bambino divenuto ragazzo che ha
combattuto contro la sua paura più grande, una paura chiamata Cosa nostra». E
di paura Daniele ne ha avuta tanta. Come non averne per un giovane che, cresciuto a Brancaccio nel
quartiere di don Puglisi decide, dopo il tentativo (fallito) di iscrizione alla
facoltà di Medicina, di avviare un'attività commerciale.
«Ho sempre lavorato, ma quasi sempre sfruttato - racconta - e
per questo avevo scelto di mettermi in proprio. Avevo scelto di aprire un
locale tra il porto e piazza Politeama, a due passi da piazza Florio. Ero
riuscito ad avere un finanziamento da Invitalia.
E così era cominciato il mio sogno, con l'apertura a giugno 2011». Il New Paradise, questo il nome del bar, si trova
in via Principe di Scordia, nei pressi di Borgo Vecchio. Neanche il tempo di
festeggiare che appena tre giorni
dopo l'inaugurazione il giovane, allora neanche
trentenne, riceve «spiacevoli visite. In dialetto e con tono minaccioso mi
viene detto "ma tu vai a casa delle persone
senza chiedere il permesso?". Ma io avevo tutto in regola,
almeno per la legge». Non per la mafia, dunque, che intima di pagare il pizzo al nuovo arrivato. In serata. Daniele
cede, temendo ritorsioni per sè e «per la zona». Eppure subito dopo aver
pagato una somma di 500 euro va alla Direzione
Investigativa Antimafia e denuncia i suoi aguzzini.
Il calvario però è solo all'inizio. «I carabinieri mi
invitavano a resistere, a non cedere ulteriormente - continua l'ex esercente -.
Ma quelli tornano, e mi chiedono altri 250 euro per
il primo mese. Intanto terrorizzavano tutto il quartiere, e così anche quella
volta ho ceduto. Io nel frattempo avevo
ingranato: avevo preso alcuni catering, avevo aperto la
pizzeria. Poi arriva l'operazioneHybris,
che azzera il mandamento di Porta Nuova, nata anche in seguito alle mie
denunce. E allora dopo la retata i clienti hanno
iniziato ad abbandonarmi: già non è facile avviare
un'attività in condizioni normali, ma da uno che denuncia la gente non ci
va. Sono riuscito a rimanere aperto per un anno, poi non ce l'ho fatta più».
In quei neanche 365 giorni (la chiusura è avvenuta a giugno del
2012) Ventura vive ancora all'insegna
della paura, tra il danneggiamento dei lucchetti e il furto
della refurtiva, e l'ostracismo del quartiere. «Aprivo alle cinque del
mattino - aggiunge - e ogni volta che spalancavo la saracinesca temevo che mi
potesse succedere qualcosa. Ci sono state giornate in
cui incassavo 15 euro al giorno, soldi con i quali non riuscivo
manco a pagare la luce per tenere aperto. Così ho scelto di chiudere quando i
debiti erano diventati troppo grossi». Intanto va avanti l'iter giudiziario,
con la deposizione pubblica contro i suoi
aguzzini. «Si trattava di gente come Francesco Chiarello,
implicato nell'omicidio dell'avvocato Fragalà. Visti i soggetti, devo dire che
mi è finita quasi bene».
A distanza di oltre cinque anni da quelle vicende, però, Ventura
si sente solo. Riconosce il supporto di Addiopizzo,
«che mi ha dato un grande aiuto dal punto di vista legale e psicologico»,
dell'associazione Up Palermo e della sua presidente Beatrice Raffagnino, e di persone come Ignazio Cutrò e di
Gianluca Maria Calì, «che hanno storie molto simili alla mia».
Ma le istituzioni però sono assenti dai suoi ringraziamenti. «Mi sono
rivolto a tutti, dal
presidente Mattarella all'ex premier Renzi. L'ex presidente
Crocetta non mi ha mai risposto, mentre il sindaco Orlando mi ha detto che mi
avrebbe aiutato ma dopo le elezioni è scomparso». E per tutti vale un ammonimento:
«la mia chiusura è una
sconfitta per tutte le istituzioni, così si dà il segnale che
se uno denuncia resta solo. Io continuo a chiedere allo Stato di svegliarsi».
La storia di questo "imprenditore coraggioso abbandonato dallo Stato ma
che ha continuato a lottare contro Cosa Nostra", come recita la quarta di
copertina, ha dunque un finale
amaro. Pieno di debiti non estinti e di considerazioni solo in parte
intrise di speranza.
«Voglio aprire un'associazione senza scopo di lucro, per tenere
viva e pulita la lotta al racket - dice ancora Daniele. E la solidarietà di adesso giunge troppo tardi,
mi fa certamente piacere ma non mi può aiutare nel concreto. Se avessi un
lavoro pagherei tutto, finora ho fatto quello che ho potuto. Penso di aver
fatto una scelta che in pochi fanno, e certamente se fossimo di più sarebbe tutto diverso e
più facile per ciascuno. Vedo che c'è una voglia di cambiamento nei
ragazzi, confido in quella».
http://palermo.meridionews.it/articolo/64202/cosa-nostra-non-e-cosa-mia-storia-di-un-imprenditore-ho-denunciato-il-pizzo-ma-lo-stato-mi-ha-lasciato-solo/
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Stefania Petyx
lunedì 26 marzo 2018
Storia di un imprenditore coraggioso abbandonato dallo Stato ma che ha continuato a lottare contro Cosa Nostra.
Arriva in libreria Daniele Ventura (con la
collaborazione di Franca Stefania Lo Cicero), “Cosa nostra non è cosa mia”, prefazione
di Stefania Petyx, Edizioni La Zisa, pp. 48, euro 8,00
“Questa è la mia storia, la
storia di un bambino divenuto ragazzo che ha combattuto contro la sua paura più
grande, una paura chiamata ‘Cosa nostra’. Poco dopo aver realizzato il mio
sogno con tanti sacrifici, mi sono trovato prima minacciato e poi abbandonato
dallo Stato italiano, lo stesso Stato che prima ti chiede di denunciare il
racket, ma che poi ti lascia in preda alle conseguenze delle tue denunce, solo
e disperato. Da bambino sono cresciuto a Brancaccio, un quartiere della
periferia di Palermo tristemente noto per la sua delinquenza, il rione dove la
mafia ha ucciso don Pino Puglisi, una zona con mille contraddizioni e tanta
criminalità.
Da piccolo non potevo scendere
giù in strada a giocare con gli altri bambini, perché mentre noi, famiglia
semplice, cattolica, vivevamo nella legalità, i nostri vicini avevano uno o più
parenti in galera o agli arresti domiciliari, e la situazione nei dintorni del
palazzo dove abitavamo non era affatto tranquilla. Ogni tanto i miei genitori
si chiedevano come mai, immersi in quel mondo intriso di illegalità, tutti e
sei i loro figli, grazie a Dio, non avessero preso brutte strade, costretti
nella realtà di un quartiere a cui alla fine abbiamo imparato a voler bene, pur
senza lasciarci contagiare dalla sua prevalente indole malavitosa”. (dall’Introduzione dell’Autore)
Daniele Ventura (Palermo, 1984)
nasce e cresce nel difficile quartiere di Brancaccio, dominato dalla
delinquenza. Appartenente a una famiglia modesta e di sani principi, riesce a
rimanere estraneo al clima prevalentemente malavitoso del rione. Si diploma in
ragioneria e svolge svariati lavori, prima di aprire un bar-ristorante nella
sua città. Dovrà quindi fare i conti con la mafia e affrontare un processo che
lo porterà a far condannare i suoi estorsori. Da allora è impegnato in prima
linea nella lotta contro la mafia. È sposato, ha un figlio e continua a vivere
in Sicilia.
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