Di
SALVO PALAZZOLO (La Repubblica-Palermo, 1 maggio 2018)
Nel
libro dello storico Petrotta i documenti dei servizi segreti americani
“Mandanti dell’eccidio furono i boss, minacciati dalla lotta per le terre”
«Office
of Strategic Services. Report n. J-228/2 gennaio 1944. La mafia si è
riorganizzata e ha ripreso a spargere il terrore nella comunità di Montelepre.
Fra i suoi membri più pericolosi si segnala Giuliano, un ventitreenne dal
carattere forte e determinato, responsabile dell’assassinio del poliziotto
Mancini. Firmato: agente Z». Dagli archivi americani emergono nuovi documenti
dei servizi segreti che spazzano via, ormai definitivamente, il mito del
bandito Salvatore Giuliano. Altro che moderno Robin Hood in lotta per
l’indipendenza della Sicilia, Turiddu che ruba ai ricchi per dare ai poveri,
già all’inizio della sua ascesa fra le montagne della provincia di Palermo era
indicato dall’intelligence statunitense nella lista dei most dangerous
leaders” i più temibili delle cosche, assieme a tale «Remigi, ai fratelli
Di Maria, a Badalamenti. Ricercati per vari crimini commessi contro la
proprietà e le persone — scriveva l’agente Z — i ribelli vivono nei boschi e
agiscono con la complicità di almeno venti elementi della città». Dopo la
strage di Portella della Ginestra, del primo maggio di 41 anni fa, vennero
scritte parole ancora più chiare: l’agente speciale del controspionaggio
americano George Zappalà definiva la banda Giuliano «un’organizzazione
terroristica mafiosa, accusata di aver commesso numerosi crimini in Sicilia».
Un
libro riscrive la storia del bandito di Montelepre. Si intitola: “Salvatore
Giuliano, uomo d’onore. Nuove ipotesi sulla strage di Portella della Ginestra”
(Edizioni La Zisa). L’autore, Francesco Petrotta, è uno dei maggiori
conoscitori della storia del movimento contadino siciliano. Dopo aver
recuperato nuovi documenti nei National Archives americani ha riesaminato gli
atti dei processi alla banda Giuliano e poi le dichiarazioni di storici
collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta. Tanti tasselli che adesso non
descrivono più un bandito aiutato dalla mafia, ma un mafioso vero e proprio,
che il primo maggio del 1947 non commise errori o ingenuità sparando sui
contadini riuniti a Portella per la festa dei lavoratori. «Piuttosto, ritengo
che abbia eseguito delle direttive dell’organizzazione criminale di cui faceva
parte», dice Francesco Petrotta. E spiega: «Fino ad oggi, gli storici hanno
cercato di scoprire i volti dei mandanti di Portella analizzando i rapporti che
Giuliano intratteneva con alcuni uomini politici indipendentisti e del
centrodestra. Credo invece che la strage doveva servire a salvaguardare il
potere di Cosa nostra, messo in discussione nelle campagne dalle occupazioni
delle terre da parte del movimento contadino, che all’epoca era il primo
movimento di massa contro la mafia. E con quella strage — aggiunge l’autore della
ricerca — Giuliano si schierò a tutela degli interessi della casta degli agrari
di cui la mafia era parte integrante».
Ma
mancano ancora molti tasselli di questa storia. Nonostante la lettera
dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi che nel 1988 invitava alla
desecretazione di tutti i documenti riguardanti Portella. Spiega ancora
Petrotta: «Non sono a disposizione degli studiosi gli atti istruttori che
furono fatti dalla procura di Palermo dopo la denuncia dell’onorevole Giuseppe
Montalbano sui mandanti dell’eccidio, il 25 ottobre 1951. E risultano ancora
secretati gli atti sull’omicidio del bandito Gaspare Pisciotta, ucciso il 9
febbraio 1954 all’Ucciardone».
Due
anni prima dell’ultimo caffè — alla stricnina — il braccio destro di Giuliano
aveva svelato in un interrogatorio che il bandito di Montelepre era un uomo
d’onore, «battezzato — così avrebbe detto — in un convegno di alti dignitari
della mafia». Chi erano quegli alti dignitari? Il verbale è ancora un segreto
di Stato.