Di Augusto Cavadi (siciliainformazioni.com, 16 aprile 2018)
Sulla
scia luminosa di Rainer Maria Rilke, Wim Wenders ha provato a raccontarci, in
un celebre e riuscito film del 1987, cosa si muova sopra il cielo di Berlino.
Più modestamente, ma anche più realisticamente, Mariceta Gandolfo prova a
raccontarci cosa si muova Sotto il cielo di Palermo (La Zisa, Palermo 2017,) o,
meglio, qualcosa di ciò che si è mosso sotto il cielo palermitano negli ultimi
cento anni. Qualcosa: più precisamente alcune vicende delle famiglie dei suoi
genitori, il dottor Nino e mamma Ela, intrecciate con le “microstorie” di
parenti e amici, più o meno noti, appartenenti alla piccola e media borghesia
cittadina. La narrazione, sostanzialmente biografica, non lo è in maniera
esclusiva: infatti, come dichiara l’autrice in quarta di copertina, si tratta
di “un misto di realtà e d’invenzione: autentiche le ricostruzioni storiche,
tratte da fonti accreditate e dalla memoria orale; frutto di fantasia alcune
vicende private che rispettano tuttavia carattere e temperamento dei personaggi
reali”. In questa narrazione Palermo non risulta mero palcoscenico né una sorta
di telone dipinto come sfondo: come dichiara la stessa autrice, nello stesso
luogo, si tratta di una vera e propria “protagonista del romanzo, con i suoi
riti, le sue tradizioni e il suo dialetto colorito, attraverso le ripercussioni
che la Storia avrà sulle vite dei personaggi”. Tra queste tradizioni non
potevano mancare, di certo, almeno alcuni accenni alle delizie culinarie che
aiutano a perdonare tante altre esperienze assai meno delizianti: se è vero,
come spiega alla nipotina un personaggio de La lunga storia di Marianna Ucrìa,
che l’inferno possiamo immaginarlo fedelmente come una specie di grande Palermo
senza pasticcerie. Personalmente ho sottolineato la pagina dedicata alla “pasta
al forno” (traduzione italiana dell’enigmatica pasta cu furnu dialettale) (pp.
42 – 43). Raccontare Palermo è impossibile senza notare le sue molteplici
contraddizioni che, ancor oggi, mutatis mutandis, la rendono tanto interessante
e stimolante quanto faticosa e scoraggiante. Per limitarmi a una sola
evidenziazione: la contraddizione, nella Palermo anteriore al boom economico
degli anni Sessanta del Novecento, fra la ricchezza, parassitaria ed esibita,
degli aristocratici di origine spagnola e la miseria, accettata come dato
naturale da una maggioranza di proletariato e sotto-proletariato (nonostante
occasionali vampate di ribellione, ma più fuori le mura della capitale che al
suo interno: vedi i “Fasci siciliani” di fine Ottocento). Palermo è,
storicamente, come quasi tutto il Regno delle Due Sicilie, una capitale senza
borghesia colta e soprattutto produttiva, weberianamente intraprendente. Negli
anni Venti, quando la nonna materna dell’autrice arrivò a Palermo dalla nativa
Milano, trovò “due città: una era la città del popolo, con le viuzze, i
mercati, la gente vestita poveramente che parlava ad alta voce in tono sguaiato
con un orribile accento dalle vocali molto aperte, che viveva per strada,
mettendo le sedie davanti all’ingresso delle abitazioni troppo piccole e buie
per poter ospitare tante persone in una stanza; l’altra era la città dei
nobili, con i suoi palazzi grandiosi, le ville magnifiche, le signore
elegantissime che andavano due volte l’anno a Parigi per rinnovare il
guardaroba, la Palermo dei ricevimenti, delle corse automobilistiche, del golf.
Osservò tutto questo con i suoi acuti occhi azzurri e decise che non avrebbe
fatto parte di nessuno dei due mondi: loro erano borghesi, venivano dalla più
operosa città d’Italia, non si sarebbero mescolati al popolino ignorante, ma
neanche alla nobiltà parassitaria, che viveva in modo grandioso ed era capace
di bruciare in una sola notte, al tavolo da gioco o in una cena per cento
invitati, le rendite di un anno intero delle loro campagne” (pp. 17 – 18). Lei,
il marito commerciante, avrebbe riempito il vuoto storico nel mezzo dei due
strati sociali opposti: come i Florio, i Whitaker, gli Ingham, i Woodhouse, i
Caflisch… Due notazione in chiusura. La prima è una precisazione. A proposito
dello sbarco delle truppe statunitensi in Sicilia nel 1943, e della nomina a
sindaci di vari mafiosi, l’autrice scrive che “la mafia era così entrata
ufficialmente in politica, infiltrandosi nel principale partito di governo,
comprandosi il voto degli elettori” (p. 72). Ma è davvero questo il momento in
cui la mafia entra in politica o vi era entrata a metà del secolo precedente?
Anzi: la mafia non era diventata mafia proprio quando era entrata nei gangli
dello Stato? Lo dimostra, con una serie impressionante di testimonianze,
Umberto Santino nel suo recente La mafia dimenticata. D’altronde è proprio in
nome di un ambiguo antifascismo dei mafiosi (di quei mafiosi che non erano
riusciti a riciclarsi nei quadri del Partito fascista e che erano stati
perseguiti dal regime, almeno sino al trasferimento del prefetto Mori) che essi
vengono nominati sindaci. La seconda notazione apre uno spiraglio sul futuro.
Infatti, come avviene di norma, anche in questo libro lo sguardo attento e
curioso sul passato suggerisce – pur senza proporselo intenzionalmente – delle
idee per l’immediato futuro. Un esempio lo traggo dalle righe iniziali di
pagina 51: “Mondello è tutt’ora bellissima, ma a quei tempi doveva essere una
specie di paradiso: anche le foto in bianco e nero lasciano intuire la trasparenza
dell’acqua, il bianco accecante della sabbia, il verde fitto dei giardini e dei
palmeti. Una volta, quando vennero a Palermo lo zio Ernesto e la zia Dina, i
ragazzi, in loro compagnia, avevano preso il battello a vapore che collegava
giornalmente il porto di Palermo col porticciolo di Mondello e quella gita per
mare era rimasta indelebilmente impressa nei loro cuori” (p. 51). Dunque l’idea
di un collegamento giornaliero fra Palermo e Mondello via mare non è solo una
bizzarra fantasia che mi accompagna da molti anni, ma è stata effettivamente
realizzata quasi un secolo fa ! Perché non potrebbe realizzarsi nuovamente,
magari estendendosi in estate tra porti siciliani più distanti?