venerdì 27 settembre 2013

La cura dell’oltraggio, recensione del libro di Margherita Ingoglia



La cura dell’ “oltraggio”
… S’egli ha fatto questo a sangue freddo,
che cosa non farebbe a sangue caldo?”
Cervantes (Don Chisciotte)

Un inappagato eros lirico-poetico – offerto come una macchina da guerra e vorticosa voragine – gira, rivolta e brucia a nudo e “brama il fuoco tra le cosce” della follia amorosa ( Tua, p. 29), e “senz’aria” adagia in “plurimi, carnali diletti” (Inquieta vanitas, p. 44); un teatro di “lingue deliranti” in lotta tra le desublimazione dell’anima e il fluttuare dirompente del corpo con le sue ragioni oniriche quanto sragione in gioco … “per dilaniarne il senso” (Il pensare, p. 18), “mentre gli uragani alitano sulla nostra carne” (La dannazione di un abbraccio, p. 70).
Un linguaggio iconicamente meticcio (né solo visivo, né solo verbale, né solo logico, né solo ritmico…) che si scaraventa sulla pagina con la grazia dissacrante e non curante di un “bicchiere di alchermes” (Silenzio, p. 71); che, informe/dis-forme, fluttua per attaccare il nome del vecchio cuore – il simbolo strumentalizzato dall’illusoria liberazione del potere oppressivo (il potere cattura e non libera anche quando provoca le libertà del sesso) – per trattarlo come un ramo impazzito, disarmonico e “rancido” e salvaguardare la soggettivazione eteroclita autonoma che lo ramifica (imprevedibilmente), lì dove oggi il dominio sui corpi invece passa attraverso la fabbrica dei desideri e del godimento immediato.
Potente quanto raffinato il monologo erotico-narcisistico (la “cura del sé” – M. Foucault –, elevata, credo, a materia della poesia dei tuoi testi), nella sua stratificazione memoriale, porta anche la presenza e la continuità con poeti e poetiche della tradizione culturale che inevitabilmente ci attraversa, mentre lascia l’aureola del poeta idealista e si fa dialogo della vecchia “madre” terra con la fulmineità del “fu” dei guizzi che fanno esplodere i limiti: il “fu” del “fu oltraggio!”.
La scrittura procede coniugando con cura e padronanza costruttiva le “equivalenze” della funzione poetica con la lingua della poesia. Inoltre, le immagini (del pittore o del fotografo), che affiancano il dettato verbale del libro giocano, credo, la funzione di potenziamento “espressivo” come usa fare la stessa anadiplosi (semplice o più articolata), per esempio, ovvero quella parte della tecnologia retorica del “raddoppio” che movimenta “L’attimo”: “ Mio per mio peccato / peccato per mio abbandono alla tentazione/ …” (p. 26).
Come un teatro a scena aperta e montaggio filmico degli atti in corso e in primo piano, l’insegna del conflitto valorizza il contrasto tra i gioiosi peccati della carne (con-fusa/fusa) e il retaggio repressivo della colpa incolpevole e dell’impotente vanità che cerca di offuscare la forza e la potenza dell’anima corporea, carnale.
Certe “correspondences”, variamente connotate – dall’invocazione alla “musa”: Nox et omnia-preghiera della notte”, p. 15; dalla rivisitazione di Cecco Angiolieri: “… Minima ed immensa…”, p. 56, … alle “tentazioni” – “covami / confondimi / superami / eternami” (Inquieta vanitas, p. 44) della Patrizia Valduga –, sono sia il segno di un legame con il passato (che non ci lascia), sia il segno di una soggettività che lo visita e lo ridice con la coscienza del proprio tempo e una sensibilità intellettuale che è propria a ciascuno.
Del resto il poeta è sempre parlato anche da una lingua che non domina, se al mondo è venuto costruito da un tessuto culturale e storico-contestuale che gli permette di dire e scrivere; così come la continuità con chi ci ha preceduto è solo segno di una vitalità che è sotto la cenere e che poi, come una “rovina” palpitante, riemerge non appena soffia il pensiero delle passioni; quel pensiero riflettente che con la sua temporalità tempestiva-intempestiva è sommosso dall’urgere del non contemporaneo dimenticato ma non scomparso; la presenza che non molla e si fa contemporaneo struggere coniugando artificiale e reale (“mi struggerò in lacrime sopra una fantasia”, Puskin).
Credo che l’ascendenza romantica dell’amore come follia e delirio del corpo, o il ricorso a Venere, Adone, Narciso, nell’insieme della tua scrittura poetica, giochino come il ritorno del rimosso e un rinforzo del sognare: “perché occorre sempre avere un sogno nella vita!” (Cerca la vera bellezza, p 85).
Il valore d’uso di questa prova poetica “… e il corpo fu oltraggio” di Margherita Ingoglia, donna del secolo XXI, il tempo del virtuale e del simulacro, ri-propone (invece) la potenza concreta del corpo e della carne come il grido della vita che aborre tanto l’immateriale ideologizzato quanto il materiale manipolato dell’“uniforme” dell’eterno presente di questo secolo del marketing del sesso “anarchico” come della libertà desocializzata. Il rifiuto dell’omologazione uniformante, che disprezza il dis-forme e cartavetra l’eterogeneo nel recinto delle forme canonizzate, non poeticamente, essere più incisivo e parlante.

Se nei depositi dell’archeologia dell’anima, c’è la lacerazione del senso nelle/delle notti di luna piena e la genealogia del lupo predatore, il violentatore dell’“uniforme” e della rapina all’ordine, allora salut all’ “oltrage”, l’esplosione dell’oltraggio che irride il limite e la norma e canta la fusione oltre il principio di realtà e del piacere per una pulsione che solo la logica poetica è in grado di concettualizzare sensualmente.

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