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martedì 22 luglio 2014

“Il romanzo su Antonio Veneziano di Franco Guarnera” di ANTONINO SOLE


Il romanzo di Franco Guarnera  si può definire storico; infatti, la vita del Veneziano viene da lui ampiamente sceneggiata nei luoghi e negli ambienti sociali in cui si svolse lungo l’arco della sua esistenza; in particolare, essa viene scandita e intrecciata a quella dei Vicerè che si succedettero a Palermo vivente il poeta. Di ciascuno di questi l’autore  disegna con efficacia i ritratti politici e umani, di cui il più diffuso e non avaro di apprezzamenti  è quello di Marcantonio Colonna. Il governo di questi Vicerè, inoltre, viene inquadrato dal Guarnera nel contesto politico dell’isola, dalla struttura politica ancora semifeudale, oltre che in quello della stratificazione sociale e dello sviluppo economico, alquanto depresso, se si eccettua la mercantile Messina. L’attenzione dell’autore all’insieme della società, sia palermitana, sia dell’Isola nel suo insieme, spiega le pagine tragiche sulla peste e sulla carestia, ma anche quelle comiche sulla corsa delle puttane. Tanti altri aspetti della società del tempo vengono menzionati nel romanzo: dai rigori dell’Inquisizione, spesso sanzionati con la tortura o con la pena capitale, ai cartelli anonimi che, a somiglianza delle pasquinate romane, prendevano di mira questo o quel personaggio altolocato e costituivano la valvola di sfogo dei sudditi nei confronti del potere. Talora il romanziere punta lo sguardo su ambienti popolari, come le bettole; viene anche evocato il villaggio di pescatori a Buongerbino, dove si rifugiò il Veneziano durante la peste e dove egli si dilettava a parlare con quella gente, da cui apprendeva parole e modi di dire  propri di quell’ambiente umile. Insomma, Guarnera, seguendo passo passo il suo personaggio, specie nei rapporti, soprattutto a Palermo, con personalità cospicue sul piano politico e intellettuale, ma pure con gli strati meno abbienti, ci fa respirare l’aria della capitale del Regno nella seconda metà del Cinquecento: pregio, questo, non secondario del romanzo. A volte egli allarga lo sguardo su contesti più ampi, pur sempre variamente connessi con le vicende dell’Isola: ricordo, a questo proposito, le pagine sulla battaglia di Lepanto e le altre sulla battaglia navale tra spagnoli e inglesi, cioè la disfatta della cosiddetta Invincibile armata di Filippo II, cui partecipò un contingente di soldati siciliani. Anche il racconto diffuso della prigionia del Veneziano ad Algeri risponde al gusto di allargare gli spazi del romanzo, e non solo, io credo, all’ufficio di biografo. Tra la storia del protagonista e quella più ampia, che ha come teatro principale Palermo, c’è un nesso reciproco: la storia del Veneziano, attraverso le sue conoscenze degli ambienti più prestigiosi sul piano politico e intellettuale, offre al narratore l’occasione di delineare una serie di personaggi illustri (in particolare, ma non solo, i Vicerè) e a fornire uno spaccato dei problemi politici e sociali  cui questi non sempre sanno o vogliono far fronte; d’altro canto, il contatto e spesso l’attrito del poeta con questi ambienti consente al Guarnera di porre in luce il suo carattere, oltre che la sua cultura. 
Dopo questo preambolo vengo al tema centrale del romanzo, cioè la vita di Antonio Veneziano, intellettuale di prima grandezza, fiorito e tragicamente morto a Palermo sullo scorcio Cinquecento. Dico intellettuale e non solo letterato, perché la sua poesia (a non dire di altre attività di uomo di cultura) è tutt’altro che imitazione di modelli illustri, pur profondamente assimilati: essa  è espressione dei più profondi umori della sua cultura in senso antropologico e del suo modo di rapportarsi con la vita e in specie con quella del suo tempo. Ebbene, l’intellettuale Veneziano, non era tipo da conformarsi ai comuni rispetti e alla comune morale della sua età: dalle pagine del romanzo emerge la figura di un uomo che aveva un alto concetto di sé, non solo per i natali non oscuri, ma soprattutto per l’energia vitale corroborata dalla vasta cultura, che cercava modo e occasione per riversarsi all’esterno e farsi nota alle alte sfere del potere e al ceto intellettuale. Ma, prima che, sotto la guida del narratore, seguiamo il Veneziano tra Monreale e Palermo, è di fondamentale importanza conoscerlo durante il periodo romano. Dopo i primi studi a Palermo e a Messina, presso i gesuiti di queste città, racconta Guarnera, Antonello ( così da ragazzo lo chiamavano i familiari), per i suoi brillanti risultati di scolaro meritò giovanissimo, insieme a pochi altri, di frequentare il prestigioso Collegio dei gesuiti a Roma; quest’ultimo corso di studi doveva concludersi col sacerdozio. Ricche di episodi sono le non poche pagine dedicate dall’autore alla vita di Antonello in collegio: non sempre la sua condotta e quella di un suo fidato gruppetto di amici si attiene alle norme che regolano le giornate dei collegiali: durante una delle più o meno regolari uscite dal collegio egli vede, e poi cerca di rivedere più volte, una fanciulla di cui si innamora, o così crede. Il suo rapporto con i docenti è rispettoso, ma fra tutti ne stima uno solo per il suo sapere e la sua umanità: don Francesco Toledo. Fuori della cerchia degli insegnanti, si lega di affetto con don Eleuterio, oratoriano, cioè appartenente alla Congregazione di San Filippo Neri, anima diversa del cattolicesimo tridentino, rispetto a quella militante dei gesuiti. Procedo, come si vede, per sommi capi, per andare al nocciolo del discorso: la prossima fine degli studi a Roma e l’appressarsi del momento dell’ordinazione suscitano in Antonello dubbi  sulla sua vocazione religiosa; dubbi che il romanziere riconduce a diversi fattori: il fascino per la vita vera, quella varia del mondo, priva dei formalismi e della disciplina della vita religiosa; l’esperienza psichica, avuta durante uno spettacolo, della morte come totale annullamento (circostanza, questa, ricca di implicazioni sulla religiosità inquieta, problematica, del giovane Veneziano); i discorsi sulla religione con don Eleuterio, cristiano, diremmo oggi, aperto, senza pregiudizi verso un umanista-teologo, inviso alla chiesa di Roma, come Erasmo e, persino, con tutte le cautele, verso Lutero. Quest’insieme di fattori spiegherebbe, secondo Guarnera, la decisione del Veneziano di non prendere gli ordini sacri per abbracciare la vita laicale. Tale risoluzione rivela in nuce la personalità del Veneziano: gli studi al collegio romano sono da lui coltivati con passione, ma agli apprende sceverando, attuando un vaglio critico su quanto gli viene insegnato, sicché a un certo punto si persuade che quegli studi, come egli li ha sentiti e vissuti, non collimano con le finalità della scuola. Da questa esperienza emergono due tratti salienti della personalità di Antonello: autonomia di giudizio e amore di verità e libertà. Sono i  tratti a cui sarà subordinato l’altro, per quanto forte: il desiderio di emergere socialmente per i suoi talenti. Conclusa l’esperienza romana, comunque proficua per la sua formazione culturale,  fece ritorno a Monreale, sua città natale, dove risiedeva la  famiglia. Il ritorno a casa non sarà felice: saputo che il motivo di esso è il rifiuto di abbracciare lo stato ecclesiastico, i parenti e più di tutti la madre lo rampognano, lo accusano di leggerezza e di irresponsabilità; ma il generale rammarico, nota il narratore, è tutt’altro che disinteressato, non solo perché un parente gesuita potrebbe tornare utile alla famiglia, ma anche a motivo di una  eredità,  di cui ora, da laico, è parte anche Antonello: insomma, egli sopraggiunge commensale indesiderato alla mensa della predetta eredità. Dopo l’iniziale soggiorno a Monreale, assai burrascoso per le continue liti con i familiari, in seguito a un processo per omicidio intentato a due fratelli e in cui, pur incolpevole, anch’egli venne coinvolto, Antonello, d’ora in poi, per suo espresso volere, Antonio, fu condannato all’espatrio; sicché scelse di trasferirsi a Palermo. Tranne un ritorno nella città natale, in qualità di Proconsevatore del Regio patrimonio, parecchi anni dopo l’allontanamento coatto da Monreale, fu Palermo la vera dimora del Veneziano (insieme alla biografia del poeta della Celia, è Palermo, a mio avviso, l’altro grande tema del romanzo). Nella capitale dell’Isola,  a contatto con ambienti e persone cospicue per livello politico o culturale, Antonio temprò il suo ingegno ed ebbe modo di esplicare i suoi talenti, benché, sul piano pratico, il suo stato sociale restasse sempre al di sotto delle sue aspettative. Non posso, neppure per sommi capi, dar conto della molteplicità di eventi della vita del nostro poeta, nella lunga permanenza nella capitale del Regno, ricostruita con meticolosità dal Guarnera.
Dovrò necessariamente procedere per selezione: mi soffermerò, pertanto, su quegli avvenimenti che mi sembrano i più rivelatori delle sue aspirazioni e della sua spiritualità; aspirazioni e spiritualità, nota giustamente il narratore, alte, nobili nel senso etico del termine, pur nutrite di umori realistici e popolari. Notazione, quest’ultima del Guarnera, che illumina non solo l’uomo Veneziano, ma pure la sua poesia, raffinatissima, colta, ma ricca di succhi sanguigni, attinti dalla realtà nel senso più esteso del termine:  è una notazione critica degna di nota, sviluppata nelle pagine in cui egli dimostra quanto discutibile sia stata la definizione di Veneziano come “Siculo Petrarca”: Petrarca era un modello ineludibile per la poesia e per quella amorosa in particolare, ma di essa nella lirica del monrealese si coglie un’eco lontana: nel suo crogiuolo poetico si versano altri modelli, in special modo Dante, oltre al suo proprio sentire non sceverabile dalla lingua usata, cioè il siciliano, che non è  patina, ma sostanza del suo poetare. Ritorno a quanto accennavo sopra, cioè all’opportunità, a mio giudizio, di isolare alcuni momenti o esperienze della vita di Antonio a Palermo. Trascurando il rapporto con una sorella sposata, pur importante per conoscere come Antonio abbia superato i primi disagi allorché dalla città natale dovette trasferirsi nella capitale, mi soffermerò sulla sua frequentazione di casa Serra, ritrovo di intellettuali di cui è affabile animatrice donna Laura; poi sui suoi contatti con il Vicerè Marco Antonio Colonna e con la moglie Felice Orsini. Interessante, a mio avviso,  sotto il profilo morale, anche l’incontro ( e poi lo scontro), col Vicerè spagnolo succeduto al Colonna, Don Diego Enriquez de Guzmàn. Concluderò questa breve esposizione con le pagine finali del romanzo, cioè con l’ultima  reclusione del Veneziano nella prigione del Castello a mare, dove egli con molti altri reclusi perse tragicamente la vita.
Tratterò questi punti della vita del Veneziano, secondo il racconto di Guarnera, con la massima concisione, e in funzione di quanto essi rivelano della sua personalità. La fama di dotto, di autore di Proverbi siciliani, di poeta, gli aprì le porte di casa Serra, dove si radunava in colte e brillanti conversazioni l’élite della capitale del Regno, sotto la regìa benevola e intelligente dell’ospite, donna Laura. A frequentare, diremmo con voce non ancora diffusa, il salotto di donna Laura erano, come informa il narratore, molti personaggi illustri della società e della cultura palermitana, di cui ricorderò soltanto quello forse più caro al Veneziano: Argisto Giuffredi. Ma l’aspetto più interessante di queste conversazioni, sottolinea Guarnera, consisteva nel fatto che esse si svolgevano con libertà assai maggiore di quanto fosse consentito a quei tempi: l’ambiente si confaceva all’apertura mentale e all’indole schietta di Antonio, che destò l’attenzione e ben presto riscosse la stima di donna Laura. La quale però, forse perché promotrice di vera cultura, cioè di libero pensiero, avrebbe pagato con la vita, nel modo più atroce, questi suoi interessi.
Uno dei momenti più fervidi della vita del Veneziano, quale risulta dalla ricostruzione del romanziere, fu quella dei primi anni del viceregno di Marco Antonio Colonna. Per l’arrivo nell’isola del Vicerè, Antonio allestì l’apparato della festa: una fastosa architettura con arco e ponte, ornata di fregi e immagini allegoriche che glorificavano il celebre personaggio, uno degli artefici, anzi il maggiore, della memorabile vittoria contro i turchi a Lepanto. Il Veneziano non era nuovo a imprese simili, se non proprio identiche, perché anni prima le autorità cittadine gli avevano affidato il compito di disporre secondo un ordine logico e insieme armonico la congerie di statue, non tutte integre, giunte da Firenze a Palermo per ornare la fontana pretoria: nell’un caso come nell’altro egli mise a disposizione delle autorità e del pubblico la sua dottrina, il suo senso estetico, oltre alla sua retorica parlante per immagini. Ben visto dal Vicerè, Antonio ebbe anche occasione di conoscere la Viceregina, Felice Orsini, la quale, per apprendere il siciliano, che allora doveva essere la lingua abitualmente parlata anche dalla classe nobile, fece cadere la sua scelta sul Veneziano, raffinato conoscitore di essa, oltre che uomo di vasta dottrina; così egli divenne precettore della Orsini. Le lezioni impartite da Antonio alla sovrana, nota il biografo-romanziere, non hanno nulla di scolastico: sono libere conversazioni su  temi attinenti ai più svariati ambiti del sapere. L’ufficio di precettore creò dimestichezza fra i due, e la dimestichezza fece nascere in Antonio una vera e propria passione d’amore per la Viceregina, la quale se ne sarà accorta e pure un po’ compiaciuta, ma niente di più: la grande disparità sociale tra l’una e l’altro e, certo, anche il senso dell’onore della nobildonna spensero a poco a poco il fuoco. Ma la passione accese l’estro poetico di Antonio, che sublimò la donna sul piano della poesia: il senhal di Felice sarà Celia, secondo la persuasiva proposta di Guarnera. Purtroppo il buon governo del Colonna, promotore, tra l’altro nella capitale, di importanti opere pubbliche, si concluse tragicamente con il suo assassinio durante il viaggio in Spagna, dove era stato convocato da Filippo II: correva voce, non si sa quanto fondata, che il Colonna tramasse contro la corona di Spagna. E’ durante il governo di Marco Antonio che la fama del Veneziano raggiunse l’apogeo.
Con l’arrivo del nuovo Vicerè, lo spagnolo don Diego Enriquez de Guzmàn, uno dei tanti Vicerè spagnoli incuranti delle sorti dell’Isola, la fortuna del Veneziano declinò. Il Vicerè, tra l’altro, era un personaggio a dir poco strano: al suo arrivo a Palermo rifiutò ogni festeggiamento con grave disappunto della cittadinanza, che si sentì oltraggiata. L’atteggiamento tra altezzoso e distaccato di don Diego si manifestò anche nel colloquio avuto da Antonio con lui, che ostentò , nei confronti del poeta, freddezza e disinteresse. Per di più lo spagnolo era ritenuto uno iettatore, e una tragica circostanza in cui, al suo arrivo in nave da Messina a Palermo, persero la vita alcune centinaia di persone, confermò la trista fama: accadde che una folla assiepata su un pontile di legno, in attesa dell’arrivo del Vicerè, precipitò in mare per il crollo del pontile, in gran parte annegando. Questo era il personaggio, forse persino connivente con episodi di cattiva amministrazione o addirittura di ruberie da parte di pubblici ufficiali. Di uno di questi fu parte in causa Antonio, in qualità di Proconservatore di Monreale. Le replicate denunce a diverse autorità della capitale, di un illecito amministrativo da lui scoperto nella sua città di origine, caddero tutte nel vuoto. A seguito di ciò, il fondato sospetto di Antonio fu che il Vicerè non solo non si curasse della cosa pubblica, ma che per suo tornaconto tollerasse la corruzione. Punto sul vivo, cioè nel suo decoro di amministratore onesto, il Veneziano affisse un cartello al piano dei Bologni: una poesia, di cui si è salvato un frammento, che aveva come bersaglio il  Vicerè;  poesia che, dopo qualche tempo, gli costò il carcere: non era la prima volta e, purtroppo non sarà l’ultima. L’ultima carcerazione, infatti, cadrà durante il governo del nuovo Vicerè, il conte di Olivares, per ragioni alquanto oscure; eppure i rapporti del Veneziano con l’Olivares pare che fossero distesi; ma è noto che quello dei Vicerè non era, allora, l’unico centro di potere nei domini della corona di Spagna: c’era anche un secondo potere forte, a diretto contatto con il sovrano: l’Inquisizione. Sta di fatto che per l’ennesima volta egli si trovò recluso a Castello a mare, terribile carcere e insieme fortezza. Qui, il 19 agosto 1593, Antonio finì i suoi giorni: la causa della morte sua e di centinaia di altri carcerati ( tra cui i due Giuffredi, padre e figlio), fu lo scoppio del deposito di munizioni situate nei sotterranei del Castello; esplosione che lo ridusse a un cumulo di rovine e fece scempio di una moltitudine di corpi di prigionieri.
Qui metto punto a questa rapida esposizione di alcune vicende della vita del Veneziano, secondo la narrazione di Guarnera, di gran lunga più ampia e circostanziata. Mi resta da dire qualcosa del romanzo come opera letteraria, al di là, intendo, dello scrupolo del biografo nonché dello storico, benché  a latere rispetto al soggetto principale dell’opera. Finora ho cercato di dar conto soprattutto del contenuto del romanzo, sia pure, qua e là avanzando qualche proposta interpretativa; adesso mi proverò a individuare, se così posso dire, le sue linee di forza. Nell’accingermi  a ciò, credo sia utile rispondere a una domanda: che cosa ha indotto Guarnera  a scrivere questa biografia romanzata? Io credo almeno tre fattori: 1) il personaggio Veneziano in quanto soggetto intrinsecamente romanzesco, prima ancora, forse, che grande poeta (lo suggerisce nel sottotitolo lo stesso romanziere, che definisce “avventurosa” la vita del protagonista); 2) l’interesse per la città di Palermo in un momento certamente travagliato della sua storia; 3) la passione per il siciliano non solo come lingua della poesia, ma come lingua o dialetto in sé e per sé. Questi tre fattori spiegano, a mio avviso, la genesi del romanzo, ma, idealmente, essi presuppongono l’arte del narrare, cioè di ricreare fatti, ambienti e personaggi annodandoli a un tema centrale. Voglio dire che l’arte narrativa di Guarnera non è nata con questo romanzo; essa presuppone altre prove. A buon conto, si tratta di una narrativa esperta, consapevole di ciò che si richiede a scrivere un romanzo: il narratore, attraverso le vicende del protagonista, pone sotto gli occhi del lettore le scene più varie: scene di collegio e scene familiari; scene rurali, e cittadine e, di queste, le raffinate e le popolari: dialoghi intellettuali come quello tra il Veneziano e Argisto Giuffredi a proposito degli Avvertimenti cristiani di quest’ultimo, e, dall’altro lato, la corsa delle puttane; senza dimenticare quelle relative ai due amori non solo sentimentali di Antonio, o al suo viaggio per mare, con la descrizione della cattura della nave in egli cui viaggiava da parte dei pirati barbareschi e la sua successiva prigionia ad Algeri, dove egli si legò di amicizia e di sodalità letteraria col grande Cervantes (fatto che, anche da solo, dà la misura dello spessore culturale e umano del nostro poeta). Guarnera mostra anche doti di buon psicologo, come si vede, per fare qualche esempio, allorché rappresenta, infondendo nel lettore un senso di attesa protratta, i sogni ossessivi di Antonello bambino che inseguiva le immagini sempre diverse e  sempre sfuggenti del padre ( egli l’aveva perduto all’età di quattro anni), nonché l’esperienza psichica fatta dal protagonista a Roma, in uno stato di semicoscienza, quando, durante uno spettacolo, venne quasi folgorato dalla realtà nullificante della morte. Anche quest’arte introspettiva, qui esemplificata brevemente, conferisce alla biografia  respiro di romanzo. Un altro aspetto dell’opera su cui  mi sembra opportuno soffermarmi è quello del linguaggio. Sicuramente, come ho accennato, Guarnera, palermitano, ama il suo dialetto; che in questo dialetto, quanto si voglia filtrato e impreziosito, abbia poetato un  grande come Veneziano, è stato, io penso, per lui, la riprova del valore, non solo storico-estetico, ma espressivo e icastico del siciliano (in altri termini, nella poesia del Veneziano, egli coglie, oltre alla finezza dell’arte, la forza e l’efficacia del siciliano in quanto tale; o più esattamente, attraverso l’arte del poeta egli nota le potenzialità intrinseche del siciliano). L’uso del dialetto (di area palermitana) nel romanzo, non possiamo dire che sia massiccio, ma ogni volta che può, cioè quando il contesto lo consente, il narratore è ben lieto di innestare nel suo fluido italiano espressioni o frasi in dialetto. Soprattutto per le parole singole o i modi di dire, spesso Guarnera affianca alle espressioni siciliane la traduzione italiana; non sempre però; tuttavia per altre inserzioni del proprio siciliano nel suo italiano (quelle, voglio dire, non tradotte) egli ha agevolato il lettore non siciliano con un glossario. E’ appena il caso di dire che le due lingue, nel romanzo, restano sostanzialmente distinte; la tecnica linguistica di Guarnera non è assimilabile, per intenderci, a quella di un Camilleri.  Sia pure con apparente funzione mimetica e realistica, è evidente nel nostro narratore la tendenza all’intarsio  linguistico: dico apparente funzione mimetica perché l’uso del dialetto non compare soltanto in scene dialogiche di gusto popolare, cioè là dove può invocarsi il principio di verisimigliana, ma anche all’interno del narrato, quando l’autore vuole stringere con l’evidenza di certi modi di dire siciliani una situazione o una circostanza complessa: è sempre difficile in questi casi stabilire se la frase siciliana sia un commento dell’autore, o se egli lo attribuisca, in forma indiretta, al suo personaggio. Proprio questa difficoltà interpretativa è per me  indizio della tendenza alla contaminazione linguistica del Guarnera.
Di tale tendenza o gusto che dir si voglia, è ulteriore prova in alcune pagine del romanzo l’uso dello spagnolo: anche a questo proposito, come per il siciliano, si può invocare l’argomento del realismo; ma, a mio parere, il realismo è un alibi, nasconde cioè una tensione più profonda, quella di mettere a confronto più lingue, di sentirle nel loro spirito diverso. E’ ciò che emerge, o mi sbaglio, anche nelle traduzioni in italiano delle non poche ottave siciliane, di cui l’autore, a illustrazione  di circostanze vere o ipotizzate della vita di Antonio, correda il suo racconto. Tali traduzioni non vogliono essere belle, ma rendere con esattezza i testi originali. Credo di non sbagliare affermando che tali traduzioni, tutt’altro che facili, hanno recato soddisfazione all’autore, non solo perché ha reso leggibili queste poesie ai lettori non siciliani, ma soprattutto perché ha potuto far incontrare e scontrare le due lingue da lui più amate: quella comune e il proprio dialetto. L’italiano del romanzo, l’ho detto, è fluido, godibile, non ricercato e si fa strumento di una narrazione distesa, benché fittissima di fatti, eventi e personaggi; di tanto in tanto ci imbattiamo in qualche parola culta, o ancora in un costrutto meno semplice rispetto alla norma; ma questo è un buon indizio, anzi per me è il segno che la prevalente scrittura piana è frutto di studio, in una parola di stile. Apprezzo in questa scrittura l’equilibrio tra oralità (quella, beninteso, di una persona colta) e letterarietà: l’oralità non cade mai nel corrivo: si evitano le frasi fatte, le parole alla moda, i forestierismi: rare le espressioni francesi, da gran tempo adottate nella nostra lingua. Del tutto speculare all’aspetto dell’oralità è quello della letterarietà, il quale in gran parte coincide con la mancanza degli elementi negativi (almeno a mio gusto) elencati qui sopra; sono da rilevare altresì due rilevanti tratti stilistici: uno è l’alternanza di periodi brevi e di periodi più ampi e distesi, la quale rivela uno scrittore che sa piegare  la sintassi al ritmo vario dei fatti narrati; l’altro è quello che definisco modulo a domanda e risposta: talora ( il fenomeno è frequente) il narratore si interroga su certe circostanze, non sempre chiare, riguardanti il nostro poeta, e si dà le risposte, più o meno attendibili; altre volte gli interrogativi sono sollevati da vicende addirittura oscure riguardanti, sia Antonio, sia altri personaggi del romanzo: in entrambi i casi le risposte, spesso plurime, hanno, io credo, la funzione di far sentire la tensione conoscitiva del narratore mentre viene indagando su avvenimenti dubbi o, allo stato delle conoscenze, insolubili; un gioco che finisce per coinvolgere anche il lettore, invitato quasi a partecipare ai casi del protagonista, o alla soluzione di vicende più o meno enigmatiche.
Per chiudere questo discorso, forse troppo lungo, tengo a sottolineare che Guarnera è un romanziere di buona vena: egli sa tener desta l’attenzione del lettore per più di trecentocinquanta pagine; la sua scrittura, inoltre, è al tempo stesso scorrevole e decorosa, per quell’equilibrato dosaggio tra oralità e letterarietà di cui ho già fatto cenno.


Il libro: Franco Guarnera, “Il cigno di Triquetra. Vita avventurosa di Antonio Veneziano”,  Edizioni La Zisa, pp. 400, euro 16,00 (ISBN 978-88-6684-063-3)

La trama: Il volume narra le avventure in vita e... in morte del poeta siciliano Antonio Veneziano (1543-1593) il quale, avviato alla carriera ecclesiastica, pur avendo superato brillantemente tutte le prescritte difficili prove, rinunzia in conclusione a prendere i voti e, congedatosi dal Collegio Romano dei gesuiti, torna giù in Sicilia dove viene in pratica cacciato di casa e poi – per un’ingarbugliata vicenda giudiziaria – pure dalla sua città (Monreale). Segue il complicato inserimento nel magma occupazionale-sociale di Palermo, dove però più avanti, essendo viceré di Sicilia Marco Antonio Colonna, ottiene un incarico interessante nell’ambito della reggia. Subisce il carcere per il rapimento di una ragazza; più in là si innamora di una specie di dea dell’Olimpo cui dedicherà i versi della Celia, suo capolavoro. Alti e bassi – tra i primi il ritorno a Monreale e il recupero dei suoi beni –; e ancora più volte il carcere. Inoltre, trovandosi in navigazione diretto a Roma, incappa nei pirati barbareschi e nella deportazione ad Algeri, dove incontra e familiarizza col Cervantes. Supera una serie di disagi e avversità di varia natura: le eredità travagliate, la peste, la cattività algerina, gli scontri col viceré spagnolo Albadelista (succeduto al Colonna), e chiude la sua parabola terrena con una morte singolare insieme e spettacolare, ambiguamente liberatrice.


L’autore: Franco Guarnera, nato a Palermo, ha vissuto a lungo a Roma e attualmente risiede a Cefalù. Ha assolto compiti di responsabilità presso enti pubblici. È autore di opere così in prosa come in versi. Qualche titolo di poesia: “Cadenzario” (1971), “Un albero immenso” (1976), “Dafne” (1993), “Di sottili insoliti averi” (1995), “Momenti e monumenti” (2006); e di prosa: “La libertà e la luna” (1974), “Dossier Paola” (1979), “Ufficio con Nesso” (1997), “A volo in America” (2008).

venerdì 27 settembre 2013

La cura dell’oltraggio, recensione del libro di Margherita Ingoglia



La cura dell’ “oltraggio”
… S’egli ha fatto questo a sangue freddo,
che cosa non farebbe a sangue caldo?”
Cervantes (Don Chisciotte)

Un inappagato eros lirico-poetico – offerto come una macchina da guerra e vorticosa voragine – gira, rivolta e brucia a nudo e “brama il fuoco tra le cosce” della follia amorosa ( Tua, p. 29), e “senz’aria” adagia in “plurimi, carnali diletti” (Inquieta vanitas, p. 44); un teatro di “lingue deliranti” in lotta tra le desublimazione dell’anima e il fluttuare dirompente del corpo con le sue ragioni oniriche quanto sragione in gioco … “per dilaniarne il senso” (Il pensare, p. 18), “mentre gli uragani alitano sulla nostra carne” (La dannazione di un abbraccio, p. 70).
Un linguaggio iconicamente meticcio (né solo visivo, né solo verbale, né solo logico, né solo ritmico…) che si scaraventa sulla pagina con la grazia dissacrante e non curante di un “bicchiere di alchermes” (Silenzio, p. 71); che, informe/dis-forme, fluttua per attaccare il nome del vecchio cuore – il simbolo strumentalizzato dall’illusoria liberazione del potere oppressivo (il potere cattura e non libera anche quando provoca le libertà del sesso) – per trattarlo come un ramo impazzito, disarmonico e “rancido” e salvaguardare la soggettivazione eteroclita autonoma che lo ramifica (imprevedibilmente), lì dove oggi il dominio sui corpi invece passa attraverso la fabbrica dei desideri e del godimento immediato.
Potente quanto raffinato il monologo erotico-narcisistico (la “cura del sé” – M. Foucault –, elevata, credo, a materia della poesia dei tuoi testi), nella sua stratificazione memoriale, porta anche la presenza e la continuità con poeti e poetiche della tradizione culturale che inevitabilmente ci attraversa, mentre lascia l’aureola del poeta idealista e si fa dialogo della vecchia “madre” terra con la fulmineità del “fu” dei guizzi che fanno esplodere i limiti: il “fu” del “fu oltraggio!”.
La scrittura procede coniugando con cura e padronanza costruttiva le “equivalenze” della funzione poetica con la lingua della poesia. Inoltre, le immagini (del pittore o del fotografo), che affiancano il dettato verbale del libro giocano, credo, la funzione di potenziamento “espressivo” come usa fare la stessa anadiplosi (semplice o più articolata), per esempio, ovvero quella parte della tecnologia retorica del “raddoppio” che movimenta “L’attimo”: “ Mio per mio peccato / peccato per mio abbandono alla tentazione/ …” (p. 26).
Come un teatro a scena aperta e montaggio filmico degli atti in corso e in primo piano, l’insegna del conflitto valorizza il contrasto tra i gioiosi peccati della carne (con-fusa/fusa) e il retaggio repressivo della colpa incolpevole e dell’impotente vanità che cerca di offuscare la forza e la potenza dell’anima corporea, carnale.
Certe “correspondences”, variamente connotate – dall’invocazione alla “musa”: Nox et omnia-preghiera della notte”, p. 15; dalla rivisitazione di Cecco Angiolieri: “… Minima ed immensa…”, p. 56, … alle “tentazioni” – “covami / confondimi / superami / eternami” (Inquieta vanitas, p. 44) della Patrizia Valduga –, sono sia il segno di un legame con il passato (che non ci lascia), sia il segno di una soggettività che lo visita e lo ridice con la coscienza del proprio tempo e una sensibilità intellettuale che è propria a ciascuno.
Del resto il poeta è sempre parlato anche da una lingua che non domina, se al mondo è venuto costruito da un tessuto culturale e storico-contestuale che gli permette di dire e scrivere; così come la continuità con chi ci ha preceduto è solo segno di una vitalità che è sotto la cenere e che poi, come una “rovina” palpitante, riemerge non appena soffia il pensiero delle passioni; quel pensiero riflettente che con la sua temporalità tempestiva-intempestiva è sommosso dall’urgere del non contemporaneo dimenticato ma non scomparso; la presenza che non molla e si fa contemporaneo struggere coniugando artificiale e reale (“mi struggerò in lacrime sopra una fantasia”, Puskin).
Credo che l’ascendenza romantica dell’amore come follia e delirio del corpo, o il ricorso a Venere, Adone, Narciso, nell’insieme della tua scrittura poetica, giochino come il ritorno del rimosso e un rinforzo del sognare: “perché occorre sempre avere un sogno nella vita!” (Cerca la vera bellezza, p 85).
Il valore d’uso di questa prova poetica “… e il corpo fu oltraggio” di Margherita Ingoglia, donna del secolo XXI, il tempo del virtuale e del simulacro, ri-propone (invece) la potenza concreta del corpo e della carne come il grido della vita che aborre tanto l’immateriale ideologizzato quanto il materiale manipolato dell’“uniforme” dell’eterno presente di questo secolo del marketing del sesso “anarchico” come della libertà desocializzata. Il rifiuto dell’omologazione uniformante, che disprezza il dis-forme e cartavetra l’eterogeneo nel recinto delle forme canonizzate, non poeticamente, essere più incisivo e parlante.

Se nei depositi dell’archeologia dell’anima, c’è la lacerazione del senso nelle/delle notti di luna piena e la genealogia del lupo predatore, il violentatore dell’“uniforme” e della rapina all’ordine, allora salut all’ “oltrage”, l’esplosione dell’oltraggio che irride il limite e la norma e canta la fusione oltre il principio di realtà e del piacere per una pulsione che solo la logica poetica è in grado di concettualizzare sensualmente.

venerdì 6 settembre 2013

“GABBIE INVISIBILI” una recensione di LILIANA MICCICHE’



“Gabbie invisibili” potrebbe essere una storia come altre, ma non è così. Sono tante piccole storie, quanti i diversi personaggi, all’interno di una grande storia, quella della famiglia Mac Mahon. Su tutti i personaggi, ciascuno protagonista della propria storia, campeggia la figura di Annie, che assume il ruolo di protagonista assoluta dell’intero racconto. Per chi, da bambina, ha vissuto gli anni Cinquanta, Annie, compenetrata nel ruolo di chi deve comunicarsi per la prima volta, ed è felice di farlo, sembra incarnare tutte le brave bambine di quegli anni, con le loro ansia e i loro timori. Già dalle prime pagine sono chiari alcuni temi e topoi fondamentali: le regole discriminate e discriminanti, per maschi e femmine; l’assolutismo della Chiesa e dell’uomo di fede che non ammette punti di vista diversi; la paura della confessione che induce a mettersi a nudo, ma nel contempo la consapevolezza di avere agito secondo l’imprinting ricevuto; e, ancora, andando avanti, la competizione del figlio con il padre; la brava ragazza che ritarda il suo ingresso all’università per aiutare la famiglia; le scelte dei figli diverse da quelle che vorrebbero i genitori; la vera amicizia tra due persone del tutto differenti. E’ questo il tessuto ideologico dell’intero racconto, che suscita l’attenzione e la mantiene viva per tutto l’arco dello sviluppo narrativo, la cui cronologia giunge ai nostri giorni. L’ambiente è il New Jersey, ma potrebbe essere anche l’ Italia…, non è una componente fondamentale. Ciò che importa è l’evoluzione di una società lanciata nel progresso, un mondo che cambia, lasciando dietro di sé i frammenti di una famiglia che si spezza, un mondo che porta nuove verità, ricche di esaltanti promesse: il boom economico, la nuova morale sessuale, la vita militare che schiude nuovi orizzonti e lascia trasparire il sangue che scorre nel Vietnam. In questo nuovo scenario, in cui Annie cresce e diventa adulta, accadono vari colpi di scena che lasciano presagire chissà quali sviluppi: Annie, che fino ad ora ha impersonato il Bene, si innamora di Jeremy, il fratello acquisito dal quale è attratta sessualmente, e con lui consuma l’unico rapporto fisico. Jeremy, simbolo del peccato refrattario ai buoni consigli, dopo essersi macchiato di crimini orrendi, pare acquisisca una sensibilità e una maturità che non gli appartengono: piange vere lacrime, parte per il Vietnam per combattere una guerra che ritiene giusta e che pensa possa essere per lui motivo di palingenesi. In realtà nulla cambia: cambiano i tempi, i luoghi, le circostanze, ma gli uomini restano tali e quali. La brutalità della guerra negherà a Jeremy l’unica dignità che gli resta, la dignità di soldato, e noi lo ricorderemo come une eroe negativo, un antieroe. Annie, dopo un’altalena di momenti di felicità e di tormento, durante i quali cerca risposte nella religione che l’ha sempre sostenuta, matura la decisione di sposare Kevin, il marito-padrone. Con il matrimonio, tutto si ricompone-_l’unica smagliatura è stata la storia col fratello- e il cerchio si chiude: Annie, nonostante le sollecitazioni di Rob di cui forse è innamorata, e benchè desideri col marito quel rapporto paritario imposto dal neofemminismo, da cattolica non riesce a sciogliere le briglie delle istituzioni, la Chiesa e la famiglia, e, come spinta da una accettazione fatalistica della propria vita, si sottomette interamente al marito, così come ha fatto nei confronti della madre. La mancata determinazione la consegna ad una infelicità permanente. Annie resterà per sempre col marito che non ama più e dal quale non è amata, dove non c’è posto per la ribellione ma solo per l’implosione. Annie è prigioniera di se stessa, della sua stessa vita, di cui, per certo, non è mai stata la vera protagonista.
Le esperienze dell’Autore ragazzo, dell’Autore medico, dell’Autore trapiantato in America vengono assemblate nella mente di Colonna Romano e trovano la loro dimensione attraverso il filtro evocativo della fantasia, per comporre un universo dell’invenzione, che affonda le sue radici nel sentimento del passato e del presente. Nella narrazione, la fabula si alterna all’ intreccio e l’aspetto tematico, l’impossibilità di ciascuno  dei personaggi di uscire dai propri schemi mentali e pragmatici e la consapevolezza di essere condannato a restare in quella “forma” che ognuno di loro si è data, diventa denominatore comune di personaggi differenti che si mantecano con la loro diversità emotiva. Le loro caratteristiche e le loro storie irrisolte. La limpidezza dello stile dà concretezza alle vicende e alla realtà dell’animo umano. Le tecniche di cui l’Autore si serve, il discorso diretto, l’analessi, una pseudo metalessi rendono la narrazione più vivace.


Erino Colonna Romano, “Gabbie invisibili. Una rivoluzione vista da lontano”, romanzo, Edizioni La Zisa, pp. 256, euro 16,00

In una piccola cittadina del New Jersey, Riverton, dagli anni cinquanta ai nostri giorni, si svolge la vita di Ann, una donna che quasi inconsapevolmente conduce una silenziosa battaglia con se stessa per liberarsi da quelle strutture mentali e psicologiche che la tengono ingabbiata con fili invisibili e, per questo, tanto più crudeli, all’interno di un modello di vita che intimamente rifiuta, ma che non è in grado di abbandonare. Da bambina, Annie è ubbidiente e “la vita le sembrava un gioco divertente con istruzioni facili da osservare”; da adolescente e, poi, da adulta, quelle istruzioni e quelle regole ricevute da un’educazione tradizionalista e religiosa diventeranno la sua prigione, le toglieranno la libertà di scegliere e di amare. Nata negli anni del baby boom, l’esplosione demografica verificatasi nei 10- 15 anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, Ann vive nel mezzo della rivoluzione culturale degli anni sessanta. La Beat Generation, i sit-in e le marce, i movimenti per i diritti civili e per l’uguaglianza delle donne, con la loro forte spinta innovativa, a poco a poco metteranno in crisi le sue certezze con interrogativi angoscianti così come i personaggi e le vicende che attraverseranno la sua vita: la tragica fine della sorella, il rapporto imprevedibile col fratellastro, la singolare amicizia con Cathy, il rapporto irrisolto con la madre, la difficile relazione col marito, le scelte operate dalle figlie. Sono tutti personaggi che, non diversamente da Ann, sembrano avvitarsi su se stessi, prigionieri di scelte illusorie.

Pietro Colonna Romano (soprannominato Erino) nasce a Palermo il 14 agosto 1948. Si laurea in Medicina all’Università di Palermo nel 1976 e l’anno seguente si trasferisce negli Stati Uniti. Per sedici anni insegna Anestesiologia alla Hahnemann University di Philadelphia. Da dodici anni lavora come anestetista al Pennsylvania Hospital di Philadelphia. È sposato e padre di due figli. Questo è il suo primo romanzo, scritto in inglese e poi liberamente tradotto in italiano.

martedì 19 marzo 2013

“Bambino per sempre” di Antonella Scandone (la Repubblica, domenica 10/03/2013)



IN UNA società che ha fatto della velocità il suo punto di forza, affrontare l' esistenza con una marcia più bassa, costringe ad una vita da perdente, da spettatore delle vite altrui. Liborio, il quarantenne protagonista di Occhio magico, li avverte dolorosamente gli spazi vuoti della propria, ma li accetta passivamente un po' per abitudine e un po' perché, a cominciare da sua madre, gli hanno sempre fatto intendere che va così perché è così che deve andare: «Suo figlio era forte e sano, a parte i periodi in cui si demoralizzava e si abbandonava a se stesso. Era soltanto perché era una persona delicata nei sentimenti, sensibile. Lei lo aveva capito sin da bambino che sarebbe restato sempre un bambino. A lei il compito di proteggerlo come ogni madre fa con il proprio figlio, per sempre e senza l' intromissione di nessuno, almeno fino a quando una donna sarebbe stata in grado di amarlo tanto quanto lei». Nella monotonia di un' esistenza fatta di giornate sempre uguali, improvvisamente, l' amore per una ragazza e la prospettiva di un lavoro che potrebbe consentirgli l' autonomia, sconvolgono il suo piccolo mondo fragile. Aurora Rainieri è brava nel dipingere con efficacia gli smarrimenti della mente di Liborio, la sua ricerca di una svolta che lo renda, finalmente, protagonista della propria esistenza. La sua scrittura è un pugno nello stomaco che invita a riflettere sull' esistenza di quanti, non riuscendo a star dietro al ritmo della vita, ne restano ai margini.

Aurora Rainieri, “Occhio magico”, Edizioni La Zisa, Pagine 160, Euro 12


martedì 18 settembre 2012

“L’urlo innocente” di Amelia Crisantino (“La Repubblica”, domenica 16 settembre)


STELLA è una bella bambina di otto anni che vive un dramma, spesso il suo amato papà fa con lei giochi che devono restare segreti altrimenti, l'angelo custode piangerebbe cosi forte da morirne. E in breve anche Stella e la sua mamma lo seguirebbero. In “Perché nessuno mi crede? Storia di Stella”, Massimiliano Frassi racconta la storia vera di una bambina abusata che, come tante volte purtroppo accade, percorre una via crucis dove alla prima violenza ben presto se ne aggiungono tante altre. Stella trova il coraggio di chiedere aiuto ma il padre è facoltoso, molto influente: nessuno crede alla bambina, l’uomo conquista o intimidisce chi potrebbe aiutarla. Stella comincia a essere curata come bugiarda e mitomane, i metodi sono molto discutibili e lei rischia di diventare davvero una piccola malata di mente. Gli anni passano, negli intervalli fra un elettroshock continuano le violenze paterne. Di ritorno da un ricovero Stella è ascoltata dalla madre, che finalmente mette in fila tanti piccoli indizi e infine le crede. Andranno via, ma lei è ormai vittima di comportamenti autodistruttivi e la strada per riuscire a ritrovare la voglia di vivere è troppo lunga e incerta. Stella non ce la fa. Il libro spinge a riflettere su una violenza sempre nascosta, di cui si accorge solo quando un caso eclatante visibili i suoi protagonisti. E invita a una maggiore attenzione verso parole e comportamenti di bambini spesso troppo soli.

Il libro: Massimiliano Frassi, “Perché nessuno mi crede?! Storia di Stella”, Edizioni La Zisa, Pagine 112, Euro 9,90 ISBN: 978-88-6684-018-3

http://www.lazisa.it/frassi_perche.html

mercoledì 1 giugno 2011

OSSERVATORIO A SUD SULLA LEGA NORD



di GIULIO GIALLOMBARDO (La Repubblica, 08 maggio 2011)

PARTITO di lotta e, nello stesso tempo, di governo. Grazie a quest' ambiguità di fondo, la Lega Nord ha costruito la sua fortuna politica, non senza una buona dose di furbizia e populismo. Ma ci sono altri aspetti che stanno alla base del potere del partito politico fondato da Umberto Bossi nel 1989: zone d' ombra su cui riflettono Fabio Bonasera e Davide Romano, nel libro Inganno padano. La vera storia della Lega Nord ", un' inchiesta che svela le trame nascoste che avrebbero dato vita al Carroccio, facendone poi un partito consolidato nelle istituzioni. Già nella premessa gli evidenziano la natura anticostituzionale che sta all' origine del partito leghista. Il primo articolo dello statuto lo dice chiaro e tondo: «Il Movimento politico denominato Lega Nord ha per finalità il conseguimento dell' indipendenza della Padania e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica federale indipendente e sovrana». Queste basi sarebbero già sufficienti a mettere fuori legge le "camice verdi": qualunque movimento politico miri alla creazione di uno Stato autonomo all' interno della Repubblica italiana, dovrebbe essere perseguito penalmente. Il libro, che vanta la prefazione di Furio Colombo, ricostruisce tutta la storia leghista, dalle origini militanti di movimento di lotta alla sua consacrazione di partito di governo, raccogliendo le testimonianze scomode di chi, deluso, ha lasciato il Carroccio dopo la sua metamorfosi istituzionale.

martedì 15 marzo 2011

“C'è chi lo chiama inganno padano”


(il mattino di Padova, 1 marzo 2011)

Uno dei fenomeni politici più controversi nella storia istituzionale italiana viene analizzato a partire dalla sua nascita, nel libro “Inganno padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, pagg. 176, euro 14,90) dei giornalisti Fabio Bonasera e Davide Romano. Gli autori delineano un percorso che offre lo spaccato del sistema di conduzione della politica nell'Italia del presidente Berlusconi, documentando le fasi della nascita del partito di Umberto Bossi. L'inchiesta di Bonasera e Romano mette in luce il legame di questa nuova realtà politica con la fine della Prima Repubblica, quando il bisogno di stabilità sentito dalla società civile a seguito di Tangentopoli avrebbe favorito l'infiltrazione di una mentalità secessionista, preoccupata di difendere interessi particolari contro un'istituzione Stato unitaria percepita come ambito dell'illecito emerso dalle indagini. Il volume è una raccolta di documenti e testimonianze che tracciano una mappa degli avvenimenti seguiti alla nascita del partito, concentrandosi sulle sue zone d'ombra. La prefazione è di Furio Colombo.

http://mattinopadova.gelocal.it/cronaca/2011/03/01/news/c-e-chi-lo-chiama-inganno-padano-3574196

giovedì 24 febbraio 2011

“I valdesi tra Valli e Sicilia”


Ripubblicato il libro del pastore Teodoro Balma

di Giorgio Tourn (Riforma, 22 febbraio 2011)

All’editore La Zisa di Palermo si deve la ristampa di un volume di Teodoro Balma, Il popolo della Bibbia, storia e martirio dei Valdesi, pubblicato da Corbaccio nel 1933, rifacimento di un precedente opuscolo apparso da Sonzogno nel 1929. Il volume costituisce un interessante documento della pubblicistica valdese in epoca fascista, dopo il Concordato. L’impianto è quello tradizionale, come il testo di E. Comba di quegli anni si ferma al 1848.
L’autore, Teodoro Balma, era allora pastore a Catania dove restò sino al 1946. Italo Pons nell’Introduzione, ne dà un ritratto felice, ispirato anche alla simpatia che nasce dall’aver curato la comunità catanese; personalità versatile, comunicatore nato, non casuale il suo interesse per il teatro e il giornalismo, occupò un posto tutto suo nel piccolo mondo valdese del ventennio con le sue iniziative, anche editoriali.
Può dunque essere motivo di interesse rileggere queste pagine a distanza di tempo: lo è assai più, però, analizzare questa ristampa; oltre al testo di Balma e alle pagine di Pons, essa consta infatti di una prefazione di Antonio Di Grado e delle note conclusive di Maurizio Rizzi, testi brevi ma densi di pensiero. Iniziamo da quest’ultimo; l’editore gli ha affidato il compito di redigere un sesto capitolo che, concludendo il testo di Balma, giunga al giorni nostri. Lo assolve fornendo i dati essenziali, il giudizio sui valdesi di Torre Pellice è forse un tantino eccessivo (la cittadinanza onoraria a Mussolini la diede il comune di Torre Pellice); significativo però è il fatto che il nostro autore si interroghi con partecipe riflessione sull’oggi; egli si aspetta che la Chiesa valdese «sappia coniugare la futura “Città di Dio” e la futura “Città dell’Uomo”», sappia pensare «a nuovi strumenti di comunicazione» laddove invece «ha ritardi culturali notevoli»; che sappia pensarsi «come chiesa del terzo millennio facendosi carico di problemi di natura planetaria», e divenire cioè «pienamente italiana». Non si può che concordare ma come tradurre in termini operativi questo auspicio? Il pensiero corre a formazioni politiche odierne, i cui enunciati programmatici sono raramente calati nel concreto.
Neppure Di Grado lo dice, se non enunciando il paradosso della fede che evoca a ragione, ricordando che non si trapianta la purezza dei valori, l’Evangelo, nell’impurità dei luoghi, cioè nella storia, se non nel sola fide. Ciò che colpisce però nel testo è lo sguardo con cui legge Catania, e ciò che si profila dietro di lei: la Sicilia di Bonavia, ma anche di Brancati e Sciascia, la sfinge con cui si misurano coloro che giungono «dai cieli limpidi delle Valli». E la chiave dell’operazione di cui discorriamo – la ristampa di Balma e i testi che l’accompagnano – sta probabilmente nella percezione di un valdismo siciliano, percepito, intuito, sognato? La sua polarità radicale rispetto a un valdismo nordico è evidente, ed è evidente una sua identità forte; proprio per questo è affascinante ipotizzare un confronto. E leggerli in una dialettica, come non si ha in nessuna altra regione d’Italia.
È casuale che in questo febbraio valdese si stampi e ristampi storia, ci si interroghi cioè sull’identità a Torre Pellice e Palermo?

T. Balma, Il popolo della Bibbia. Storia e martirio dei Valdesi, a c. di Italo Pons, prefaz. di Antonio Di Grado, nota di Maurizio Rizza, La Zisa, Palermo, 2011, pp. 256, euro 16, 00.

martedì 30 novembre 2010

Narrativa: “ALIENI METROPOLITANI” di AMELIA CRISANTINO


PROTAGONISTI metropolitani, vite distanti e parallele che scorrono attorno alla stradadel Viale. Mestieri ormai improbabili e proiezioni nella modernità convivono gomitra gomito, raccontati da Giuseppe Mazzone nel romanzo breve “L'ultima notte prima della fine del mondo”. Troviamo Violetta, ragazza gentile che ha trovato una nicchia al suo disagio divenendo «la commessa della modista». C'è il dottor Crocchia, il «signorino» discendente di una dinastia di medici che figura come specialista in malattie respiratorie. Da un altro secolo sembra arrivare la signora Ina, che in un minuscolo negozio vende formaggi e acciughe sotto sale, le sue pagnotte condite sono molto apprezzate dai muratori. Il tabaccaio guercio e l'edicolante artista reclamano più spazio peri loro personaggi, compressi come sono fra la ginecologa Marta, il barista Lupo, il barbone filosofo e il suo cane Bau, forma abbreviata di Baudelaire. In fondo alla strada c'è lo studio di un veterinario che per solidarietà, la notte di Natale, fa abortire una donna sola legandola al lettino dove di giorno visita cani e gatti. Una folla di ex capelloni nostalgici ed ex minigonne si lanciano versi di vecchie canzoni: sullo sfondo scorre una città distratta, che contagia ai suoi abitanti un umore malinconico. E tutti pensano di avere un giorno vissuto momenti più gloriosi. Anche i sorrisi sembrano evocare tempi andati, «sicuramente migliori a detta di chi li aveva vissuti».

GIUSEPPE MAZZONE
“L'ultima notte prima della fine del mondo”
Edizioni La Zisa
Pagine 122
Euro 9,90

venerdì 19 novembre 2010

Una bella recensione del volume di Anna Maria Bruno “La scuola è finita” (Ed. la Zisa)



"Se la scuola è piena di colleghi serpenti" di Giancarlo Macaluso
(Giornale di Sicilia, 18 novembre 2010)

Che la scuola sia un luogo di tensioni, piccolo specchio dove si riflettono i vizi e le virtù di un Paese, microcosmo che contiene debolezze e cattiverie, slanci di generosità e cupi rancori, ciascuno di noi lo sa perché è stato studente. Ma se a dare una sbirciatina alle stanze dove il Tricolore sventola a tutela del sapere da trasmettere alle nuove generazioni è una professoressa… le cose cambiano. Spesso in peggio.
Ne esce fuori il ritratto, con tratti surreali, di una istituzione compromessa da troppe invidie, da rendite di posizione non sostenibili, da piccate reazioni e sgambetti che, alla fine, non fanno altro che danneggiare gli alunni, già disastrati di loro. Se a tutto questo aggiungete una secchiata di ironia e un ritmo serrato avrete fra le mani una bella storia come quella scritta da Anna Maria Bruno ("La scuola è finita", pp. 136, Edizioni La Zisa) che oggi pomeriggio alle 18 sarà presentata al Collegio dei Filippini di Agrigento con interventi di Massimo Muglia, Gianni Nanfa (che firma la prefazione del romanzo) ed Egidio Terrana.
La Bruno è una prof, insegna in un liceo. Il suo alter ego romanzesco è Chiara, docente che rimane avviluppata negli esami di stato da cui voleva tirarsi indietro, ma che poi accetta perché non se la sente di dire no alle sue alunne proprio nello snodo fondamentale del curriculum scolastico.
Da quel momento, tuttavia, ne accadono di tutti i colori. I membri esterni che con sadico attivismo tendono a mortificare gli sforzi degli studentelli alla prova finale, colleghi che si atteggiano a sapientoni. E la solidarietà che dalla parte opposta scatta come un meccanismo di salutare compensazione. Fra battute di spirito, situazioni paradossali, travasi di bile e qualche sorriso in soccorso dei momenti di più alta tensione quando proprio verrebbe da dire che la scuola è proprio finita. (‘GIMA’)

venerdì 5 novembre 2010

IL KILLER BUDDISTA di Amelia Crisantino (La Repubblica, domenica 31 ottobre 2010)



ALESSANDRO CITARRELLA FIORE, “I ribelli della luna”, Edizioni La Zisa, Pagine 90, Euro 8

STORIA di killer, prostitute e racket a Palermo: ma niente stereotipi, scrittura molto consapevole e controllata, atmosfera pulp e ironica al punto giusto. Ne “I ribelli della luna” di Alessandro Citarrella Fiore, la capacità di usare violenza senza starci tanto a pensare ,è il primo dei requisiti richiesti: protagonista – voce narrante è un killer alla Tarantino, che pratica la musica e ama la letteratura. Svelto di mano, insensibile solo all'apparenza, il killer Ax s'è innamorato di una prostituta di colore. Lei sta accumulando i quattrini necessari a riscattare la sua libertà, lui passa a salutarla prima di andare al lavoro. Come un qualsiasi bravo ragazzo. Al momento va ad ammazzare un paio dei nemici del suo capo, ma nel tempo libero è un non violento persino un po' buddista: il suo più grande desiderio è aiutare gli altri, fare sempre "la cosa giusta". Ax sente di essere solo uno che vive in un mondo violento, uno che vuole fare bene il suo lavoro. A tempo perso "protegge" un paio di ragazze, ma non vorrebbe mai essere uno sfruttatore. Solo, lui le protegge dai pericoli della strada. Qualche piccola guerra di mafia diventa un elettrico confronto fra gang rivali, quasi una partita a flipper veloce e tutta giocata sul filo del rasoio. Il Grande Capo si chiama 'u Panzuni, sentimentale e spietato si avvia a diventare il re della malavita palermitana. La sua scalata costerà molte vite ma, dice Ax, «ogni guerra ha i suoi eroi».

lunedì 1 novembre 2010

“La verità sul 2012” di Walter Ferreri (La Zisa). Recensione di Massimiliano Razzano (“le Stelle”, novem-bre 2010 – n. 89)


“La verità sul 2012” di Walter Ferreri (La Zisa). Recensione di Massimiliano Razzano (“le Stelle”, novem-bre 2010 – n. 89)


Walter Ferreri, “La verità sul 2012”, Edizioni La Zisa, Pagine 112, Prezzo € 8,90

Davvero nel 2012 finirà il mondo come hanno previsto i Maya? Alzi la mano chi non ha sentito questa do-manda almeno una volta. Chiariamo subito dicendo che non ci sono prove scientifiche di una catastrofe planetaria nel 2012. Inoltre, secondo quanto ci insegnano gli archeologi, i Maya non si sono mai sognati di far finire il mondo nel 2012 (v. Le Stelle n. 79, pp. 32-36). Tutto il fracasso mediatico intorno al fatidico anno 2012 non è altro che l'ennesima colossale bufala, come ci racconta Walter Ferreri nel suo nuovo libro.
Dove nasce la convinzione che la fine del mondo debba avvenire nel 2012, per la precisione il 21 dicembre? Senza dubbio l'idea di un "giorno del giudizio" è molto antica e se ne trovano tracce in molte civiltà, da quella ebraica fino alle varie previsioni funeste che circolavano nel Medioevo. Molti conoscono il celebre detto "Mil-le e non più Mille", creato allo scadere del primo millennio e riproposto molto più recentemente nel 1999. Per fortuna siamo ancora qui, alle prese con la prossima imminente fine del mondo, almeno secondo le previsioni di nuove teorie pseudoscientifiche. L'idea del 2012 nasce a metà degli anni '70, quanto lo scrittore Frank Waters notò in uno dei suoi romanzi che nel 2012 finiva un ciclo del calendario Maya chiamato baktun 13. Un baktun dura poco più di 394 anni, e al suo termine il calendario Maya mostra una stringa di zeri, come un contachilometri dopo una sfilza di nove. Negli anni successivi il baktun 13 è stato collegato a vari fenomeni, dagli allineamenti planetari all'incon-tro con una pioggia di corpi cometari. Libro dopo libro, anno dopo anno, la verità storica sul calendario Maya è stata quindi distorta e associata agli scenari catastrofici più improbabili, falsi ma che fanno vendere un sacco di libri. Nella prima parte del libro l'autore passa in rassegna tutti gli aspetti "astronomici" di questa ennesima profezia di catastrofe. Tra allineamenti cosmici, calendario Maya e quartine di Nostradamus, che non poteva di certo man-care in questa galleria delle bufale, l'autore ci mostra quali sono davvero gli eventi astronomici del 2012. Fra cui troviamo un transito di Venere sul disco del Sole i16 giugno, un'opposizione di Marte il 3 marzo e una "Blue Moon" nel mese di agosto. "Blue Moon" non significa che la Luna diventa blu, ma è solamente un modo di dire americano per definire la seconda Luna Piena nello stesso mese. Si parla, insomma, di eventi astronomici molto inte-ressanti ma di certo non catastrofici.
In realtà i problemi di cui dovremo preoccuparci sono ben altri, perché il cosmo può essere ben, più minac-cioso e imprevedibile. Il nostro pianeta potrebbe essere colpito ad esempio da una cometa o da un asteroide. Per farci un'idea dell'impatto di una cometa possiamo ricordare l'evento Tunguska, che il mattino del 30 giugno 1908 devastò 60 km2 di taiga siberiana. Parlando di asteroidi, ricordiamo che uno di essi potrebbe aver causato l'estinzione dei dinosauri circa 65 milioni di anni fa. Guardando al futuro, appare minaccioso l'incontro con l'asteroide Apophis nel 2036, sebbene le probabilità di un impatto siano veramente minime. Sicuramente la comunità internazionale segui-rà il percorso di Apophis nella sua orbita, e il tempo a disposizione ci fa pensare che saremo in grado di combattere questa eventuale minaccia futura. Vi sono poi eventi improvvisi e non prevedibili, come l'esplosione di una supernova, che sarebbe letale se esplodesse entro circa 60 anni luce di distanza da noi. Al momento non cono-sciamo stelle così vicine pronte a esplodere, ma dobbiamo comunque ricordarci che nell'Universo possono esserci esplosioni ben più potenti, come i famosi lampi gamma, che potrebbero diventare molto pericolosi in caso di esplosioni ravvicinate. Parlando di catastrofi globali, non dobbiamo dimenticare le minacce dal sottosuolo, come ter-remoti ed enormi eruzioni. A questo proposito basta ricordare che il Parco Naturale di Yellowstone si trova al di sopra di un'immensa caldera vulcanica di circa 70 km di diametro. Sono proprio queste minacce cosmiche l'argomento della seconda parte del libro, che passa in rassegna le attuali conoscenze scientifiche su quella che potrebbe davvero essere la fine del mondo ma non nel 2012 bensì in un remoto futuro.
Walter Ferreri è ben noto ai nostri lettori e non ha certo bisogno di presentazioni. Astronomo dell'Osservatorio di Pino Torinese e consulente scientifico di "Nuovo Orione", la rivista "cugina" de Le Stelle, svolge da anni un'attività divulgativa di primo piano. Con questo nuovo libro Ferreri ci regala un esempio della sua capacità di divul-gatore, utilizzando il 2012 come spunto per raccontarci temi scientifici di grande interesse come le catastrofi planetarie di origine astronomica. Una lettura sicuramente piacevole, con la quale potremo rassicurare amici e parenti ter-rorizzati dal 2012. E magari farli riflettere sulle reali catastrofi cosmiche che minacciano il nostro piccolo pianeta azzurro.

lunedì 6 settembre 2010

“Il maestro del sonno eterno” (La Zisa), recensione di Davide Romano




Quando si pensa alle mummie si pensa immediatamente alla storia egiziana. In realtà l'arte della mummificazione e quella dell'imbalsamazione sono ancora oggi oggetto di ricerca e studio. La speranza di contrastare la morte impedendo al tempo di deteriorare la forma e l'aspetto dei corpi dei defunti, è stato e continua a essere il sogno di molti ricercatori. Un sogno che Alfredo Salafia, imbalsamatore palermitano del secolo scorso, non solo ha sognato ma ha fatto divenire realtà, con la perfezione e la resistenza delle sue mummie. Il simbolo del lavoro di Salafia è rappresentato da Rosalia Lombardo, una bimba morta ad appena due anni, il cui corpo ancora oggi è perfettamente conservato nelle catacombe di Palermo, di cui la piccola mummia è l'emblema. L'eccellente conservazione della piccola, dopo quasi un secolo dalla sua morte, la fa ritenere una delle più belle mummie del mondo. Ma cosa si cela dietro a tanta perfezione, qual'è il segreto che Salafia ha cercato di portare con sé dopo la sua morte? Dario Piombino-Mascali, attraverso il suo saggio “Il maestro del sonno eterno”, cerca di rispondere a queste domande, raccontando la storia di Salafia e delle sue mummie eccellenti. Il saggio è frutto di accurate ricerche, che hanno portato l'autore a ricostruire la vita del noto imbalsamatore e di scoprire il segreto del suo “Fluido della perfezione”. L'arte di Salafia era conosciuta e apprezzata ancor prima del lavoro svolto su Rosalia Lombardo, infatti tra i suoi lavori l'imbalsamatore poteva vantare di aver operato su corpi di personaggi illustri, quali Francesco Crispi e Giuseppe Pitrè. La fama è tale in patria che Salafia esporta il suo metodo in America, con ottimi risultati. Fino a quel momento l'imbalsamazione prevedeva l'uso di sostanze chimiche pericolose, o di più interventi da effettuare sui cadaveri. Il metodo di Salafia si contrappone al passato per la sua semplicità, un'iniezione intravascolare che elimina dal corpo del defunto i segni della morte. Ma Salafia non è un medico, non ha una preparazione accademica, è più un artista che mischia chimica e creatività. Il suo lavoro non consiste solo nel permettere la conservazione dei corpi, ma soprattutto nel renderli belli. Un riscatto per i familiari, poter guardare la morte in faccia e trovare un volto sereno, addormentato, un ricordo gentile. E proprio “Consuetudine gentile” si chiama l'opera autobiografica di Salafia, un titolo che sottolinea l'importanza del suo lavoro. L'autore rivela anche l'ingrediente che ha reso il suo fluido così efficace, protagonista di un lungo dibattito ancora attualissimo. Questo libro svela una leggenda che ha affascinato tanti ricercatori e turisti, tuttavia oltre la leggenda resta sempre la figura di Rosalia Lombardo, la “bella addormentata” delle catacombe di Palermo.

Dario Piombino-Mascali, “Il maestro del sonno eterno”, La Zisa Editore (www.lazisa.it), 128 pp, euro 12,00

Le Edizioni La Zisa aderiscono ad "Addiopizzo" e a "Libera" di don Ciotti e tutti i volumi pubblicati sono certificati "pizzo free".

mercoledì 1 settembre 2010

“UN MISCELINO PER ROSA”, EDIZIONI LA ZISA



di Giovan battista Scaduto
(Cronache Parlamentari Siciliane, Anno IX - n. 12 - 30 giugno 2010
Quindicinale dell’Assemblea Regionale Siciliana)

La cronaca di una vita in un periodo di sconforto recato dal distacco dalla moglie.

Sergio Cristoforo Infuso nasce a Sommatino il 24 luglio del 1954, ma non è un errore definirlo un “palermitano”. La sua energia esprime giorno dopo giorno l’impegno di chi ha deciso che cambiare
in positivo la società in cui si vive è possibile. Il romanzo “Un miscelino per Rosa” è passione, analisi e storia di gioie ed amarezze. Si racconta un mondo che dona emozioni ed a volte reca dolori, ma che riesce sempre a fornire sorprese atte ad entusiasmare,una continua sfida a migliorarsi anche nelle avversità. Miscelino è un “neologismo” coniato direttamente da Rosa, moglie di Sergio, prematuramente scomparsa ed in grado di trovare conforto nei momenti di dolore causati dalla malattia con un massaggio alla spalla, amorevolmente compiuto dai suoi cari, in vicinanza del polmone destro.
In questo passaggio si riassume la forza espressiva che caratterizza lo scritto d’Infuso, “Un miscelino per Rosa”, divenuto fortuitamente libro, è cronaca di una vita in un periodo di sconforto recato dal distacco dalla moglie con cui Sergio ha costruito una storia d’amore intrisa di valori e dal gusto forte di sentimenti veri, oggi perduti. Tutto deve trasformarsi in ricordo della moglie, della sua sensibilità, del suo essere sempre presente e amorevole con i familiari. Sergio, “autore per caso”, scopre una memoria storica che riteneva di non possedere e che di fatto servirà a delineare un’appassionante cronaca di vicende legate ad un grande impegno sociale che rimarrà indelebile reminiscenza di Rosa in particolare per i suoi adorati figli.
Gli scritti, avendo lo scopo di riaprire archivi ormai riposti, avranno la capacità di sanare la tristezza di Sergio Infuso, crollato nella disperazione per la morte della compagna di sempre, ma ora fiero di ricostruire eventi e di materializzare immagini da mostrare soprattutto ai propri figli, abituati ad essere gentilmente vezzeggiati dalla mamma e di colpo divenuti adulti e capaci di superare con maturità gli eventi della vita.
Il libro viene redatto in un anno ed è un esempio mirabile di scorrevolezza, cui si aggregano vicende che riescono a catturare il lettore con un’abilità che parrebbe quella di un navigato scrittore dalla cospicua produzione. Sergio, dipendente dell’Assemblea regionale siciliana, è attivo in ambito politico e di volontariato, ma è soprattutto per tanti un caro amico, fonte di saggezza e signorilità.

martedì 31 agosto 2010

“LA GRANDE CRISI DEL ’29 (LA ZISA), recensione di Davide Romano




“La grande crisi del ‘29” ripropone una pagina complessa, e quanto mai attuale, della storia americana. Il 1929 e la crisi di Wall Street non rappresentano solo una macchia luttuosa della storia contemporanea, ma anche la prima vera incrinatura di un sistema considerato perfetto. Spesso i libri che parlano di storia e si danno aria di “saggi” finiscono per diventare noiosi. Sicuramente questo non è il caso del libro di Ugo Pettenghi, che con uno stile semplice e discorsivo porta il lettore a immedesimarsi con i piccoli risparmiatori. Pettenghi, cronista di altri tempi, non spiega ma racconta ,attraverso gli occhi abbagliati di tanti americani, la fine di un sogno chiamato capitalismo. Durante il mandato di Hoover la borsa, gonfiata da titoli fantasma e da falsi bilanci, tracolla il 24 ottobre 1929, lasciando il “paese dei miracoli” con milioni di disoccupati, migliaia di aziende chiuse e tanti risparmiatori sul lastrico. L’occhio del cronista focalizza la sua attenzione sui cittadini americani, su come fossero diventati patiti di Wall Street e del suo gioco, unico svago legale al tempo, visto il proibizionismo. Di come fossero pronti a vendersi per le strade, dopo aver scoperto che le proprie azioni erano diventate pezzi di carta senza alcun valore. Ma come ricorda Pettenghi “… quasi sempre lo schiavo bianco restava senza compratore…”. Il disastro del 1929 non si limita all’America, ma trascina dietro di sé un’Europa distratta e piena di debiti, che porterà al trionfo Hitler e Mussolini. Non manca una critica di sottofondo alla fine del libro, che Pettenghi dedica alle vicende di Sam Insull, unica testa considerata responsabile del crollo del 1929: un uomo inseguito per anni dalle forze dell’ordine americane, con due milioni di nemici lasciati in patria. Tuttavia questo libricino lascia l’amaro in bocca per un altro motivo, e cioè che leggendolo sembra di ascoltare un telegiornale recente. Nella speranza che l’uomo faccia la storia, ma che la memoria faccia l’uomo.

Le Edizioni La Zisa aderiscono ad "Addiopizzo" e a "Libera" di don Ciotti e tutti i volumi pubblicati sono certificati "pizzo free".

Ugo Pettenghi, “La grande crisi del ’29. Una storia che si ripete”, Prefazione di Nino Amadore, Con una nota di Michelangelo Bellinetti, Edizioni La Zisa, pp. 80, euro 9,90

lunedì 23 agosto 2010

“QUANDO LA NOTTE SOGNAVAMO BRIGITTE BARDOT (LA ZISA)” di Davide Romano




Molti autori hanno raccontato la loro gioventù in un romanzo, grandi o piccoli percorsi di formazione che portano alla maturità o alla consapevolezza. La gioventù bruciata è quella che va per la maggiore con le sue storie al limite che catturano l’immaginazione del lettore. Nel caso del primo romanzo di Manlio Elio Massara, “La notte sognavamo Brigitte Bardot”, ci troviamo all’opposto. L’autore racconta la sua gioventù attraverso la rilettura di vecchie lettere, scoprendone la normalità e le occasioni perdute. Una gioventù fatta di piccole cose, di Palermo, degli anni ’60 e di tutte quelle fughe che un uomo comune affronta per considerarsi libero. Al ritmo dei suoi respiri il protagonista Elio scopre di non poter cambiare il mondo, ma le donne cambiano lui, allo stesso ritmo dei viaggi imposti dalla leva o dal bisogno di evasione. Anche ritrovare tutte quelle lettere non spedite, ridicole, in cui ci si credeva forti nel provare qualche sentimento già utilizzato milioni di volte. Un libro che è una somma scrupolosa di tutto ciò che si è trascurato, un bisogno di riordinare le idee in testa, come le lettere in uno scatolone dimenticato. Alla fine il caso guida la sorte, un lavoro che non si era cercato, una donna che non si aveva conosciuto, gli amici che vanno e vengono, i punti cardinali di una vita qualunque che le danno sostanza. Brigitte Bardot, ricordata anche nel titolo, diventa il simbolo dei sogni fatti solo per essere sognati, prima di accorgersi di essere già nel mezzo della propria vita. L’autore, attraverso la sua esperienza, elogia la normalità e l’uomo, due elementi che nella maggior parte dei casi si incontrano. Un’occasione per il lettore di ritrovare il passato e riviverlo, con il gusto della sicilianità e con l’ironia di chi guarda un vecchio album di fotografie. Un libro consigliato a chi ricorda, a chi non riesce a ricordare e a chi sta costruendo i suoi ricordi. E poi è sempre piacevole pensare a Brigitte Bardot nel film “La ragazza del peccato”.

Manlio Elio Massara, “La notte sognavamo Brigitte Bardot”, Edizioni La Zisa, pp. 176, 9,90 euro

martedì 9 marzo 2010

L'IMBALSAMATORE CHE FINI' IN UN MUCCHIO DI CENERE. UN LIBRO DELLE EDIZIONI LA ZISA NE RACCONTA LA STRAORDINARIA VICENDA UMANA


(LA STAMPA - VENERDÌ 5 MARZO 2010)

L'IMBALSAMATORE CHE FINI' IN UN MUCCHIO DI CENERE

di LAURA ANELLO - PALERMO

Nella città che ha genera­to Cagliostro, il mago della truffa e dell'impo­stura, molti dubitava­no che quella bambina addormentata da novant'anni fos­se di carne e di ossa. È di cera, è una bambola, è una replica recen­te, è frutto di un incantesimo, peg­gio, di una diavoleria. Tutto si è scritto su Rosalia, l'ospite più cele­bre delle catacombe dei Cappucci­ni di Palermo, dove centinaia di corpi sono esposti a sfidare titani­camente il tempo e i suoi sfregi. L'incursione più choccante e pro­fonda nella sicilianità che odora di muffe, di incenso e di morte.

E invece Rosalia Lombardo, spi­rata i16 dicembre 1920, una settima­na prima di compiere due anni, è «la più bella mummia del mondo, supe­riore a quelle di Lenin e di Evita Pe­ron, un capolavoro assoluto». Paro­la di Dario Piombino-Mascali, il ri­cercatore dell'Istituto Eurac di Bol­zano che ha appena portato alla luce la storia del suo autore - Alfredo Sa­lafia, classe 1869 - e i segreti del suo «Fluido della Perfezione», fino­ra sconosciuto. Non un prodigio, ma una miscela di glicerina, for­malina, zinco, al­col saturo di aci­do salicilico.

La storia l'aveva dimenti­cato, Dario Piom­bino-Mascali l'ha disseppellito, interpellando i pronipoti, mettendo le mani sulle sue memorie incompiute (titolo: «Nuovo metodo speciale per la con­servazione del cadavere umano allo stato permanentemente fresco»), seguendone la storia fino alla tom­ba. Gli esiti della ricerca sono finiti in un libretto agile e a tratti sbalordi­tivo, “Il maestro del sonno eterno” (Edizioni La Zisa), tri­buto a un uomo che ha dedicato la sua vita alla «consuetudine gentile di tramandare alla posterità intatte le sembianze dei nostri più cari».

Uno scienziato (anche se i suoi studi di chimica e anatomia furono da autodidatta), ma anche un arti­sta. Il suo momento di gloria con la «rimessa in forma» del cadavere del­lo statista siciliano Francesco Cri­spi, morto nell'agosto 1901 a Napoli e sottoposto lì a un procedimento non efficace. «Salafia, nove mesi do­po, gli fece una serie di iniezioni sot­tocutanee - racconta Piombino-Ma­scali -: riempì di paraffina disciolta in etere le porzioni temporali e le guance, sostituì i bulbi oculari con protesi vitree, rimodellò naso, orec­chie e labbra, chiuse la bocca, rein­nestò capelli e baffi ormai caduti». La vedova era strabiliata.

Tre mesi dopo, nell'agosto 1902, quel cadavere sul catafalco faceva un figurone. E così in tutte le com­memorazioni successive in cui il povero corpo-feticcio veniva mostrato al pubbli­co: nel 1904, nel 1905, nel 1910 e ancora nel 1914. Inorriditi? Già. Adesso è diffici­le parlare di morte, superare la rimozione col­lettiva, vincere il tabù. Ma dagli an­tichi Egizi agli anni Trenta del No­vecento le cose sono andate diver­samente, attraverso tecniche di pietrificazione, eviscerazione, disi­dratazione, bendaggi. «Un'arte mil­lenaria - dice Piombino-Mascali - in­terrotta con le due guerre mondiali, quando le perdite umane all'ordine del giorno segnano una caduta di inte­resse verso i costu­mi funebri, verso la dignità del corpo».

Da Crispi in poi, per le mani di Sa­lafia, passarono prelati, aristocratici e altoborghesi, mentre i poveracci continuavano a finire nelle fosse co­muni senza alcun maquillage. Inevita­bile allora nel 1909, lo sbarco a New York, dove l'imbalsamatore fondò una società, garantendo pure il servi­zio «soddisfatti o rimborsati». Qui congreghe di scienziati e cassamorta­ri si stupirono compiaciuti dei prodigi del professore, ispezionando cadave­ri ed eccependo su colorito, consisten­za, aspetto. Parabola veloce, che si concluse nel 1912. Poi il ritorno in Sici­lia e altri corpi da eternare.

Tra questi, Rosalia, la bambina delle catacombe. La sua radiografia rivela la presenza di tutti gli organi interni, di una struttura ossea intat­ta e pure di una boccetta di vetro collocata dietro la testa, probabil­mente riempita di illuministici elisir di lunga morte, sostanze anti-muffa. Sulle cause della sua fine è ancora mistero: nel verbale necroscopico si parla di broncopolmonite, ma altre testimonianze si dividono tra difteri­te e tifo addominale.

«Se fosse stata difterite - scrive Piombino-Mascali - l'imbalsamazio­ne del corpo sarebbe stata vietata dal regolamento igienico-sanitario del tempo. La causa di morte, quin­di, fu forse ridimensionata per con­servare per sempre il corpo della piccola». Per Salafia la morte non fu meno inattesa: arrivò il 31 gennaio 1933, tre mesi dopo le sue seconde nozze, per emorragia cerebrale. Ave­va 62 anni. Delle sue spoglie, esuma­te nel 2007, non era rimasto quasi nulla: pochi frammenti dentro un abito blu. Cenere di cenere.

«Se fosse stata difterite - scrive Piombino-Mascali - l'imbalsamazio­ne del corpo sarebbe stata vietata dal regolamento igienico-sanitario del tempo. La causa di morte, quin­di, fu forse ridimensionata per con­servare per sempre il corpo della piccola». Per Salafia la morte non fu meno inattesa: arrivò il 31 gennaio 1933, tre mesi dopo le sue seconde nozze, per emorragia cerebrale. Ave­va 62 anni. Delle sue spoglie, esuma­te nel 2007, non era rimasto quasi nulla: pochi frammenti dentro un abito blu. Cenere di cenere.

«Se fosse stata difterite - scrive Piombino-Mascali - l'imbalsamazio­ne del corpo sarebbe stata vietata dal regolamento igienico-sanitario del tempo. La causa di morte, quin­di, fu forse ridimensionata per con­servare per sempre il corpo della piccola». Per Salafia la morte non fu meno inattesa: arrivò il 31 gennaio 1933, tre mesi dopo le sue seconde nozze, per emorragia cerebrale. Ave­va 62 anni. Delle sue spoglie, esuma­te nel 2007, non era rimasto quasi nulla: pochi frammenti dentro un abito blu. Cenere di cenere.


L'autrice:

LAURA ANELLO VIVE A PALERMO E SCRIVE PER «LA STAMPA» DI CRONACA, COSTUME E CULTURA. E' AUTRICE DI «AMORE DI MADRE», DEDICATO ALLA MADRE DI FULVIO FRISONE, IL FISICO NUCLEARE CATANESE IN SEDIA A ROTELLE DALLA NASCITA, DALLA CU I STORIA È STATA TRATTA UNA FICTION RAI.