lunedì 28 aprile 2025

L'editoria, una malattia meravigliosa. La storia, incredibile, delle Edizioni La Zisa



Gli editori puri - quelli veri, quelli che nascono tali - sono come i cercatori d'oro: un po' folli, un po' visionari, costantemente sospesi tra l'entusiasmo della scoperta e l'orlo del fallimento. Da trent'anni osservo questa fauna particolare aggirarsi tra le fiere del libro, riconoscibili dal loro sguardo febbrile, dalla cravatta leggermente allentata, dalle occhiaie che raccontano notti trascorse a leggere manoscritti che, nella maggior parte dei casi, non pubblicheranno mai.

Le Edizioni La Zisa rappresentano perfettamente questo spirito di avventura culturale. Fondate con l'intento di dare voce a una Sicilia diversa da quella dei luoghi comuni, hanno costruito nel tempo un catalogo che è specchio fedele di questa filosofia: coraggioso, eclettico, mai scontato. Come mi confidò una volta Davide Romano, ex direttore editoriale della casa editrice: "Pubblicare libri in Sicilia è un atto di resistenza culturale, una sfida quotidiana contro l'indifferenza e il disincanto."

"Fare libri" - espressione deliziosa nella sua semplicità - racchiude un universo di passione, follia e calcoli disperati che solo chi vi è immerso può comprendere fino in fondo. La creazione di un libro è un atto che ha qualcosa di demiurgico: si prende una sostanza informe - pensieri, idee, storie - e le si dà forma concreta, materiale, destinata a sopravvivere al suo stesso creatore.

Romano, con il suo approccio meticoloso e la sua visione chiara, ha saputo impostare una linea editoriale riconoscibile per La Zisa, puntando su temi forti come la legalità, la memoria storica, l'identità mediterranea. "Un libro non è solo un prodotto", ripeteva spesso durante le riunioni editoriali, "è un seme che piantiamo nella coscienza collettiva, sperando che germogli al momento giusto."

Il vero editore è un personaggio paradossale: conservatore e rivoluzionario allo stesso tempo. Custode di una tradizione millenaria e, al contempo, in costante ricerca dell'innovazione che potrebbe scardinare il mercato. Le Edizioni La Zisa incarnano questa duplicità: da un lato recuperano e valorizzano la tradizione culturale siciliana, dall'altro esplorano nuovi linguaggi e tematiche contemporanee, tenendo sempre lo sguardo rivolto verso l'altra sponda del Mediterraneo.

Poi, il grande salto. Le Edizioni La Zisa lasciano la loro Palermo per trasferirsi a Firenze, in una mossa che ha sorpreso molti nel settore. Un trapianto geografico che non è solo un cambio di sede, ma una vera e propria scommessa culturale. Dalla culla della cultura arabo-normanna alla patria del Rinascimento: un viaggio simbolico che rappresenta la volontà di espandere i propri orizzonti, di confrontarsi con nuove realtà, di tessere nuove trame editoriali.

"Cambiare città è un po' come cambiare pelle", mi ha confidato un redattore della casa editrice, "conservi la tua identità ma la arricchisci di nuove prospettive, di nuovi stimoli." E Firenze, con la sua stratificazione culturale millenaria, con le sue biblioteche prestigiose, con la sua comunità di lettori esigenti, rappresenta un terreno fertile per chi fa del libro la propria ragione di vita.

Vi è una verità che ogni editore conosce intimamente: per ogni bestseller che sostiene economicamente la casa editrice, ci sono decine di titoli che non raggiungeranno mai il pareggio dei costi. Eppure, si continuano a pubblicare, perché l'editoria non è solo un'impresa commerciale, ma un atto culturale. La collana "Mediterranea" de Le Edizioni La Zisa, fortemente voluta da Romano, è emblematica di questa visione: testi che costruiscono ponti tra culture diverse, che esplorano territori letterari poco battuti, che offrono al lettore stimoli e prospettive nuove.

A Firenze, questa vocazione si arricchisce di nuove possibilità: la vicinanza con istituzioni culturali prestigiose, la presenza di un'università con una solida tradizione umanistica, la possibilità di dialogare con altre realtà editoriali che hanno fatto della qualità la propria bandiera. Un contesto che promette di essere fertile per nuove collaborazioni, nuovi progetti, nuove scoperte.

Ho conosciuto piccoli editori come Le Edizioni La Zisa che hanno rischiato tutto per pubblicare opere di valore che le grandi case editrici avevano rifiutato. Romano mi raccontò una volta di come avessero deciso di pubblicare un saggio storico complesso e impegnativo, consapevoli che le vendite sarebbero state limitate ma convinti dell'importanza culturale dell'operazione. "In certi casi", diceva, "il valore di un libro non si misura in copie vendute ma in menti stimolate."

L'editore vive con un piede nel passato e uno nel futuro. Cerca di interpretare il presente attraverso una sensibilità che è frutto di stratificazioni culturali, di esperienze accumulate, di intuizioni fulminee. Le Edizioni La Zisa, ora con la loro sede nel cuore di Firenze, assorbono e restituiscono l'energia di una città che ha sempre fatto della cultura il proprio tratto distintivo. Il dialogo tra l'anima siciliana della casa editrice e il genius loci fiorentino promette di generare frutti interessanti, ibridazioni culturali, contaminazioni feconde.

Vi è poi la questione del rapporto con gli autori, che meriterebbe un trattato a parte. L'editore è un po' confessore, un po' psicologo, un po' banchiere e, in alcuni casi, anche babysitter. Deve saper gestire ego smisurati, crisi creative, ritardi nella consegna e, talvolta, manoscritti che arrivano completamente diversi da quello che si era concordato. Romano era maestro in quest'arte della mediazione: sapeva essere fermo quando necessario e comprensivo quando la situazione lo richiedeva. "Gli autori sono come bambini", mi disse una volta con un sorriso, "hanno bisogno di regole chiare e di tanto, tanto amore."

Il trasferimento a Firenze rappresenta anche l'opportunità di allargare il proprio parco autori, di intercettare nuove voci, di costruire un catalogo che sia sempre più un ponte tra Sud e Centro Italia, tra la cultura isolana e quella continentale. Una sfida non da poco, che richiede sensibilità, intelligenza e quella capacità di visione che ha sempre contraddistinto Le Edizioni La Zisa.

Chiunque abbia messo piede nella sede de Le Edizioni La Zisa sa che i libri, prima di arrivare sugli scaffali delle librerie, passano attraverso un processo quasi alchemico: dalla scelta del manoscritto all'editing, dalla grafica all'impaginazione, dalla stampa alla distribuzione. Ogni fase comporta decisioni che possono determinare il successo o il fallimento di un'opera. Romano presiedeva a questo processo con la meticolosità di un artigiano e la visione d'insieme di un architetto, consapevole che ogni dettaglio contribuisce all'identità finale del libro.

A Firenze, questo processo si arricchisce di nuove possibilità: la vicinanza con tipografie storiche, la presenza di artigiani del libro che perpetuano antiche tradizioni, la possibilità di dialogare con designer e grafici formatisi in una città dove il senso estetico è parte integrante dell'identità collettiva. Una combinazione che promette di elevare ulteriormente la qualità formale delle pubblicazioni de Le Edizioni La Zisa.

La sfida maggiore per una casa editrice come Le Edizioni La Zisa è quella della distribuzione. In un mercato dominato dai grandi gruppi, farsi spazio e ottenere visibilità è una battaglia quotidiana. Romano aveva compreso l'importanza di costruire relazioni solide con librerie indipendenti e biblioteche, di creare eventi che trasformassero la presentazione di un libro in un'esperienza culturale completa, di utilizzare i social media non solo come vetrina ma come spazio di dialogo con i lettori.

Firenze, con la sua rete di librerie storiche e indipendenti, con i suoi festival letterari, con la sua comunità di lettori curiosi e attenti, offre un terreno fertile per questa strategia. La posizione centrale nella penisola, inoltre, facilita la distribuzione e la logistica, permettendo di raggiungere più agevolmente un pubblico nazionale.

L'editoria è un settore in costante evoluzione. L'avvento del digitale ha rivoluzionato non solo il modo di leggere ma anche quello di produrre e distribuire i libri. Le Edizioni La Zisa hanno saputo abbracciare queste trasformazioni senza perdere la propria identità, esplorando nuovi formati e canali senza rinunciare alla qualità che ha sempre contraddistinto il loro catalogo.

Firenze, con le sue eccellenze nel campo della digitalizzazione e della conservazione del patrimonio culturale, offre opportunità interessanti per chi vuole coniugare tradizione e innovazione. La vicinanza con centri di ricerca e università può favorire collaborazioni feconde, sperimentazioni, progetti innovativi che possono aprire nuove strade nel mondo dell'editoria.

Vi è qualcosa di profondamente politico - nel senso più alto del termine - nel fare libri. Significa partecipare attivamente alla costruzione dell'immaginario collettivo, influenzare il dibattito pubblico, offrire strumenti di comprensione e interpretazione della realtà. Le Edizioni La Zisa lo fanno da sempre, pubblicando testi che affrontano temi scomodi, che danno voce a chi spesso non ne ha, che illuminano angoli bui della nostra storia e della nostra società.

"Un buon editore", mi disse una volta Romano, "deve avere tre qualità fondamentali: curiosità insaziabile, pazienza infinita e un pizzico di follia." Qualità che certamente non gli mancavano e che ha saputo trasmettere a tutti coloro che hanno lavorato con lui. La sua eredità alla guida de Le Edizioni La Zisa è un catalogo ricco e variegato, che spazia dalla narrativa alla saggistica, dalla poesia ai libri per ragazzi, sempre con un'attenzione particolare alla qualità dei contenuti e alla cura formale.

L'editoria è un mestiere antico che si rinnova continuamente. È un ponte tra passato e futuro, tra autore e lettore, tra cultura alta e cultura popolare. È un atto di fede nella parola scritta e nella sua capacità di resistere al tempo e all'oblio. Le Edizioni La Zisa, con il loro impegno culturale e la loro visione, adesso trapiantate nel fertile terreno fiorentino, rappresentano perfettamente questa concezione dell'editoria come missione più che come professione.

In un'epoca di bestseller costruiti a tavolino e di logiche puramente commerciali, case editrici come Le Edizioni La Zisa, che hanno fatto della qualità e dell'indipendenza la propria bandiera, sono più preziose che mai. Come sottolineava spesso Romano, "pubblicare un libro è sempre un atto politico, una scelta di campo, una dichiarazione di intenti."

E allora, lunga vita agli editori visionari, a quelli che non si accontentano del già visto e del già letto, a quelli che sanno rischiare e innovare. Lunga vita a chi, come Le Edizioni La Zisa, continua a credere che i libri possano davvero cambiare il mondo, un lettore alla volta. Ora più che mai, dalla loro nuova casa nel cuore pulsante della cultura italiana.

(Anna Miraglia)

venerdì 18 aprile 2025

La Zisa: 37 anni di impegno civile e culturale dalla "parte sbagliata"



Nel panorama editoriale italiano, poche case editrici possono vantare un impegno civile e culturale così profondo e duraturo come La Zisa. Fondata a Palermo nel 1988, questa realtà editoriale rappresenta molto più di una semplice impresa commerciale: è un vero e proprio baluardo di resistenza culturale, un faro di pensiero critico che ha saputo mantenere viva la sua missione originaria pur evolvendo con i tempi.

Le case editrici, come gli uomini, hanno un'anima. E se l'anima resta fedele a sé stessa, anche quando cambia casa, non si può dire che tradisca. Questa riflessione coglie perfettamente l'essenza del percorso de La Zisa, che recentemente ha intrapreso una nuova avventura trasferendosi a Firenze, senza però tradire le proprie radici siciliane. Non un addio alla sicilianità, ma un modo per portarla nel cuore della tradizione culturale italiana.

La Zisa si è rapidamente affermata come voce autorevole nel panorama dell'editoria di qualità, grazie a una linea editoriale coraggiosa che non ha mai temuto di schierarsi apertamente "dalla parte sbagliata" - come orgogliosamente rivendica - ovvero al fianco degli ultimi, contro ogni sopruso e ingiustizia, dando spazio a voci scomode ma necessarie.

Come scrisse Leonardo Sciascia: "La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c'è più né sole né luna, c'è la verità." Ed è proprio questa ricerca della verità, anche quando scomoda, che ha caratterizzato il percorso editoriale de La Zisa.

Il percorso della casa editrice si articola in tre fasi ben distinte. La prima, che abbraccia l'ultimo scorcio del Novecento (1988-1999), ha visto La Zisa delineare con chiarezza la propria identità come soggetto culturale profondamente radicato nella realtà siciliana e palermitana. In questi anni, la casa editrice guidata da Maurizio Rizza ha avuto l'ardire di scommettere sui libri nel momento in cui Palermo sembrava dover affondare nei suoi dolori. Ha ospitato firme prestigiose quali Napoleone Colaianni, Nicola Barbato e figure emblematiche della lotta alla mafia come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto. A questi si sono affiancati intellettuali del calibro di Andrea Camilleri, Giancarlo Caselli e Gherardo Colombo.

Come sottolineava Andrea Camilleri: "La cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini." Ed è proprio questo tipo di cultura che La Zisa ha cercato di promuovere.

Particolarmente significativo è stato l'impegno contro la mafia, con pubblicazioni che hanno contribuito a svelare la natura proteiforme del fenomeno mafioso, il suo radicamento sul territorio e i suoi intrecci con economia e politica. La Zisa ha così offerto una piattaforma preziosa a chi, in prima linea nell'impegno istituzionale e civile, necessitava di strumenti per comunicare direttamente con il pubblico.

Come ricordava Giovanni Falcone: "La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine." Ed è proprio questa convinzione che ha animato molte delle pubblicazioni de La Zisa.

Il secondo periodo (2000-2007) ha rappresentato una fase di transizione e ampliamento degli orizzonti. I temi tradizionali sono stati approfonditi con maggiore ampiezza, includendo analisi sui nuovi soggetti politici emergenti e sulle profonde trasformazioni del panorama sociale italiano. Lo sguardo si è allargato anche ad altre confessioni religiose oltre il cattolicesimo, come testimonia il saggio sulla storia e il martirio dei Valdesi. Anche l'interesse per la Sicilia si è diversificato, abbracciando nuovi ambiti di ricerca storica e sociale, come la storia dell'astronomia nell'isola con un'introduzione di Margherita Hack.

In questo periodo, la letteratura sulla criminalità organizzata si è arricchita di nuove prospettive, come l'analisi della 'ndrangheta, di cui La Zisa ha pubblicato la relazione integrale della Commissione parlamentare d'inchiesta, offrendo così un contributo fondamentale alla comprensione di un fenomeno in rapida evoluzione.


La svolta internazionale e il trasferimento a Firenze

La terza fase, iniziata nel 2007 con l'avvento di Davide Romano alla guida della casa editrice, ha visto un'ulteriore evoluzione. Pur mantenendo salde le linee editoriali tradizionali incentrate sulla critica sociale e politica – con opere come l'inchiesta di Sante Sguotti su pedofilia e celibato nella Chiesa o le biografie di Paolo Borsellino e Padre Puglisi – La Zisa ha ampliato la propria offerta includendo nuovi generi e collane dedicate alla poesia, alla narrativa e alla saggistica culturale.

L'orizzonte geografico e culturale si è espanso fino ad abbracciare quello che viene definito il "Mediterraneo esteso", con la pubblicazione di opere provenienti dalla Grecia – come quelle del premio Nobel Ghiorgos Seferis con "Sei notti sull'Acropoli" – e dal Vicino Oriente, oltre a testi che esplorano tradizioni culturali diverse come quella ebraica italiana con "Poesia nascosta" di Ines De Benedetti sulla cucina tradizionale ebraica.

Come affermava lo stesso Seferis: "Ovunque io vada, la Grecia mi ferisce", parole che risuonano come un eco del legame viscerale che La Zisa mantiene con la Sicilia pur ampliando i propri orizzonti.

Il recente trasferimento a Firenze non rappresenta un tradimento delle origini, ma piuttosto una strategia intelligente di sopravvivenza e crescita. Firenze offre strutture, connessioni e collaborazioni istituzionali e universitarie che consentono una diffusione più capillare del catalogo. È anche più vicina all'Europa, verso cui La Zisa ha sempre guardato, con le sue collane uniche in Italia di letteratura neogreca e i rapporti con enti culturali internazionali. Non ci saranno più gli odori della Kalsa o il frastuono dei mercati palermitani a fare da sottofondo alla sede della casa editrice, ma i libri restano, e continuano a parlare di Sicilia, di mafia e antimafia, di letteratura e di poesia mediterranea.

Come diceva François Mauriac, uno degli autori pubblicati dalla casa editrice: "Quello che conta non è ciò che si guarda, ma ciò che si vede." E La Zisa ha sempre cercato di vedere oltre le apparenze, di scavare in profondità nella complessità del reale.


Un patrimonio culturale in movimento

Ciò che distingue La Zisa nel panorama editoriale italiano è proprio questa capacità di mantenere un'identità forte e riconoscibile pur evolvendosi con i tempi. La casa editrice non si è mai limitata a essere un semplice produttore di libri, ma ha sempre concepito il proprio ruolo come quello di un'impresa intellettuale condivisa, di un soggetto politico collettivo animato da ideali di partecipazione, inclusione e riduzione delle distanze sociali e culturali.

Come scriveva Gesualdo Bufalino: "La Sicilia ha inventato la malinconia, i siciliani il rimpianto." Ma La Zisa ha dimostrato che oltre la malinconia e il rimpianto c'è la possibilità di un impegno concreto, di una resistenza culturale che non si piega alle logiche del mercato o del potere.

In un'epoca in cui l'editoria attraversa profondi cambiamenti e difficoltà, La Zisa rappresenta un modello virtuoso di resilienza culturale. La sua longevità non è frutto del caso, ma della coerenza con cui ha perseguito la propria missione, adattandosi ai cambiamenti senza mai tradire i propri valori fondanti.

Oggi, a 37 anni dalla fondazione, La Zisa costituisce un autentico patrimonio civile per l'Italia intera: una riserva di energie morali e intellettuali che continua a crescere e a sviluppare il proprio progetto editoriale con rinnovato entusiasmo. Il suo esempio ci ricorda che fare cultura significa anche prendere posizione, schierarsi dalla parte giusta - o, come direbbe La Zisa stessa, dalla "parte sbagliata" - per contribuire alla costruzione di una società più giusta e consapevole.

L'augurio, come sottolineato dalla stessa casa editrice, è che realtà come questa possano moltiplicarsi e prosperare, continuando a immaginare e a realizzare quell'universo di valori che La Zisa persegue da quasi quattro decenni con tenacia e passione. In un mondo sempre più polarizzato e frammentato, l'impegno civile e culturale di questa determinata casa editrice rappresenta un faro di speranza e un modello da seguire.

Come affermava Italo Calvino: "Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire." Allo stesso modo, La Zisa non ha ancora finito di dire la sua, e continuerà a farlo, da Firenze, con la stessa passione e lo stesso impegno che l'hanno caratterizzata sin dalla sua nascita nel cuore di Palermo.

sabato 5 aprile 2025

“Sicilia, l’isola che non ama leggere (neppure i quotidiani). I record negativi della terra del sole” di Davide Romano

 


 

Il deserto delle pagine che avanza nell'isola del sole e dei contrasti. 

 

Indice di lettura in Sicilia: una questione culturale o strutturale?

Gli ultimi dati sulle capacità di lettura di noi siciliani, provenienti dall'Associazione Italiana Editori, non sono soltanto impietosi: sono il ritratto di una catastrofe culturale che si consuma nel silenzio complice delle istituzioni. Come diceva Leonardo Sciascia, nostro illustre conterraneo: "La Sicilia ha questo di tremendo: che tutto vi accade come dovunque, ma con una intensità che altrove non si riscontra". Anche il non leggere, in Sicilia, avviene con un'intensità particolare.

Sapevamo già che il nostro popolo era fra quelli che leggevano di meno in Italia, ma ora il divario con il resto del paese – e in particolare con le province del Nord – e gli altri paesi europei si configura come un abisso incolmabile, una voragine che inghiotte speranze e possibilità di riscatto. Siamo un'isola anche in questo: isolati dalla cultura, dal sapere, dalla conoscenza che si trasmette attraverso la parola scritta.

Pier Paolo Pasolini, che amava la Sicilia ma ne conosceva anche i limiti, aveva intuito questo dramma: "La cultura è una difesa contro le offese della vita". E noi siciliani, a quanto pare, siamo sempre più indifesi.

 

I numeri del disastro: percentuali che raccontano una disfatta

La situazione delineata dalle varie percentuali presentate dall'AIE è davvero drammatica. Nel sud Italia solo il 62% della popolazione ha aperto almeno un libro nell'ultimo anno, mentre in Sicilia il dato è ancora più drammatico: esso si assesta al 60%. Una cifra che fa rabbrividire, se pensiamo che in alcune regioni del Nord si supera l'80%.

E attenzione: bisogna ricordare che "aprire un libro" non vuol dire riuscire a leggerlo tutto. Uno può aprirlo, sfogliarlo, magari guardare le figure, e poi richiuderlo, come si richiude una porta su un mondo che non ci appartiene. E poi bisogna anche valutare di quale testo si sta parlando. Con tutto il rispetto per i ricettari di cucina siciliana (ottima, per carità!), per le biografie dei vari influencer dalle teste vuote e per le raccolte di barzellette che fanno ridere solo chi le scrive, la cultura è altra cosa.

Come diceva Umberto Eco: "Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito... perché la lettura è un'immortalità all'indietro". Ma a quanto pare, noi siciliani preferiamo la mortalità della nostra singola esistenza.

 

Lettori occasionali e abituali: un'isola divisa in due

Nel Sud e nelle Isole, inoltre, si registra una più alta percentuale di lettori occasionali, che si limitano a leggere un massimo di 3 libri all'anno. Essi risultano il 37% dei lettori, mentre la percentuale di lettori abituali che leggono anche più di 12 libri all'anno è in linea con il centro nord. Si tratta dell'8% del totale di tutti i lettori.

Abbiamo quindi un'élite di lettori forti, che resistono come Asterix e Obelix nel villaggio gallico circondato dai romani, e poi una massa di non-lettori o di lettori occasionali che sfogliano un libro come si sfoglia un album di figurine: distrattamente, senza passione, senza quella fame di conoscenza che dovrebbe essere il motore della crescita personale e sociale.

Italo Calvino, che di libri se ne intendeva, ammoniva: "Chi usa la letteratura per distrarsi vuole solo utilizzare una facoltà che in lui resta attiva, quella dell'attenzione". Ma l'attenzione del siciliano medio sembra essere catturata da ben altro: dallo smartphone, dalla televisione, dai pettegolezzi di paese che rimbalzano di bocca in bocca più velocemente di un virus.

 

La crisi della carta stampata: un altro tassello del mosaico

Ugualmente drammatica la situazione dei quotidiani e delle riviste. Come indicato dagli stessi direttori di giornale, le vendite continuano a diminuire e ci sono territori centrali della nostra regione che sembrano possedere poche decine di lettori, quasi tutti anziani che presentano delle difficoltà nell'usare il web.

Indro Montanelli, maestro di giornalismo, diceva: "Un paese che ignora il proprio ieri, non può avere un domani". E noi siciliani sembriamo ignorare non solo il nostro ieri, ma anche il nostro oggi, riportato sulle pagine dei giornali che nessuno legge più.

I quotidiani locali, che un tempo erano il termometro della vita sociale e politica dei nostri paesi, ora sopravvivono a stento, ridotti a contenitori di necrologi e pubblicità di mobilifici in svendita perpetua. Come se la morte e il consumo fossero le uniche notizie che interessano ancora.

 

Le biblioteche: cattedrali nel deserto

Anche il patrimonio librario delle nostre biblioteche risulta essere carente. Esso è molto vecchio e sottodimensionato rispetto alle collezioni delle biblioteche del settentrione. Si sta parlando di circa 1763 libri per mille abitanti contro i 3244 volumi disponibili nel centro nord.

Le nostre biblioteche sembrano essere diventate ciò che Borges, maestro della narrativa e bibliotecario lui stesso, temeva: "Ho sempre immaginato il Paradiso come una specie di biblioteca". Ma le nostre, di biblioteche, sono più simili a un Purgatorio dimenticato: scaffali polverosi, libri ingialliti dal tempo, cataloghi che si fermano agli anni '90 come se il millennio nuovo non fosse mai arrivato.

Ciò non vuol dire che la Sicilia e le altre regioni del sud Italia non presentano collezioni bibliografiche di pregio. La stessa presenza di numerosi archivi statali e regionali nel nostro territorio va contro questa semplicistica lettura, ma come si può immaginare queste collezioni dispongono di volumi alquanto superati e non aggiornati.

Marginale è anche il ridotto numero di accessi alle biblioteche. All'interno della nostra regione su ogni mille abitanti si registrano poco meno di cento accessi alle biblioteche, contro la media italiana, che è di circa 568 accessi. Molto distante la media del centro nord, che si attesta ai 774 accessi.

Antonio Gramsci, nel secolo scorso, scriveva: "Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza". Ma come può istruirsi un popolo che non ha accesso ai libri, o che, pur avendolo, preferisce dedicare il proprio tempo ad attività che richiedono meno sforzo intellettuale?

 

La chiusura delle librerie e delle edicole: un territorio culturalmente desertificato

Una delle cause principali di questa situazione è la difficoltà di accesso ai libri, con la chiusura di centinaia di edicole e di librerie in tutto il territorio regionale. I piccoli centri sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto. In molti comuni siciliani non esiste più un solo punto vendita di libri o giornali. Bisogna fare chilometri per trovare una libreria, e quando la si trova, spesso è una di quelle grandi catene che privilegiano i bestseller e le novità del momento, trascurando la cultura locale e i piccoli editori.

Gustave Flaubert sosteneva che "Leggere per innalzarsi è la cosa più nobile che si possa fare". Ma come si fa ad innalzarsi se non c'è nemmeno la possibilità materiale di procurarsi un libro? È come pretendere che un contadino coltivi la terra senza avere né seme né aratro.

Le librerie non sono solo punti vendita, sono presidi culturali, luoghi di incontro e di scambio, spazi dove le idee circolano insieme ai libri. La loro chiusura rappresenta un impoverimento non solo commerciale ma anche sociale e intellettuale.

 

L'abbandono scolastico: il seme della non-lettura

Un altro fattore determinante è l'abbandono scolastico, piaga che affligge la nostra isola con percentuali tra le più alte d'Italia. I ragazzi che lasciano la scuola difficilmente diventeranno lettori. La scuola è il luogo dove, tradizionalmente, si impara ad amare i libri, dove si acquisiscono gli strumenti per comprendere e apprezzare la lettura.

Maria Montessori, grande pedagogista, insegnava che "Il bambino non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere". Ma se il bambino abbandona la scuola, quel fuoco non sarà mai acceso, e con esso si spegne anche la possibilità di una vita illuminata dalla conoscenza.

Le statistiche ci dicono che i giovani siciliani tra i 15 e i 17 anni sono i più propensi alla lettura (86%), seguiti da quelli tra i 18 e i 24 anni (79%). Questo dato potrebbe sembrare incoraggiante, ma in realtà è emblematico di un problema più profondo: man mano che si cresce, si smette di leggere. La scuola, finché si frequenta, mantiene vivo l'interesse per i libri. Ma una volta fuori, in una società che non valorizza la cultura, quell'interesse si affievolisce fino a scomparire.

 

La competizione con i nuovi media: una battaglia impari

Non possiamo ignorare l'impatto dei nuovi media sulle abitudini di lettura. Smartphone, social network, videogiochi e piattaforme di streaming offrono un intrattenimento immediato, che non richiede lo sforzo che invece è necessario per leggere un libro.

Marshall McLuhan, visionario teorico della comunicazione, aveva previsto: "Il medium è il messaggio". E il messaggio dei nuovi media sembra essere: perché sforzarsi di leggere quando si può guardare? Perché costruirsi un'opinione quando si può condividere quella altrui con un semplice click?

In Sicilia, terra di contraddizioni, questo fenomeno si amplifica. Siamo tra le regioni con la più alta penetrazione di smartphone e social network, ma con il più basso indice di lettura. Preferiamo scorrere le pagine virtuali di Facebook piuttosto che quelle reali di un libro.

 

Una speranza per il futuro: i giovani lettori

In questo scenario desolante bisogna tuttavia valorizzare alcuni importanti segnali di speranza. La maggioranza dei lettori siciliani risulta più giovane di 25 anni (i lettori dai 15 ai 17 anni sono l'86%, mentre quelli dai 18 ai 24 anni il 79%).

Questo dato, apparentemente positivo, deve però essere interpretato con cautela. I giovani leggono per obbligo scolastico o per genuino interesse? Continueranno a leggere anche dopo i 25 anni, quando saranno immersi nel mondo del lavoro (per chi avrà la fortuna di trovarlo) e nelle responsabilità familiari?

Eugenio Montale, poeta e giornalista, scriveva: "La cultura non è professione per pochi: è una condizione per tutti, che completa l'esistenza dell'uomo". Ma in Sicilia questa condizione sembra essere appannaggio di una minoranza sempre più esigua.

 

L'insoddisfazione come motore di cambiamento

Un altro dato interessante è che buona parte della popolazione siciliana si ritiene insoddisfatta dell'offerta culturale presente all'interno della propria regione e spinge per una valorizzazione del mercato librario interno.

C'è dunque una domanda di cultura che non trova risposta adeguata. C'è una sete di conoscenza che non ha fontane a cui abbeverarsi. C'è un desiderio di crescita intellettuale che si scontra con la povertà dell'offerta.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo capolavoro "Il Gattopardo", faceva dire al Principe di Salina: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". Ma in Sicilia, paradossalmente, sembra che tutto cambi (tecnologie, abitudini, stili di vita) affinché tutto resti com'è: un'isola ai margini della cultura.

 

Conclusioni: un appello all'azione

La situazione della lettura in Sicilia non è solo un problema culturale, ma sociale ed economico. Una popolazione che non legge è una popolazione più facilmente manipolabile, meno critica, più incline all'accettazione passiva dello status quo.

Federico García Lorca, che della Sicilia fu innamorato, scriveva: "Un popolo che non aiuta e non favorisce la sua cultura è un popolo che non solo perde la sua identità ma commette un suicidio sociale". Noi siciliani siamo sul ciglio di questo baratro.

È necessario un piano di intervento serio e articolato: investimenti nelle biblioteche, incentivi per l'apertura di nuove librerie, campagne di promozione della lettura, valorizzazione degli autori locali, collaborazione tra scuole e istituzioni culturali.

Ma soprattutto è necessario un cambiamento di mentalità. Dobbiamo capire che leggere non è un lusso o un passatempo per intellettuali con la puzza sotto il naso. Leggere è un diritto, un bisogno, una necessità per chiunque voglia essere veramente libero.

Come diceva Gianni Rodari, scrittore e pedagogista: "Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo". E noi siciliani di schiavitù ne abbiamo conosciute fin troppe nella nostra storia millenaria. È tempo di liberarci anche da questa, la più subdola: l'ignoranza.

Le Edizioni La Zisa traslocano a Firenze. Ma Palermo non si scorda

 


 

Le case editrici, come gli uomini, hanno un’anima. E se l’anima resta fedele a sé stessa, anche quando cambia casa, non si può dire che tradisca. Ecco perché non bisogna piangere troppo se le Edizioni La Zisa, nate a Palermo nel 1988, hanno deciso di rifare le valigie e mettere radici a Firenze. No, non è un addio alla sicilianità, ma semmai un modo per portarla, con orgoglio e consapevolezza, nel cuore stesso della tradizione culturale italiana.

Per chi non lo sapesse — e dovrebbero saperlo in molti — La Zisa non è stata una casa editrice qualsiasi. È stata, ed è, un’avventura culturale nata in un momento in cui Palermo sembrava dover affondare nei suoi dolori. Invece, nel bel mezzo di un’isola in ebollizione, Maurizio Rizza e i suoi compagni di viaggio hanno avuto l’ardire (che è sempre la forma più onesta del coraggio) di scommettere sui libri. Non solo ristampe e memorie: ma pensiero, inchiesta, letteratura di frontiera. Una casa editrice, insomma, che ha voluto raccontare la Sicilia senza incensarla, senza deformarla, senza imbellettarla. E per questo, proprio per questo, l’ha amata come si ama una terra che è madre e matrigna.

Che poi, diciamolo, non si campa di soli affetti. Il mondo editoriale è cambiato, il baricentro culturale si è spostato, e Palermo, pur restando uno scrigno di passioni, non è più il crocevia che era un tempo. Firenze, al contrario, offre strutture, connessioni, collaborazioni istituzionali e universitarie che consentono una diffusione più capillare del catalogo. Non è un tradimento, è una necessità. Anzi, è una strategia di sopravvivenza intelligente.

Ci sono poi i numeri, che non mentono. Firenze è più vicina all’Europa — e La Zisa ha sempre guardato all’Europa, con le sue collane uniche in Italia di letteratura neogreca (poesia e narrativa), i rapporti con enti culturali internazionali, e autori che vanno da François Mauriac a Ghiorgos Seferis. Con la guida di Davide Romano dal 2007, la casa editrice non ha smesso di pensare in grande, ma ha imparato a parlare più lingue, a dialogare con nuovi pubblici, a superare la logica dell’isolamento culturale che spesso soffoca il Sud.

Certo, non ci saranno più gli odori della Kalsa o il frastuono dei mercati palermitani a fare da sottofondo alla sede della casa editrice. Ma i libri restano. E se i libri parlano ancora di Sicilia, di mafia e antimafia, di letteratura e di poesia mediterranea, allora vuol dire che Palermo — quella vera, fatta di parole e di sogni — non è mai andata via.

E forse, in fondo, è proprio questo che conta.

lunedì 11 novembre 2024

Letteratura. La filosofia nascosta nel “Piccolo Principe” di Saint-Exupéry

 


Sergio Givone (Avvenire, sabato 9 novembre 2024)

 

Un saggio di Francesco Marino scandaglia il capolavoro: il misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara e proveniente da un minuscolo asteroide interroga l’uomo di ogni tempo

 

l problema che assilla la coscienza occidentale moderna e soprattutto post-moderna è quello del rapporto tra libertà e

verità: com’è possibile tenerle insieme? Anzi: è possibile tenerle insieme? Dalla risposta a questa domanda dipendono le
risposte a tante altre domande. Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) ha, a suo modo, mostrato l’indissolubilità del nesso tra verità e libertà. È questa la tesi del saggio di Francesco Marino Eredità e ascesa. La filosofia di Antoine de Saint-Éxupery (Inschibboleth, pagine 400, euro 30,00), con la prefazione del filosofo Sergio Givone che qui anticipiamo.

Tutti conoscono il Piccolo Principe; tutti almeno una volta nella vita sono stati sfiorati dall’idea che il misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara provenendo da un minuscolo asteroide ai confini dell’universo avesse qualcosa di molto importante da dirci, anche se poi sarebbe difficile trovare qualcuno che gli abbia davvero dato retta.

Ma nessuno o quasi nessuno finora era andato a cercare negli scritti postumi dell’autore della favola più letta e più tradotta nel mondo la conferma del suo sospetto: cioè che a far da presupposto a quella favola fosse una riflessione filosofica di tutto rispetto in cui Saint-Exupéry fu impegnato lungo tutta la vita.

E dire che non sarebbero mancate le pezze d’appoggio, assai numerose. Vedi ad esempio la raccolta intitolata Citadelle e ordinata dallo stesso Saint-Exupéry per temi e problemi di ordine speculativo. Ma vedi anche, e soprattutto, i Carnets, che sono una miniera di spunti, sia occasionali sia organici, e la dicono lunga sulla temperie culturale fra le due guerre ma soprattutto testimoniano un pensiero in divenire non privo d’una sua originalità e d’una sua novità anticipatrice.

In questo libro Francesco Marino legge Le Petit Prince alla luce dei Carnets e della Citadelle, ma anche della Correspondance, e ne ricava una tesi non meno sorprendente che convincente. Sostiene Marino: la filosofia di Saint-Exupéry – perché di filosofia si tratta – è tutta incentrata su un concetto di verità che rompe con la tradizione metafisica e inaugura una prospettiva che l’ermeneutica farà sua. Verità come esercizio di libertà. Verità come atto e non come stato di cose. Verità come fare, come creare, anzi, come ridestare, e non come contemplare o corrispondere. Ridestare che cosa? Ridestare l’essenziale umano, dice Saint-Exupéry. L’essenziale umano non è qualcosa che è lì e lì sta, da sempre, per sempre, immutabilmente. Cosa dell’essere, l’essenziale umano non è a disposizione dell’uomo, come se l’uomo potesse farne ciò che vuole e magari dargli il nome che crede, secondo il suo capriccio.

Al contrario, in esso l’uomo incontra il suo sé più proprio, la sua vocazione, il suo destino. Grazie all’essere. È l’essere a provocare l’uomo a essere sé stesso. Come da una trascendenza, l’essere strappa l’uomo all’identità di sé con sé e lo chiama a rinascere altro da sé, infinitamente altro, e ad abitare l’infinito. Ma è l’uomo ad accendere nell’essere una luce che non è della natura perché è dello spirito. Venendo al mondo l’uomo attesta che lo spirito è irriducibile alla natura. Questa irriducibilità è la libertà. E la libertà è l’espressione di ciò che noi siamo veramente. La libertà è la verità dell’essere: e non solo dell’essere al mondo, ma dell’essere in quanto tale. Il mondo sarà pure la prigione dell’uomo. Ma se l’uomo è prigioniero del mondo – questo il suggerimento di Saint- Exupéry – suo primo dovere sarà fuggirsene via, tornare libero, riconquistare il cielo, sia il cielo dove ci si libra in volo sia il cielo figurato dell’anima.

E come potrebbe l’uomo rispondere a questo appello originario, se non in nome dell’essere? Originariamente l’essere è libertà. Dire, come fa una certa metafisica (per esempio la metafisica che Luigi Pareyson definiva “ontica”, ossia la metafisica che prende atto del dato oggettivo, dello stato di cose esistente, dell’essere come essere-stato, e lo identifica con la realtà contrapponendolo alla mera apparenza), che l’essere è e non può non essere, insomma, dire che l’essere è necessità significa tradire non solo il senso dell’essere ma addirittura la verità dell’essere. La verità dell’essere è la libertà. Tolta la libertà, niente di ciò che è ha più alcun senso. Tutto si fa opaco, si spegne, muore. Il mondo diventa il regno dell’assurdo. Con la libertà, invece, non c’è cosa che non appaia degna di essere accettata e addirittura amata. Al punto che anche la condizione più miserabile, se liberamente scelta, acquista valore inestimabile. È il paradosso della libertà. Ed è anzi, a voler andare perfino più in là, il paradosso dell’amore.

Perché l’amore non è oggetto di volontà. Tantomeno può essere imposto ad altri. Eppure, nel momento in cui ne facciamo esperienza (nel momento in cui ci capita di amare, nel momento in cui amiamo perché amiamo e non perché abbiamo deciso di amare) scopriamo che una luce si è accesa da qualche parte, più precisamente nel nostro cuore, e questa luce, per quanto ciò appaia inverosimile, e anche un po’ folle, è in grado di rischiarare il mondo intero, dissipare le ombre, raggiungere perfino le oscurità più tenebrose. Ogni cosa appare illuminata. E come potrebbe darsi un prodigio del genere se l’amore, che non si dà mai a comando, non coincidesse con il desiderio, e dunque con il contenuto più intimo e più profondo e più intensamente voluto del nostro essere?

A partire da considerazioni di questo tipo Marino svolge la filosofia di Saint-Exupéry nella direzione di un’ontologia che rimette al centro il problema del senso e della verità dell’essere (e che quindi è una metafisica, per restare al lessico pareysoniano, “ontologica”). Particolarmente felice appare qui un cenno di Marino: quello che invita a leggere filosoficamente Saint-Exupéry muovendo da Pascal.

Tre sono i motivi per farlo. Il primo riguarda il celebre pensiero intorno al cuore che ha ragioni sue proprie del tutto ignote alla ragione: ragioni, non sentimenti o intuizioni, ma forme del discorso in grado di argomentare intorno a una verità che evidentemente non è univoca e forse neppure unica, ma certo è irriducibile alla logica e alla scienza. Il secondo evoca l’altrettanto famoso tema della scommessa in forza della quale una speranza del tutto infondata o comunque non suffragata da prove potrebbe mostrarsi plausibile, credibile, degna di fede, in una parola più capace di avvicinarci al vero di quanto non possa fare la disperazione. Il terzo motivo fa riferimento alla posizione conquistata per via pratica e non teoretica, cioè attraverso una sfida che, per così dire, stana il vero dal suo nascondimento e ne fa il principio dell’agire umano, esposto sì al nulla, ma nondimeno proteso a uno scopo e già da sempre orientato.

Tutto ciò secondo Marino permette di ascrivere a pieno titolo la filosofia di Saint-Exupéry al campo dell’ermeneutica. Un’ermeneutica che ben poco ha a che fare con la decostruzione del mondo cui ci ha abituati il postmoderno, perché semmai si tratta di una sua ricostruzione, se non addirittura di una nuova creazione. A parlare espressamente di nuova creazione è proprio Saint-Exupéry. Il quale ne trova le tracce ovunque l’uomo si lasci interrogare, come il Piccolo Principe, dal mistero che avvolge l’universo.

Stupore, meraviglia, ma anche sgomento, lo accompagnano, anzi, affiorano in lui sempre di nuovo come dalla sorgente stessa della vita. E non è già questo un risveglio, non è già questa una rinascita? Sia come sia, le domande in questione sono le stesse di una ontologia che voglia essere al tempo stesso ontologia della verità e ontologia della libertà. Ma anche le stesse di un aviatore che si alza in volo sul suo traballante monoplano come se a chiamarlo fossero le stelle, ma che a un certo punto s’inabissa nella notte.

 

sabato 26 ottobre 2024

Scrivere un libro di successo si può? Alcuni consigli e qualche riflessione con un pizzico di ironia

















Scrivere un libro di grande successo è un’impresa che può essere paragonata a una lotteria: chiunque può tentare la fortuna, ma nessuno sa veramente chi vincerà. La buona notizia è che partecipare è facile. La cattiva notizia? Perdere è un’opzione molto probabile. Paul Valéry sosteneva che "scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti". Ebbene, molti scrittori temono di essere interrotti non da una conversazione, ma da un editor che esclama: “Questo non vale nemmeno il prezzo della carta!”


L'idea: il cuore della creazione (o il colpo di genio)

Il primo passo è sempre l’idea, un po’ come cercare di trovare il pezzo mancante di un puzzle in un cassetto pieno di calzini spaiati. Deve essere originale, scintillante, un vero e proprio colpo di genio. Orwell affermava che "il pensiero corretto dipende dalla capacità di utilizzare le parole in modo corretto". Ma come dimenticare le opere derivate da idee che sembravano completamente insensate e che, incredibilmente, hanno conquistato il mondo?

Pensate a Il codice Da Vinci di Dan Brown. Un thriller che gioca con simboli e religione, venduto a milioni di copie, ma che nel suo profondo non è altro che un rompicapo per chi ama mettere in discussione tutto. Se qualcuno avesse detto che un libro su una caccia al tesoro nella storia dell'arte avrebbe avuto successo, lo avremmo guardato come si guarda un giardiniere con un cactus in mano: con grande scetticismo.


La struttura: un’architettura solida (o un palazzo di vetro)

Una volta definita l’idea, è tempo di costruire una struttura. Aristotele ci avverte: "La qualità della prosa dipende dalla qualità della struttura". Peccato che alcuni dei libri più amati abbiano strutture che sfidano ogni logica. Prendiamo ad esempio Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry: chi avrebbe mai pensato che una favola per bambini sarebbe diventata un capolavoro universale? È un po’ come se un architetto avesse deciso di costruire una torre di Pisa per un concorso di bellezza.

Eppure, libri come Moby Dick di Melville, che all’epoca fu un vero flop editoriale, oggi è considerato un pilastro della letteratura. Chi l’avrebbe mai detto? Il fatto che oggi si studi Moby Dick nelle scuole è la prova che il pubblico può essere sorprendentemente imprevedibile.


Scrivere con disciplina: l’atto della creazione

Stephen King, nel suo On Writing, ci esorta a scrivere ogni giorno, un approccio che sembra sagace, se non fosse per il fatto che l’ispirazione spesso decide di prendersi una vacanza ai Caraibi. "Scrivere un milione di parole ti rende un autore; scriverne dieci milioni ti rende un maestro", afferma. Ma per alcuni, è più una lotta da gladiatori in un’arena, dove l’ispirazione è l’ultimo dei gladiatori a scendere in campo. Non a caso, molti aspiranti scrittori si ritrovano a vagabondare tra le pagine di manoscritti non pubblicati, come anime in pena alla ricerca di un lettore.


Revisione: il lavoro di finitura (o la battaglia di Stalingrado)

Non dimentichiamoci del processo di revisione, quel momento in cui il nostro lavoro di cuore si trasforma in un campo di battaglia. Pavese lo sapeva bene: "La scrittura è un atto di coraggio". Ma se la revisione è un atto di coraggio, il rifiuto da parte degli editori è una vera e propria prova di resistenza. Pensate a J.K. Rowling: rifiutata da ben dodici editori prima di trovare finalmente un editore disposto a pubblicare la sua storia di un maghetto con gli occhiali. Chi l’avrebbe mai detto? Oggi Rowling è diventata una delle autrici più ricche del mondo. Ma quanti possono vantarsi di una carriera di rifiuti come la sua?


Il messaggio: l’essenza del successo (o il labirinto dell’interpretazione)

Il messaggio è l’anima del libro. Nietzsche ci ricorda: "Chi ha un perché può affrontare qualsiasi come". Ma i lettori a volte interpretano il messaggio in modi che nemmeno l’autore avrebbe mai immaginato. Un esempio emblematico è Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, spesso considerato una critica alla società americana, ma che per alcuni è solo la storia di un uomo con un sogno e una camicia bianca molto costosa. Chi può dire quale sia la verità?


La magia della scrittura e il ruolo del caso

Ora, dopo aver discusso di tutti questi aspetti fondamentali, giungiamo al punto cruciale: tutto è affidato al caso. Scrivere un libro di successo è come giocare alla roulette russa con le parole: non sai mai dove ti porteranno. Anche i migliori piani possono naufragare senza nemmeno un sospiro, mentre opere scritte in un pomeriggio di ispirazione casuale possono diventare fenomeni mondiali.

Pensate ai famosi Diari di una schiappa: un libro scritto in modo semplice, ma che ha conquistato il cuore di milioni di ragazzi. D’altra parte, ci sono libri ben scritti, ben strutturati, con messaggi profondi, che si perdono nel silenzio dell’archivio delle biblioteche. Un esempio? L’Ulisse di James Joyce, che ha fatto la fortuna di molti lettori e ha lasciato altri a grattarsi la testa per decenni.

In definitiva, scrivere un libro di successo è un'arte che sfida ogni logica. Chi scrive lo fa con passione e disciplina, ma alla fine, il destino del proprio lavoro rimane sempre nelle mani del caso. E se la fortuna non è dalla vostra parte? Beh, c'è sempre la possibilità di scrivere un sequel, e sperare che il secondo tentativo porti a qualcosa di meglio. O, come direbbe un vecchio saggio, "Non conta tanto quello che scrivi, ma quanto sei disposto a insistere". Ma non dimenticate: alla fine, la vera arte è nella capacità di ridere dei propri fallimenti, perché, in fin dei conti, è tutto un grande gioco di parole e un pizzico di follia.

(D. R.)

domenica 20 ottobre 2024

Farsi del male: aprire una casa editrice nel Paese degli scrittori che non leggono

 


Una volta, aprire una casa editrice in Italia era un atto di coraggio, un impegno culturale. Oggi, l’idea di avviare un’attività editoriale nel nostro Paese è un gesto di puro masochismo economico, una scelta disperata in un contesto dove l’ignoranza regna sovrana e il valore della cultura sembra essere stato dimenticato. I numeri non mentono: in Italia si legge poco, si compra meno, e il futuro di un editore indipendente è appeso a un filo, mentre i grandi gruppi monopolizzano il mercato.

 

I dati sull’analfabetismo funzionale in Italia

Partiamo dal quadro generale: l'Italia è tristemente famosa per essere uno dei Paesi con il più alto tasso di analfabetismo funzionale in Europa. Secondo l’indagine dell’OCSE PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) del 2022, il 47% degli italiani tra i 16 e i 65 anni non è in grado di comprendere testi complessi o risolvere problemi anche semplici. Questo significa che quasi la metà della popolazione adulta è incapace di affrontare la lettura di un libro senza grandi difficoltà. Un editore, in questo contesto, non solo deve convincere le persone a comprare un libro, ma anche insegnare loro a leggerlo.

 

Quanti italiani leggono? Un Paese che sta perdendo l’abitudine alla lettura

I numeri della lettura in Italia sono desolanti. Secondo il rapporto dell’Associazione Italiana Editori (AIE), nel 2023 solo il 40,8% degli italiani sopra i sei anni ha letto almeno un libro in un anno. Un dato che continua a calare. Un confronto con il passato mostra il declino: negli anni ‘90, quasi il 60% degli italiani dichiarava di leggere almeno un libro l’anno. Oggi, si scivola verso l’analfabetismo culturale con una rapidità allarmante.

Perché la lettura è in crisi? Le risposte sono molteplici, ma due fattori spiccano: il crescente utilizzo dei social media e il ruolo sempre più marginale che la scuola italiana dedica alla promozione della lettura. Oggi i giovani passano ore su TikTok e Instagram, piattaforme che privilegiano l'immagine e il contenuto superficiale, riducendo il tempo e la voglia di immergersi in un libro.

 

Il crollo delle vendite di libri: un disastro per gli editori

Mentre le grandi piattaforme online prosperano, le vendite di libri in Italia hanno subito un crollo vertiginoso. Nonostante i dati del 2023 mostrino una leggera ripresa rispetto alla crisi pandemica, il settore editoriale ha visto ridursi di quasi il 25% in termini di vendite negli ultimi dieci anni. Il fatturato del settore librario, che nel 2022 era di 3,5 miliardi di euro, è ben lontano dai picchi di inizio anni 2000. Il calo delle vendite di libri fisici nelle librerie è stato compensato in parte dall’aumento delle vendite online, che rappresentano ormai il 40% del mercato.

Questi numeri raccontano un problema strutturale: il pubblico che legge è sempre più ristretto, e il mercato è dominato da pochi bestseller, spesso opere di scarsa qualità letteraria, mentre i titoli di ricerca o di nicchia faticano a sopravvivere.

 

Un mercato dominato dai grandi gruppi: l’impossibilità di fare concorrenza

Il sogno di fondare una piccola casa editrice indipendente è minato dal monopolio di pochi grandi gruppi editoriali. Mondadori, GeMS e Feltrinelli detengono oltre il 50% del mercato editoriale, lasciando le briciole ai piccoli editori. Mondadori da sola controlla circa 27% delle vendite, grazie a un portafoglio che include nomi come Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer e Bompiani.

Le concentrazioni editoriali non solo dominano il mercato, ma controllano anche la distribuzione, monopolizzando l’accesso alle librerie e alle catene di vendita. Messaggerie Italiane, il più grande distributore italiano, lavora principalmente con i grandi editori, mentre i piccoli sono spesso costretti a affidarsi a distributori minori che non garantiscono né visibilità né distribuzione capillare.

 

La crisi delle librerie: la sparizione dei punti di vendita

Se l’analfabetismo funzionale e la concentrazione del mercato non fossero abbastanza, gli editori indipendenti devono fare i conti con la chiusura delle librerie. Negli ultimi dieci anni, oltre 1.500 librerie hanno chiuso in Italia, e il numero continua a calare. Le piccole librerie indipendenti sono soffocate dalla concorrenza delle grandi catene e soprattutto dalla vendita online, dominata da Amazon.

 

Amazon rappresenta oggi il 40% delle vendite di libri in Italia, un colosso che non solo offre sconti aggressivi, ma può spedire qualsiasi titolo direttamente a casa in meno di 24 ore. Questo ha ridotto drasticamente la clientela delle librerie, soprattutto quelle situate in piccoli centri, che spesso sopravvivono grazie a incentivi pubblici o a progetti di rilancio locali. Aprire una casa editrice senza un’ampia rete di distribuzione e un supporto forte sul territorio è, oggi, una missione suicida.

 

Costi crescenti e margini ridotti: un settore in cui non si guadagna

Fondare una casa editrice richiede un investimento considerevole, e i ritorni economici sono sempre più risicati. Tra i costi di produzione, distribuzione, promozione e sconti forzati, il margine di guadagno per un editore indipendente è esiguo.

  • Costi di stampa: Un editore deve affrontare costi di stampa che variano tra 1,50 e 5 euro a copia, a seconda della tiratura e della qualità del prodotto.
  • Distribuzione: I distributori prendono una fetta che oscilla tra il 55% e il 60% del prezzo di copertina.
  • Sconti: La legge Levi limita gli sconti al 5%, ma le grandi catene e Amazon aggirano questo limite con promozioni sugli accessori e abbonamenti. Il piccolo editore non ha i mezzi per sostenere queste politiche aggressive.

Alla fine, per ogni libro venduto, un piccolo editore può trattenere una cifra tra 1 e 2 euro. In un mercato dove i libri si vendono sempre meno, queste cifre non permettono nemmeno di coprire le spese di base.

 

Conclusioni: Un Paese che rinnega la cultura

Perché non vale più la pena aprire una casa editrice in Italia? Perché questo è un Paese di ignoranti. Si legge sempre meno, si investe sempre meno nella cultura e si lascia che pochi grandi gruppi monopolizzino il mercato. Il risultato? Un impoverimento culturale generalizzato, dove l’editoria indipendente è destinata a morire.

I numeri parlano chiaro: l’Italia non è un Paese per editori. E chi osa provarci, rischia di scontrarsi con una realtà economica e sociale che uccide ogni aspirazione culturale sul nascere. Montanelli avrebbe detto che l’Italia non è un Paese per eroi. Oggi, possiamo dire che non è nemmeno un Paese per editori.

(Davide Romano)