C'è qualcosa di paradossalmente
tragico nel rapporto che la Sicilia intrattiene con i libri. Quest'isola che ha
dato i natali a Luigi Pirandello e a Leonardo Sciascia, che ha nutrito le
pagine immortali di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di Gesualdo Bufalino, che ha
ispirato le cronache di Andrea Camilleri e le riflessioni di Vincenzo Consolo,
sembra guardare con sospetto quell'oggetto misterioso che chiamiamo libro. Come
se fosse un corpo estraneo, un'intrusione nella sua millenaria saggezza orale,
fatta di proverbi tramandati sotto il sole cocente dei cortili e di storie
raccontate all'ombra dei carrubi.
Ho sempre pensato che la Sicilia
avesse con la cultura scritta lo stesso rapporto ambivalente che intrattiene
con l'Italia stessa: formalmente la riconosce, ma nella sostanza la tiene a
debita distanza, preferendo affidarsi alle proprie leggi non scritte, ai propri
codici d'onore, alle proprie tradizioni che si tramandano di bocca in bocca
come antichi segreti iniziatici. Il libro, in questo contesto, diventa quasi
un'imposizione dall'alto, qualcosa che viene da fuori e che disturba
l'equilibrio millenario di un'isola abituata a fare da sé, a bastare a se
stessa.
Eppure, quando la Sicilia decide di
raccontarsi attraverso la scrittura, il risultato è sempre di una potenza
straordinaria. È come se tutti i sentimenti compressi, tutte le parole non
dette, tutta la bellezza malinconica e la rabbia trattenuta accumulate nei
secoli esplodessero all'improvviso in pagine di una densità emotiva che lascia
senza fiato. Pensate al "Gattopardo" di Lampedusa, scritto quasi per
caso da un principe che non aveva mai pubblicato nulla e che morì senza vedere
il successo del suo capolavoro. O alle pagine taglienti di Sciascia, capace di
trasformare i fatti di cronaca nera in indagini filosofiche sulla natura del
potere e della giustizia.
I maestri della parola
La letteratura siciliana del
Novecento è un fenomeno che meriterebbe studi più approfonditi di quelli che
gli sono stati dedicati. Non si tratta solo di una fortunata coincidenza
anagrafica, ma di qualcosa di più profondo: come se l'isola, dopo secoli di
silenzio forzato, avesse trovato improvvisamente la sua voce letteraria e
l'avesse utilizzata con una maestria che lascia stupiti.
Pirandello, con le sue maschere e i
suoi paradossi, ha saputo tradurre in forma teatrale e narrativa quel senso
dell'assurdo che è così tipicamente siciliano, quella capacità di vedere dietro
le apparenze la verità nascosta delle cose. Le sue novelle sono piccoli
capolavori di psicologia dove i personaggi si muovono in un mondo che sembra
sempre sul punto di rivelare la sua natura illusoria.
Sciascia, dal canto suo, ha fatto
della Sicilia un laboratorio per indagare i meccanismi del potere in tutte le
loro forme. I suoi romanzi e i suoi saggi sono lezioni di lucidità politica che
vanno ben oltre i confini regionali. Quando scriveva di mafia, Sciascia non
faceva cronaca ma antropologia; quando raccontava di commissari e di giudici,
non faceva giallo ma filosofia morale.
E che dire di Gesualdo Bufalino,
scoperto tardivamente ma capace di regalare alla letteratura italiana alcune
delle pagine più raffinate e malinconiche del secondo Novecento? La sua
"Diceria dell'untore" è un piccolo gioiello di prosa dove la memoria
si fa poesia e la malattia diventa metafora di una condizione esistenziale
universale.
Camilleri e la tradizione popolare
Un discorso a parte merita Andrea
Camilleri, che è riuscito nell'impresa quasi impossibile di coniugare
letteratura alta e successo popolare, tradizione siciliana e mercato nazionale.
I suoi romanzi su Montalbano hanno fatto conoscere la Sicilia a milioni di
lettori, ma lo hanno fatto senza cadere nel folklorismo facile o nell'esotismo
di maniera.
Camilleri ha capito che la lingua
siciliana non è un dialetto pittoresco da esibire come una curiosità, ma uno
strumento espressivo ricco di sfumature e di possibilità narrative. I suoi
personaggi parlano un italiano mescolato di siciliano che suona autentico
perché nasce dall'interno, non è costruito a tavolino per fare colore locale.
Il successo di Camilleri ha
dimostrato che esiste un pubblico per una letteratura che sappia essere al
tempo stesso radicata nel territorio e aperta al mondo, capace di parlare di
cose universali utilizzando un linguaggio particolare. È una lezione che molti
scrittori siciliani contemporanei stanno cercando di mettere a frutto.
La Zisa: un ponte tra due mondi
In questo panorama complesso e
contraddittorio, una menzione particolare merita la casa editrice La Zisa, nata
nel 1988 con l'ambizioso progetto di dare voce alla migliore letteratura
siciliana e meridionale. Non è un caso che abbia scelto come nome quello del
castello normanno-arabo di Palermo: come quell'antica costruzione, anch'essa ha
rappresentato per anni un ponte tra culture diverse, un punto d'incontro tra
tradizione e modernità.
La storia della Zisa è emblematica
delle difficoltà che incontra l'editoria di qualità nel Mezzogiorno. Nata a
Palermo con l'idea di creare un polo editoriale siciliano capace di competere
con le grandi case editrici del Nord, ha dovuto fare i conti con le resistenze
del mercato locale e con le difficoltà di distribuzione che affliggono tutti
gli editori del Sud. Il suo trasferimento a Firenze, avvenuto dopo trent'anni
di attività, è la dimostrazione plastica di quanto sia difficile fare editoria
di qualità rimanendo ancorati al territorio d'origine.
Eppure, nei suoi anni palermitani, La
Zisa è riuscita a svolgere un ruolo importante nel panorama culturale
siciliano. I suoi cataloghi erano come piccoli atlanti dell'anima isolana,
mappe dettagliate di un territorio interiore che sfugge alle classificazioni
facili e alle semplificazioni turistiche. Ha pubblicato autori siciliani e
meridionali di qualità, mantenendo sempre un equilibrio difficile tra
radicamento territoriale e respiro nazionale.
Il suo trasferimento a Firenze non va
letto come un tradimento delle origini, ma come un adattamento necessario alle
leggi spietate del mercato editoriale. Firenze, con la sua tradizione culturale
e la sua posizione geografica, offre possibilità di distribuzione e di
visibilità che Palermo, nonostante la sua ricchezza storica e culturale, non
può garantire.
Il paradosso dell'indifferenza
Ma torniamo al paradosso iniziale:
perché un'isola così ricca di talenti letterari, così carica di storie da
raccontare, così densa di contraddizioni affascinanti, continua ad avere un
rapporto difficile con il libro come oggetto di consumo culturale? La risposta,
come spesso accade quando si parla di Sicilia, non è semplice e richiede uno
sguardo che vada oltre i luoghi comuni.
C'è innanzitutto una questione
strutturale: la Sicilia ha sempre avuto tassi di analfabetismo più alti
rispetto al resto d'Italia, e anche quando questo problema è stato superato dal
punto di vista quantitativo, sono rimaste sacche di resistenza culturale che
vedono nel libro un oggetto sostanzialmente inutile, un lusso per chi ha tempo
da perdere.
Ma c'è anche qualcosa di più sottile:
una diffidenza istintiva verso tutto ciò che viene percepito come
"ufficiale". Il libro, soprattutto quello che arriva dalle case
editrici del Nord, è spesso visto come un prodotto estraneo, che porta con sé
valori e sensibilità lontane da quelle isolane. È una diffidenza che ha radici
storiche profonde, legate ai secoli di dominazioni straniere che hanno sempre
imposto le loro regole dall'esterno.
La tradizione orale come concorrente
Non bisogna poi dimenticare che la
Sicilia ha una tradizione orale straordinariamente ricca, che per molti versi
entra in competizione con la cultura scritta. Quando hai cresciuto generazioni
intere con i cunti dell'Opera dei Pupi, quando ogni angolo di strada custodisce
una leggenda, quando ogni famiglia ha le sue storie tramandate di nonno in
nipote, il libro può apparire come qualcosa di artificioso, di costruito a
tavolino.
La realtà siciliana è già così
letteraria di per sé che la letteratura scritta rischia di sembrare una
ripetizione, una ridondanza. I siciliani sono tutti un po' narratori nati:
basta sentirli raccontare una storia qualunque per rendersi conto di quanto sia
naturale in loro il senso del ritmo, dell'ironia, della suspense. In questo
contesto, il libro diventa quasi superfluo.
Consolo e la lingua della memoria
Tra gli scrittori siciliani
contemporanei che hanno saputo confrontarsi con questa eredità complessa,
Vincenzo Consolo occupa un posto particolare. La sua prosa densa e barocca,
intessuta di sicilianismi e di echi letterari, rappresenta forse il tentativo
più riuscito di tradurre in forma scritta la ricchezza espressiva della
tradizione orale siciliana.
Consolo non ha mai ceduto alla
tentazione della semplificazione. I suoi romanzi, da "Il sorriso
dell'ignoto marinaio" a "Nottetempo, casa per casa", sono
costruzioni linguistiche complesse che richiedono un lettore attento e colto.
Ma proprio questa complessità è la loro forza: restituiscono alla Sicilia una
dignità letteraria che va ben oltre il pittoresco e il folklore.
La sua morte, avvenuta nel 2012, ha
privato la letteratura siciliana di una delle sue voci più originali e
necessarie. Consolo aveva capito che per raccontare la Sicilia in modo
autentico bisognava inventare una lingua nuova, che fosse al tempo stesso
antica e moderna, colta e popolare.
Il peso della storia
C'è poi da considerare il peso della
storia. La Sicilia ha alle spalle tremila anni di dominazioni straniere, che
hanno lasciato tracce profonde nella mentalità collettiva. Ogni volta che è
arrivato qualcosa dall'esterno - che fossero leggi, mode, o anche libri - è
stato spesso sinonimo di imposizione, di perdita di autonomia.
Questa diffidenza storica si riflette
anche nell'atteggiamento verso la cultura "alta". Il libro viene
spesso percepito come qualcosa che appartiene alle classi dominanti, un simbolo
di privilegi che la maggior parte della popolazione non può permettersi. È
un'eredità del passato che resiste tenacemente, nonostante i cambiamenti
sociali degli ultimi decenni.
La sfida del presente
Oggi la situazione sta lentamente
cambiando. Le nuove generazioni di siciliani sono più scolarizzate e più aperte
al mondo rispetto a quelle del passato. Ma permangono ancora delle resistenze
profonde, legate non tanto a problemi economici quanto a questioni culturali
più sottili.
Il libro, per essere veramente
accettato in Sicilia, deve dimostrare di saper parlare la lingua dell'anima
isolana, di saper intercettare quelle corde profonde che da sempre fanno
vibrare l'immaginario siciliano. Non basta essere tecnicamente perfetti;
bisogna essere autentici.
L'eredità dei maestri
L'eredità dei grandi scrittori
siciliani del Novecento è un patrimonio inestimabile, ma anche un peso non
indifferente per le nuove generazioni. Come si fa a scrivere della Sicilia dopo
Sciascia? Come si racconta Palermo dopo Consolo? Come si descrive la provincia
siciliana dopo Camilleri?
La risposta sta forse nel non cercare
di imitare i maestri, ma nel trovare nuove strade, nuovi linguaggi, nuove
prospettive. La Sicilia di oggi non è più quella di Lampedusa o di Pirandello,
e ha bisogno di scrittori che sappiano raccontarla per quello che è diventata,
non per quello che era.
Il futuro della letteratura siciliana
dipenderà dalla capacità di conciliare fedeltà alle radici e apertura al nuovo,
rispetto per la tradizione e coraggio dell'innovazione. È una sfida difficile,
ma non impossibile, se si considera la ricchezza di talenti che l'isola
continua a esprimere.
La storia di case editrici come La
Zisa, costrette a emigrare per sopravvivere, è simbolica di un problema più
generale: la difficoltà del Sud di trattenere e valorizzare le proprie
eccellenze. Ma è anche la dimostrazione che, quando c'è qualità autentica,
prima o poi essa trova il modo di affermarsi, anche a costo di cambiare
latitudine.
L'importante è che non si perdano mai
completamente i legami con la terra d'origine, perché è da quella terra, con
tutte le sue contraddizioni e le sue bellezze, che nasce la linfa vitale di
ogni autentica esperienza letteraria siciliana.