Le case editrici, come gli uomini, hanno un’anima. E se l’anima
resta fedele a sé stessa, anche quando cambia casa, non si può dire che
tradisca. Ecco perché non bisogna piangere troppo se le Edizioni La Zisa,
nate a Palermo nel 1988, hanno
deciso di rifare le valigie e mettere radici a Firenze.
No, non è un addio alla sicilianità, ma semmai un modo per portarla, con
orgoglio e consapevolezza, nel cuore stesso della tradizione culturale italiana.
Per chi non lo sapesse — e dovrebbero saperlo in molti — La Zisa
non è stata una casa editrice qualsiasi. È stata, ed è, un’avventura culturale
nata in un momento in cui Palermo sembrava dover affondare
nei suoi dolori. Invece, nel bel mezzo di un’isola in ebollizione, Maurizio
Rizza e i suoi compagni di viaggio hanno avuto l’ardire (che è sempre la
forma più onesta del coraggio) di scommettere sui libri. Non solo ristampe e
memorie: ma pensiero, inchiesta, letteratura di frontiera. Una casa editrice,
insomma, che ha voluto raccontare la Sicilia senza incensarla, senza
deformarla, senza imbellettarla. E per questo, proprio per questo, l’ha amata come
si ama una terra che è madre e matrigna.
Che poi, diciamolo, non si campa di soli affetti. Il mondo editoriale
è cambiato, il baricentro culturale si è spostato, e Palermo, pur restando uno
scrigno di passioni, non è più il crocevia che era un tempo. Firenze, al
contrario, offre strutture, connessioni, collaborazioni istituzionali e
universitarie che consentono una diffusione più capillare del catalogo. Non è
un tradimento, è una necessità. Anzi, è una strategia di sopravvivenza
intelligente.
Ci sono poi i numeri, che non mentono. Firenze è più vicina
all’Europa — e La Zisa ha sempre guardato all’Europa, con le sue collane uniche
in Italia di letteratura neogreca (poesia e narrativa), i rapporti con
enti culturali internazionali, e autori che vanno da François
Mauriac a Ghiorgos Seferis. Con la guida di
Davide Romano dal 2007, la casa editrice non ha smesso di
pensare in grande, ma ha imparato a parlare più lingue, a dialogare con nuovi
pubblici, a superare la logica dell’isolamento culturale che spesso soffoca il
Sud.
Certo, non ci saranno più gli odori della Kalsa o
il frastuono dei mercati palermitani a fare da sottofondo alla sede della casa
editrice. Ma i libri restano. E se i libri parlano ancora di Sicilia, di mafia e
antimafia, di letteratura e di poesia mediterranea, allora vuol dire che
Palermo — quella vera, fatta di parole e di sogni — non è mai andata via.
E forse, in fondo, è proprio questo che conta.