Il romanzo di Franco Guarnera si può definire storico; infatti, la vita del
Veneziano viene da lui ampiamente sceneggiata nei luoghi e negli ambienti
sociali in cui si svolse lungo l’arco della sua esistenza; in particolare, essa
viene scandita e intrecciata a quella dei Vicerè che si succedettero a Palermo
vivente il poeta. Di ciascuno di questi l’autore disegna con efficacia i ritratti politici e
umani, di cui il più diffuso e non avaro di apprezzamenti è quello di Marcantonio Colonna. Il governo di
questi Vicerè, inoltre, viene inquadrato dal Guarnera nel contesto politico
dell’isola, dalla struttura politica ancora semifeudale, oltre che in quello
della stratificazione sociale e dello sviluppo economico, alquanto depresso, se
si eccettua la mercantile Messina. L’attenzione dell’autore all’insieme della
società, sia palermitana, sia dell’Isola nel suo insieme, spiega le pagine
tragiche sulla peste e sulla carestia, ma anche quelle comiche sulla corsa
delle puttane. Tanti altri aspetti della società del tempo vengono menzionati
nel romanzo: dai rigori dell’Inquisizione, spesso sanzionati con la tortura o
con la pena capitale, ai cartelli anonimi che, a somiglianza delle pasquinate
romane, prendevano di mira questo o quel personaggio altolocato e costituivano
la valvola di sfogo dei sudditi nei confronti del potere. Talora il romanziere
punta lo sguardo su ambienti popolari, come le bettole; viene anche evocato il
villaggio di pescatori a Buongerbino, dove si rifugiò il Veneziano durante la
peste e dove egli si dilettava a parlare con quella gente, da cui apprendeva
parole e modi di dire propri di
quell’ambiente umile. Insomma, Guarnera, seguendo passo passo il suo
personaggio, specie nei rapporti, soprattutto a Palermo, con personalità
cospicue sul piano politico e intellettuale, ma pure con gli strati meno
abbienti, ci fa respirare l’aria della capitale del Regno nella seconda metà
del Cinquecento: pregio, questo, non secondario del romanzo. A volte egli
allarga lo sguardo su contesti più ampi, pur sempre variamente connessi con le
vicende dell’Isola: ricordo, a questo proposito, le pagine sulla battaglia di
Lepanto e le altre sulla battaglia navale tra spagnoli e inglesi, cioè la
disfatta della cosiddetta Invincibile armata di Filippo II, cui partecipò un
contingente di soldati siciliani. Anche il racconto diffuso della prigionia del
Veneziano ad Algeri risponde al gusto di allargare gli spazi del romanzo, e non
solo, io credo, all’ufficio di biografo. Tra la storia del protagonista e
quella più ampia, che ha come teatro principale Palermo, c’è un nesso
reciproco: la storia del Veneziano, attraverso le sue conoscenze degli ambienti
più prestigiosi sul piano politico e intellettuale, offre al narratore l’occasione
di delineare una serie di personaggi illustri (in particolare, ma non solo, i
Vicerè) e a fornire uno spaccato dei problemi politici e sociali cui questi non sempre sanno o vogliono far
fronte; d’altro canto, il contatto e spesso l’attrito del poeta con questi
ambienti consente al Guarnera di porre in luce il suo carattere, oltre che la
sua cultura.
Dopo questo preambolo vengo al tema centrale del romanzo, cioè
la vita di Antonio Veneziano, intellettuale di prima grandezza, fiorito e
tragicamente morto a Palermo sullo scorcio Cinquecento. Dico intellettuale e non
solo letterato, perché la sua poesia (a non dire di altre attività di uomo di
cultura) è tutt’altro che imitazione di modelli illustri, pur profondamente
assimilati: essa è espressione dei più
profondi umori della sua cultura in senso antropologico e del suo modo di
rapportarsi con la vita e in specie con quella del suo tempo. Ebbene, l’intellettuale
Veneziano, non era tipo da conformarsi ai comuni rispetti e alla comune morale
della sua età: dalle pagine del romanzo emerge la figura di un uomo che aveva
un alto concetto di sé, non solo per i natali non oscuri, ma soprattutto per
l’energia vitale corroborata dalla vasta cultura, che cercava modo e occasione
per riversarsi all’esterno e farsi nota alle alte sfere del potere e al ceto
intellettuale. Ma, prima che, sotto la guida del narratore, seguiamo il
Veneziano tra Monreale e Palermo, è di fondamentale importanza conoscerlo
durante il periodo romano. Dopo i primi studi a Palermo e a Messina, presso i
gesuiti di queste città, racconta Guarnera, Antonello ( così da ragazzo lo
chiamavano i familiari), per i suoi brillanti risultati di scolaro meritò
giovanissimo, insieme a pochi altri, di frequentare il prestigioso Collegio dei
gesuiti a Roma; quest’ultimo corso di studi doveva concludersi col sacerdozio. Ricche
di episodi sono le non poche pagine dedicate dall’autore alla vita di Antonello
in collegio: non sempre la sua condotta e quella di un suo fidato gruppetto di
amici si attiene alle norme che regolano le giornate dei collegiali: durante
una delle più o meno regolari uscite dal collegio egli vede, e poi cerca di
rivedere più volte, una fanciulla di cui si innamora, o così crede. Il suo
rapporto con i docenti è rispettoso, ma fra tutti ne stima uno solo per il suo
sapere e la sua umanità: don Francesco Toledo. Fuori della cerchia degli
insegnanti, si lega di affetto con don Eleuterio, oratoriano, cioè appartenente
alla Congregazione di San Filippo Neri, anima diversa del cattolicesimo tridentino,
rispetto a quella militante dei gesuiti. Procedo, come si vede, per sommi capi,
per andare al nocciolo del discorso: la prossima fine degli studi a Roma e
l’appressarsi del momento dell’ordinazione suscitano in Antonello dubbi sulla sua vocazione religiosa; dubbi che il
romanziere riconduce a diversi fattori: il fascino per la vita vera, quella
varia del mondo, priva dei formalismi e della disciplina della vita religiosa;
l’esperienza psichica, avuta durante uno spettacolo, della morte come totale annullamento
(circostanza, questa, ricca di implicazioni sulla religiosità inquieta,
problematica, del giovane Veneziano); i discorsi sulla religione con don Eleuterio,
cristiano, diremmo oggi, aperto, senza pregiudizi verso un umanista-teologo,
inviso alla chiesa di Roma, come Erasmo e, persino, con tutte le cautele, verso
Lutero. Quest’insieme di fattori spiegherebbe, secondo Guarnera, la decisione
del Veneziano di non prendere gli ordini sacri per abbracciare la vita laicale.
Tale risoluzione rivela in nuce la
personalità del Veneziano: gli studi al collegio romano sono da lui coltivati
con passione, ma agli apprende sceverando, attuando un vaglio critico su quanto
gli viene insegnato, sicché a un certo punto si persuade che quegli studi, come
egli li ha sentiti e vissuti, non collimano con le finalità della scuola. Da
questa esperienza emergono due tratti salienti della personalità di Antonello:
autonomia di giudizio e amore di verità e libertà. Sono i tratti a cui sarà subordinato l’altro, per
quanto forte: il desiderio di emergere socialmente per i suoi talenti. Conclusa
l’esperienza romana, comunque proficua per la sua formazione culturale, fece ritorno a Monreale, sua città natale,
dove risiedeva la famiglia. Il ritorno a
casa non sarà felice: saputo che il motivo di esso è il rifiuto di abbracciare
lo stato ecclesiastico, i parenti e più di tutti la madre lo rampognano, lo
accusano di leggerezza e di irresponsabilità; ma il generale rammarico, nota il
narratore, è tutt’altro che disinteressato, non solo perché un parente gesuita
potrebbe tornare utile alla famiglia, ma anche a motivo di una eredità, di cui ora, da laico, è parte anche Antonello:
insomma, egli sopraggiunge commensale indesiderato alla mensa della predetta eredità.
Dopo l’iniziale soggiorno a Monreale, assai burrascoso per le continue liti con
i familiari, in seguito a un processo per omicidio intentato a due fratelli e
in cui, pur incolpevole, anch’egli venne coinvolto, Antonello, d’ora in poi,
per suo espresso volere, Antonio, fu condannato all’espatrio; sicché scelse di
trasferirsi a Palermo. Tranne un ritorno nella città natale, in qualità di
Proconsevatore del Regio patrimonio, parecchi anni dopo l’allontanamento coatto
da Monreale, fu Palermo la vera dimora del Veneziano (insieme alla biografia
del poeta della Celia, è Palermo, a
mio avviso, l’altro grande tema del romanzo). Nella capitale dell’Isola, a contatto con ambienti e persone cospicue per
livello politico o culturale, Antonio temprò il suo ingegno ed ebbe modo di
esplicare i suoi talenti, benché, sul piano pratico, il suo stato sociale
restasse sempre al di sotto delle sue aspettative. Non posso, neppure per sommi
capi, dar conto della molteplicità di eventi della vita del nostro poeta, nella
lunga permanenza nella capitale del Regno, ricostruita con meticolosità dal
Guarnera.
Dovrò necessariamente procedere per selezione: mi soffermerò,
pertanto, su quegli avvenimenti che mi sembrano i più rivelatori delle sue
aspirazioni e della sua spiritualità; aspirazioni e spiritualità, nota
giustamente il narratore, alte, nobili nel senso etico del termine, pur nutrite
di umori realistici e popolari. Notazione, quest’ultima del Guarnera, che
illumina non solo l’uomo Veneziano, ma pure la sua poesia, raffinatissima, colta,
ma ricca di succhi sanguigni, attinti dalla realtà nel senso più esteso del
termine: è una notazione critica degna
di nota, sviluppata nelle pagine in cui egli dimostra quanto discutibile sia
stata la definizione di Veneziano come “Siculo Petrarca”: Petrarca era un
modello ineludibile per la poesia e per quella amorosa in particolare, ma di
essa nella lirica del monrealese si coglie un’eco lontana: nel suo crogiuolo
poetico si versano altri modelli, in special modo Dante, oltre al suo proprio
sentire non sceverabile dalla lingua usata, cioè il siciliano, che non è patina, ma sostanza del suo poetare. Ritorno a
quanto accennavo sopra, cioè all’opportunità, a mio giudizio, di isolare alcuni
momenti o esperienze della vita di Antonio a Palermo. Trascurando il rapporto con
una sorella sposata, pur importante per conoscere come Antonio abbia superato i
primi disagi allorché dalla città natale dovette trasferirsi nella capitale, mi
soffermerò sulla sua frequentazione di casa Serra, ritrovo di intellettuali di
cui è affabile animatrice donna Laura; poi sui suoi contatti con il Vicerè
Marco Antonio Colonna e con la moglie Felice Orsini. Interessante, a mio
avviso, sotto il profilo morale, anche
l’incontro ( e poi lo scontro), col Vicerè spagnolo succeduto al Colonna, Don
Diego Enriquez de Guzmàn. Concluderò questa breve esposizione con le pagine
finali del romanzo, cioè con l’ultima
reclusione del Veneziano nella prigione del Castello a mare, dove egli
con molti altri reclusi perse tragicamente la vita.
Tratterò questi punti
della vita del Veneziano, secondo il racconto di Guarnera, con la massima
concisione, e in funzione di quanto essi rivelano della sua personalità. La
fama di dotto, di autore di Proverbi
siciliani, di poeta, gli aprì le porte di casa Serra, dove si radunava in
colte e brillanti conversazioni l’élite della capitale del Regno, sotto la
regìa benevola e intelligente dell’ospite, donna Laura. A frequentare, diremmo
con voce non ancora diffusa, il salotto di donna Laura erano, come informa il
narratore, molti personaggi illustri della società e della cultura palermitana,
di cui ricorderò soltanto quello forse più caro al Veneziano: Argisto
Giuffredi. Ma l’aspetto più interessante di queste conversazioni, sottolinea
Guarnera, consisteva nel fatto che esse si svolgevano con libertà assai maggiore
di quanto fosse consentito a quei tempi: l’ambiente si confaceva all’apertura
mentale e all’indole schietta di Antonio, che destò l’attenzione e ben presto
riscosse la stima di donna Laura. La quale però, forse perché promotrice di
vera cultura, cioè di libero pensiero, avrebbe pagato con la vita, nel modo più
atroce, questi suoi interessi.
Uno dei momenti più
fervidi della vita del Veneziano, quale risulta dalla ricostruzione del
romanziere, fu quella dei primi anni del viceregno di Marco Antonio Colonna.
Per l’arrivo nell’isola del Vicerè, Antonio allestì l’apparato della festa: una
fastosa architettura con arco e ponte, ornata di fregi e immagini allegoriche
che glorificavano il celebre personaggio, uno degli artefici, anzi il maggiore,
della memorabile vittoria contro i turchi a Lepanto. Il Veneziano non era nuovo
a imprese simili, se non proprio identiche, perché anni prima le autorità
cittadine gli avevano affidato il compito di disporre secondo un ordine logico
e insieme armonico la congerie di statue, non tutte integre, giunte da Firenze
a Palermo per ornare la fontana pretoria: nell’un caso come nell’altro egli
mise a disposizione delle autorità e del pubblico la sua dottrina, il suo senso
estetico, oltre alla sua retorica parlante per immagini. Ben visto dal Vicerè,
Antonio ebbe anche occasione di conoscere la Viceregina, Felice
Orsini, la quale, per apprendere il siciliano, che allora doveva essere la
lingua abitualmente parlata anche dalla classe nobile, fece cadere la sua
scelta sul Veneziano, raffinato conoscitore di essa, oltre che uomo di vasta
dottrina; così egli divenne precettore della Orsini. Le lezioni impartite da
Antonio alla sovrana, nota il biografo-romanziere, non hanno nulla di
scolastico: sono libere conversazioni su
temi attinenti ai più svariati ambiti del sapere. L’ufficio di
precettore creò dimestichezza fra i due, e la dimestichezza fece nascere in
Antonio una vera e propria passione d’amore per la Viceregina, la quale se
ne sarà accorta e pure un po’ compiaciuta, ma niente di più: la grande
disparità sociale tra l’una e l’altro e, certo, anche il senso dell’onore della
nobildonna spensero a poco a poco il fuoco. Ma la passione accese l’estro
poetico di Antonio, che sublimò la donna sul piano della poesia: il senhal di
Felice sarà Celia, secondo la persuasiva proposta di Guarnera. Purtroppo il
buon governo del Colonna, promotore, tra l’altro nella capitale, di importanti
opere pubbliche, si concluse tragicamente con il suo assassinio durante il
viaggio in Spagna, dove era stato convocato da Filippo II: correva voce, non si
sa quanto fondata, che il Colonna tramasse contro la corona di Spagna. E’
durante il governo di Marco Antonio che la fama del Veneziano raggiunse l’apogeo.
Con l’arrivo del nuovo Vicerè, lo spagnolo don Diego Enriquez
de Guzmàn, uno dei tanti Vicerè spagnoli incuranti delle sorti dell’Isola, la
fortuna del Veneziano declinò. Il Vicerè, tra l’altro, era un personaggio a dir
poco strano: al suo arrivo a Palermo rifiutò ogni festeggiamento con grave
disappunto della cittadinanza, che si sentì oltraggiata. L’atteggiamento tra
altezzoso e distaccato di don Diego si manifestò anche nel colloquio avuto da
Antonio con lui, che ostentò , nei confronti del poeta, freddezza e disinteresse.
Per di più lo spagnolo era ritenuto uno iettatore, e una tragica circostanza in
cui, al suo arrivo in nave da Messina a Palermo, persero la vita alcune
centinaia di persone, confermò la trista fama: accadde che una folla assiepata
su un pontile di legno, in attesa dell’arrivo del Vicerè, precipitò in mare per
il crollo del pontile, in gran parte annegando. Questo era il personaggio,
forse persino connivente con episodi di cattiva amministrazione o addirittura
di ruberie da parte di pubblici ufficiali. Di uno di questi fu parte in causa
Antonio, in qualità di Proconservatore di Monreale. Le replicate denunce a
diverse autorità della capitale, di un illecito amministrativo da lui scoperto
nella sua città di origine, caddero tutte nel vuoto. A seguito di ciò, il fondato
sospetto di Antonio fu che il Vicerè non solo non si curasse della cosa
pubblica, ma che per suo tornaconto tollerasse la corruzione. Punto sul vivo,
cioè nel suo decoro di amministratore onesto, il Veneziano affisse un cartello
al piano dei Bologni: una poesia, di cui si è salvato un frammento, che aveva
come bersaglio il Vicerè; poesia che, dopo qualche tempo, gli costò il
carcere: non era la prima volta e, purtroppo non sarà l’ultima. L’ultima
carcerazione, infatti, cadrà durante il governo del nuovo Vicerè, il conte di
Olivares, per ragioni alquanto oscure; eppure i rapporti del Veneziano con
l’Olivares pare che fossero distesi; ma è noto che quello dei Vicerè non era,
allora, l’unico centro di potere nei domini della corona di Spagna: c’era anche
un secondo potere forte, a diretto contatto con il sovrano: l’Inquisizione. Sta
di fatto che per l’ennesima volta egli si trovò recluso a Castello a mare,
terribile carcere e insieme fortezza. Qui, il 19 agosto 1593, Antonio finì i
suoi giorni: la causa della morte sua e di centinaia di altri carcerati ( tra
cui i due Giuffredi, padre e figlio), fu lo scoppio del deposito di munizioni
situate nei sotterranei del Castello; esplosione che lo ridusse a un cumulo di
rovine e fece scempio di una moltitudine di corpi di prigionieri.
Qui metto punto a questa
rapida esposizione di alcune vicende della vita del Veneziano, secondo la
narrazione di Guarnera, di gran lunga più ampia e circostanziata. Mi resta da
dire qualcosa del romanzo come opera letteraria, al di là, intendo, dello
scrupolo del biografo nonché dello storico, benché a
latere rispetto al soggetto principale dell’opera. Finora ho cercato di dar
conto soprattutto del contenuto del romanzo, sia pure, qua e là avanzando
qualche proposta interpretativa; adesso mi proverò a individuare, se così posso
dire, le sue linee di forza. Nell’accingermi
a ciò, credo sia utile rispondere a una domanda: che cosa ha indotto
Guarnera a scrivere questa biografia
romanzata? Io credo almeno tre fattori: 1)
il personaggio Veneziano in quanto soggetto intrinsecamente romanzesco, prima
ancora, forse, che grande poeta (lo suggerisce nel sottotitolo lo stesso
romanziere, che definisce “avventurosa” la vita del protagonista); 2) l’interesse per la città di Palermo
in un momento certamente travagliato della sua storia; 3) la passione per il siciliano non solo come lingua della poesia,
ma come lingua o dialetto in sé e per sé. Questi tre fattori spiegano, a mio
avviso, la genesi del romanzo, ma, idealmente, essi presuppongono l’arte del
narrare, cioè di ricreare fatti, ambienti e personaggi annodandoli a un tema
centrale. Voglio dire che l’arte narrativa di Guarnera non è nata con questo
romanzo; essa presuppone altre prove. A buon conto, si tratta di una narrativa
esperta, consapevole di ciò che si richiede a scrivere un romanzo: il
narratore, attraverso le vicende del protagonista, pone sotto gli occhi del
lettore le scene più varie: scene di collegio e scene familiari; scene rurali,
e cittadine e, di queste, le raffinate e le popolari: dialoghi intellettuali
come quello tra il Veneziano e Argisto Giuffredi a proposito degli Avvertimenti cristiani di quest’ultimo,
e, dall’altro lato, la corsa delle puttane; senza dimenticare quelle relative
ai due amori non solo sentimentali di Antonio, o al suo viaggio per mare, con
la descrizione della cattura della nave in egli cui viaggiava da parte dei
pirati barbareschi e la sua successiva prigionia ad Algeri, dove egli si legò
di amicizia e di sodalità letteraria col grande Cervantes (fatto che, anche da
solo, dà la misura dello spessore culturale e umano del nostro poeta). Guarnera
mostra anche doti di buon psicologo, come si vede, per fare qualche esempio,
allorché rappresenta, infondendo nel lettore un senso di attesa protratta, i sogni
ossessivi di Antonello bambino che inseguiva le immagini sempre diverse e sempre sfuggenti del padre ( egli l’aveva
perduto all’età di quattro anni), nonché l’esperienza psichica fatta dal
protagonista a Roma, in uno stato di semicoscienza, quando, durante uno
spettacolo, venne quasi folgorato dalla realtà nullificante della morte. Anche
quest’arte introspettiva, qui esemplificata brevemente, conferisce alla
biografia respiro di romanzo. Un altro
aspetto dell’opera su cui mi sembra
opportuno soffermarmi è quello del linguaggio. Sicuramente, come ho accennato,
Guarnera, palermitano, ama il suo dialetto; che in questo dialetto, quanto si
voglia filtrato e impreziosito, abbia poetato un grande come Veneziano, è stato, io penso, per
lui, la riprova del valore, non solo storico-estetico, ma espressivo e icastico
del siciliano (in altri termini, nella poesia del Veneziano, egli coglie, oltre
alla finezza dell’arte, la forza e l’efficacia del siciliano in quanto tale; o
più esattamente, attraverso l’arte del poeta egli nota le potenzialità
intrinseche del siciliano). L’uso del dialetto (di area palermitana) nel
romanzo, non possiamo dire che sia massiccio, ma ogni volta che può, cioè
quando il contesto lo consente, il narratore è ben lieto di innestare nel suo
fluido italiano espressioni o frasi in dialetto. Soprattutto per le parole
singole o i modi di dire, spesso Guarnera affianca alle espressioni siciliane la
traduzione italiana; non sempre però; tuttavia per altre inserzioni del proprio
siciliano nel suo italiano (quelle, voglio dire, non tradotte) egli ha
agevolato il lettore non siciliano con un glossario. E’ appena il caso di dire
che le due lingue, nel romanzo, restano sostanzialmente distinte; la tecnica
linguistica di Guarnera non è assimilabile, per intenderci, a quella di un
Camilleri. Sia pure con apparente
funzione mimetica e realistica, è evidente nel nostro narratore la tendenza all’intarsio
linguistico: dico apparente funzione
mimetica perché l’uso del dialetto non compare soltanto in scene dialogiche di
gusto popolare, cioè là dove può invocarsi il principio di verisimigliana, ma
anche all’interno del narrato, quando l’autore vuole stringere con l’evidenza
di certi modi di dire siciliani una situazione o una circostanza complessa: è
sempre difficile in questi casi stabilire se la frase siciliana sia un commento
dell’autore, o se egli lo attribuisca, in forma indiretta, al suo personaggio.
Proprio questa difficoltà interpretativa è per me indizio della tendenza alla contaminazione
linguistica del Guarnera.
Di tale tendenza o gusto
che dir si voglia, è ulteriore prova in alcune pagine del romanzo l’uso dello
spagnolo: anche a questo proposito, come per il siciliano, si può invocare
l’argomento del realismo; ma, a mio parere, il realismo è un alibi, nasconde
cioè una tensione più profonda, quella di mettere a confronto più lingue, di sentirle
nel loro spirito diverso. E’ ciò che emerge, o mi sbaglio, anche nelle
traduzioni in italiano delle non poche ottave siciliane, di cui l’autore, a
illustrazione di circostanze vere o
ipotizzate della vita di Antonio, correda il suo racconto. Tali traduzioni non
vogliono essere belle, ma rendere con esattezza i testi originali. Credo di non
sbagliare affermando che tali traduzioni, tutt’altro che facili, hanno recato
soddisfazione all’autore, non solo perché ha reso leggibili queste poesie ai
lettori non siciliani, ma soprattutto perché ha potuto far incontrare e
scontrare le due lingue da lui più amate: quella comune e il proprio dialetto.
L’italiano del romanzo, l’ho detto, è fluido, godibile, non ricercato e si fa
strumento di una narrazione distesa, benché fittissima di fatti, eventi e
personaggi; di tanto in tanto ci imbattiamo in qualche parola culta, o ancora
in un costrutto meno semplice rispetto alla norma; ma questo è un buon indizio,
anzi per me è il segno che la prevalente scrittura piana è frutto di studio, in
una parola di stile. Apprezzo in questa scrittura l’equilibrio tra oralità
(quella, beninteso, di una persona colta) e letterarietà: l’oralità non cade
mai nel corrivo: si evitano le frasi fatte, le parole alla moda, i
forestierismi: rare le espressioni francesi, da gran tempo adottate nella
nostra lingua. Del tutto speculare all’aspetto dell’oralità è quello della
letterarietà, il quale in gran parte coincide con la mancanza degli elementi
negativi (almeno a mio gusto) elencati qui sopra; sono da rilevare altresì due rilevanti
tratti stilistici: uno è l’alternanza di periodi brevi e di periodi più ampi e
distesi, la quale rivela uno scrittore che sa piegare la sintassi al ritmo vario dei fatti narrati;
l’altro è quello che definisco modulo a domanda e risposta: talora ( il
fenomeno è frequente) il narratore si interroga su certe circostanze, non
sempre chiare, riguardanti il nostro poeta, e si dà le risposte, più o meno
attendibili; altre volte gli interrogativi sono sollevati da vicende
addirittura oscure riguardanti, sia Antonio, sia altri personaggi del romanzo:
in entrambi i casi le risposte, spesso plurime, hanno, io credo, la funzione di
far sentire la tensione conoscitiva del narratore mentre viene indagando su
avvenimenti dubbi o, allo stato delle conoscenze, insolubili; un gioco che
finisce per coinvolgere anche il lettore, invitato quasi a partecipare ai casi
del protagonista, o alla soluzione di vicende più o meno enigmatiche.
Per chiudere questo discorso, forse troppo lungo, tengo a
sottolineare che Guarnera è un romanziere di buona vena: egli sa tener desta
l’attenzione del lettore per più di trecentocinquanta pagine; la sua scrittura,
inoltre, è al tempo stesso scorrevole e decorosa, per quell’equilibrato
dosaggio tra oralità e letterarietà di cui ho già fatto cenno.
Il libro: Franco Guarnera, “Il cigno di Triquetra.
Vita avventurosa di Antonio Veneziano”, Edizioni
La Zisa, pp. 400, euro 16,00 (ISBN
978-88-6684-063-3)
La trama: Il volume narra le avventure in vita
e... in morte del poeta siciliano Antonio Veneziano (1543-1593) il quale,
avviato alla carriera ecclesiastica, pur avendo superato brillantemente tutte
le prescritte difficili prove, rinunzia in conclusione a prendere i voti e,
congedatosi dal Collegio Romano dei gesuiti, torna giù in Sicilia dove viene in
pratica cacciato di casa e poi – per un’ingarbugliata vicenda giudiziaria –
pure dalla sua città (Monreale). Segue il complicato inserimento nel magma occupazionale-sociale
di Palermo, dove però più avanti, essendo viceré di Sicilia Marco Antonio
Colonna, ottiene un incarico interessante nell’ambito della reggia. Subisce il
carcere per il rapimento di una ragazza; più in là si innamora di una specie di
dea dell’Olimpo cui dedicherà i versi della Celia, suo capolavoro. Alti e bassi
– tra i primi il ritorno a Monreale e il recupero dei suoi beni –; e ancora più
volte il carcere. Inoltre, trovandosi in navigazione diretto a Roma, incappa
nei pirati barbareschi e nella deportazione ad Algeri, dove incontra e
familiarizza col Cervantes. Supera una serie di disagi e avversità di varia natura:
le eredità travagliate, la peste, la cattività algerina, gli scontri col viceré
spagnolo Albadelista (succeduto al Colonna), e chiude la sua parabola terrena
con una morte singolare insieme e spettacolare, ambiguamente liberatrice.
L’autore: Franco Guarnera, nato a Palermo, ha
vissuto a lungo a Roma e attualmente risiede a Cefalù. Ha assolto compiti di
responsabilità presso enti pubblici. È autore di opere così in prosa come in
versi. Qualche titolo di poesia: “Cadenzario” (1971), “Un albero immenso”
(1976), “Dafne” (1993), “Di sottili insoliti averi” (1995), “Momenti e
monumenti” (2006); e di prosa: “La libertà e la luna” (1974), “Dossier Paola”
(1979), “Ufficio con Nesso” (1997), “A volo in America” (2008).