mercoledì 28 luglio 2010

In libreria: Salvatore Badalamenti, “Montelepre, il dopoguerra e i misteri di Giuliano”, Edizioni la Zisa


In libreria: Salvatore Badalamenti, “Montelepre, il dopoguerra e i misteri di Giuliano”, Edizioni la Zisa, pp.160, euro 13,00 (ISBN 978-88-95709-34-5)

Dal 1943 al 1950, anno della sua morte, Salvatore Giuliano è stato un protagonista di assoluto rilievo del banditismo siciliano. Tra le decine di delitti che gli sono stati attribuiti, spicca la strage di Portella della Ginestra del I maggio 1947, di cui ancora oggi non si conoscono i mandanti e i favoreggiatori. Ma, vittima inconsapevole della sua trista fama, è anche Montelepre, il piccolo e povero comune in provincia di Palermo che gli ha dato i natali. A questo paese, che ancora oggi non è riuscito a scrollarsi pienamente la sgradevole fama che lo circonda, è soprattutto dedicato il lavoro di Salvatore Badalamenti.
Salvatore Badalamenti è nato e cresciuto a Montelepre. Attualmente vive a Palermo e lavora nella segreteria di una scuola statale. Dal 1980 al 1985 è stato Consigliere comunale, per il Pci, del comune di Montelepre.

Le Edizioni La Zisa aderiscono ad "Addiopizzo" e a "Libera" di don Ciotti e tutti i volumi pubblicati sono certificati "pizzo free".


UCCISIONE BANDITO GIULIANO: PROCURA PALERMO APRE FASCICOLO

(ANSA) - PALERMO, 27 LUG - La Procura di Palermo ha aperto un fascicolo di 'atti relativi' sulla morte del bandito Salvatore Giuliano, ucciso in circostanze mai chiarite a Castelvetrano (Trapani) il 5 luglio del 1950. A dare l'input ai magistrati e' stato un esposto presentato dallo storico Giuseppe Casarrubea, che gia' in passato si e' piu' volte occupato del caso Giuliano.
I pm, coordinati dall'aggiunto Antonio Ingroia, hanno sentito come testimoni lo stesso Casarrubea, il ricercatore argentino Mario Jose' Cereghino, il giornalista dell'Ansa Paolo Cucchiarelli e il dottor Alberto Bellocco, il medico-legale che ha comparato le foto del cadavere del bandito. Sulla vicenda non e' stata ancora aperta alcuna indagine.
Non e' la prima volta che Giuseppe Casarrubea, figlio di una vittima della banda Giuliano, sollecita la riapertura delle indagini su queste torbide vicende. Nel dicembre del 2004 lo storico aveva consegnato un dossier di 67 pagine alla Procura di Palermo sulla strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947. Secondo Casarrubea, centinaia di documenti desecretati e rintracciati dallo studioso negli archivi americani e italiani provano che il contesto politico e sociale siciliano, a partire dal 1944, sarebbe stato dominato da un patto scellerato tra neofascismo, servizi segreti, mafia e bande paramilitari. Nel dossier sono contenuti anche nomi e cognomi di militari ed ufficiali della Decima Mas di Junio Valerio Borghese. (ANSA).

martedì 27 luglio 2010

Piero Macaluso, Il mio nome è Carducci e lavoravo in Fiat (monologo teatrale), Edizioni La Zisa




«“Ma che vuol dire diritto al lavoro?”, si chiede Carducci ad un’assemblea in cui si denunciano le nuove forme di sfruttamento operaio legate alla progressiva macchinizzazione del processo produttivo. Già, che significato ha parlare di un “diritto” a proposito di un’attività che gli fa venire il mal di testa ogni volta che torna a casa e che tutto il santo giorno gli fa sentire un fastidioso fischio all’orecchio sinistro? (…) L’operaio Carducci ha dunque ragione: nonostante i moderni metodi di produzione abbiano reso possibile la pace e la sicurezza per tutti, noi abbiamo preferito continuare a far lavorare le persone allo stesso modo, continuando a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dei progressi tecnologici. In questo modo abbiamo creato una situazione
per cui chi lavora continua a lavorare troppo, mentre troppe persone non conoscono altro che il precariato e la disoccupazione. Insomma, siamo stati davvero degli idioti, ma non c’è ragione alcuna per continuare ad esserlo». (Dalla Postfazione di Luigi Cavallaro)

Piero Macaluso ha studiato Tecnica del Linguaggio Audiovisivo. È attore, regista e autore di teatro. Vive e lavora a Termini Imerese (Pa).

Presto in libreria: Alba Coglitore, Profumo di casa. Storia d’amore e di ricette (siciliane), Edizioni la Zisa, pp. 112, euro 8




Stanca di stare in attesa di un uomo che non le da che briciole, dopo tanto tempo Laura decide di tornare a casa per le feste di Natale. Un viaggio emozionante, alla ricerca delle radici più profonde, di quegli indissolubili legami familiari che, in Sicilia più che altrove, sono inequivocabilmente legati alla condivisione del cibo. Un percorso attraverso luoghi e fogli di ricette che, come
una storia ininterrotta, si tramandano di madre in figlia. Profumo di casa è un romanzo e insieme un libro di ricette, attraverso il quale Alba Coglitore ripercorre le tappe di un rapporto unico, quello che lega il cibo e i rapporti autentici.

Nata a Palermo, Alba Coglitore è un’insegnante in pensione. Di se stessa dice: «Mi sembra d’essere nata e cresciuta a scuola. Prima tra i banchi. Poi di fronte. Dovrei odiare i libri, invece il loro profumo m’inebria». Oggi si dedica alle sue passioni: fare la turista nella propria città, leggere e scrivere racconti. Senza dimenticare, naturalmente, quella di sfogliare un libro di ricette e di prepararne qualcuna.

Le Edizioni La Zisa aderiscono ad "Addiopizzo" e a "Libera" di don Ciotti e tutti i volumi pubblicati sono certificati "pizzo free".

A settembre in libreria: Alessandro Citarrella Fiore, I ribelli della luna (romanzo), Edizioni La Zisa, pp. 96, euro 8




Vita in una Palermo notturna autentica e sognante, crudele e thrash, contraddittoria e speciale come solo questa città sa essere. I ribelli della luna è questo e molto di più, con le sue vie e le vite di personaggi che sembrano usciti da un film di Tarantino eppure sono straordinariamente siciliani: il Grande Capo, 'u Panzuni, Ax e Tigrero, le guardie del corpo Emanuelle e Selen, la splendida Marlene. Un sottobosco di prostitute, spacciatori, killer professionisti che è insieme un ironico dramma e una favola di oggi.

Alessandro Citarrella Fiore è nato a Palermo il 5 giugno 1976. I ribelli della luna è il suo primo romanzo. Ha pubblicato alcuni racconti e poesie su una fanzine di Roma. Attualmente affianca il lavoro in una pizzeria alla passione per la scrittura.

Le Edizioni La Zisa aderiscono ad "Addiopizzo" e a "Libera" di don Ciotti e tutti i volumi pubblicati sono certificati "pizzo free".

lunedì 26 luglio 2010

“Perché non può esser vera la religione maomettana” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, dottore della Chiesa (1696 – 1787)


“Perché non può esser vera la religione maomettana” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, dottore della Chiesa (1696 – 1787)
(da “Verità delle Fede”)

Premessa
Riproduco di seguito un gustosissimo estratto di un volume ben più corposo del santo dottore della Chiesa cattolica, Alfonso Maria de’ Liguori, sull’Islam. Il libro in questione è un volume di apologetica intitolato “Verità delle fede” che tanta diffusione ha avuto sino ai nostri giorni fra le masse cattoliche, come del resto i numerosi altre opere del fondatore dei Redentoristi. Il saggio, scritto in un italiano scorrevole ed elegante, è interessante da leggersi anche per vedere quanta strada i cristiani, e in particolare la Chiesa cattolica Romana, abbiamo percorso nel confronto con le altre religioni.
Davide Romano
Ps: come casa editrice La Zisa stiamo progettando di ripubblicare alcune delle opere ascetiche e dogmatiche del de’ Liguori.

1. Vediamo in primo luogo le qualità di Maometto, che stabilì questa religione, diciam meglio questa infame setta che ha mandate tante anime all'inferno. Egli ebbe qualche dote naturale; fu di bello aspetto, d'ingegno penetrante, cortese nel tratto, liberale e grato ai beneficj. Ma all'incontro fu dominato dal vizio della libidine, e perciò tenne da 15 mogli, e più di 24 concubine, fingendo di avere avuto in ciò il permesso da Dio, poiché agli altri non concedeva egli più di quattro mogli; e quindi poi nel suo Alcorano ripose nelle sozzure della carne la massima parte della felicità eterna. Fu dominato ancora dalla superbia, che lo fece talvolta diventar crudele. Basti sapere che una volta ad alcuni che si avean presi certi suoi cammelli, fece tagliar le mani e i piedi, e cavare gli occhi con un ferro rovente, e poi li fece lasciar così, finché spirassero l'anima1.
2. Vediamo ora che cosa sia l'Alcorano di Maometto, e quali dogmi e precetti ivi s'insegnino. Alcorano significa lezione, o sia libro di lezione. I titoli del libro sono varj secondo le varie edizioni. Si divide in Sure, o sieno Azoare 114, e le Sure dividonsi in Ayat, cioè segni di diversa lunghezza, che contengono attributi di Dio e precetti o giudizj di cose mirabili, e questi segni terminano col ritmo corrispondente al verso precedente. L'Alcorano è scritto in lingua pura araba e con eleganza di parole, affettando un modo profetico. Vi sono giudizj, istorie ed esortazioni. A' giudizj spettano le leggi così per le cose sacre, preci, pellegrinaggi e digiuni, come per le cose politiche, tribunali, matrimonj ed eredità. Alle istorie spettano molte narrative, parte prese da' libri sacri, ma corrottamente, e parte finte, o pur ricavate da' libri apocrifi e specialmente del Talmud de' giudei. Alle esortazioni poi si riferiscono gl'inviti alla nuova religione, alla guerra per difesa di quella, alle preci ed alle limosine, minacciando le pene dell'inferno a' trasgressori, e promettendo le delizie del paradiso agli osservanti. Talvolta si finge Dio, o l'angelo che parla: talvolta poi parla lo stesso Maometto o ai Meccani o a' giudei, o a' cristiani. Altre volte parlano i beati del paradiso ovvero i dannati dell'inferno: sicché l'Alcorano è una specie di dramma, in cui sono diversi che parlano.
3. Dicono i Maomettani che l'Alcorano non è composto da Maometto, né da altri, ma solamente da Dio, e da Dio è stato dato a Maometto. In quanto poi al modo e tempo, dicono mille inezie. Altri dicono che l'Alcorano è stato eterno, sempre presente al trono di Dio in una certa tavola, ove stavano scritte tutte le cose passate, presenti e future. Altri dicono che in una certa notte del mese romadan, in cui suppongono che Dio dispone tutte le cose, scese questo libro dal trono divino. Altri dicono che l'arcangelo Gabriele rivelò a Maometto tutto quello che sta scritto nell'Alcorano. Altri dicono che Maometto ricevea da quando in quando alcuni versi, ed egli li facea conservare in una cassa: altri dicono altri spropositi. Del resto oggi negli esemplari che noi abbiamo dell'Alcorano vi sono molte lezioni varie che variano sentenza. I nostri scrittori dicono che l'Alcorano fu composto da Maometto o tutto da sé, o coll'aiuto di un certo monaco Sergio, o d'altri. Chi poi volesse intender più cose dell'Alcorano circa la sua scrittura, legga Marraccio nel prodromo all'Alcorano1.
4. Parlando poi della teologia dell'Alcorano, dee sapersi che questo libro è ripieno d'una farragine confusa di favole, di precetti e di dogmi tutti inetti, fuori di quelli che son presi dalla legge ebraica e cristiana. Maometto riconoscea per divina la missione così di Mosè, come di Gesù Cristo, come anche riconoscea per legittima l'autorità delle nostre sacre scritture, almeno in più parti, dicendo che le altre sono state corrotte; ond'egli colla sua pretesa religione (che dicea esser la stessa che tennero Mosè e Gesù Cristo) volea riformare e perfezionare così la religione giudaica, come la cristiana. Ma in verità altro non fece che formare una setta che discrepava dall'una e dall'altra. Maometto credea esservi un Dio, e dalla Sura 4. vers. 17. si ricava che credesse anche la Trinità delle persone nella natura divina: Neque dicant tres (Deos), Deus enim unus est. Credeva esser di fede esservi gli angeli, ma dicea che essi hanno corpo, e sono anche di diverso sesso; Sura 2. e 7. Diceva ancora essere assegnati due angeli custodi a ciascun uomo, e questi mutarsi ogni giorno. Dicea di più che vi sono angeli e demonj di diverse specie, chiamati genj, i quali mangiano e bevono, ed anche si propagano e muoiono, ed anche son capaci della futura salute e dannazione.
5. Vi sono poi nell'Alcorano molte cose indegne di Dio. Ivi si dice (come bestemmiano ancora gli ebrei talmudisti) che Dio fu costretto a dire una bugia, per metter pace tra Sara ed Abramo. Ivi s'induce Dio che giura per li venti, per gli angeli ed anche pei demonj; quando che Dio solo per sé può giurare, non già per le creature. Di più nella Sura 43. s'induce Dio che prega per Maometto: Cum Deus et angeli propter prophetam exorent. Nella Sura 56. dice Maometto che Dio gli permise di violare un giuramento. E nella Sura 43. che gli permise di potersi mischiare con qualunque donna anche maritata e consanguinea. Dice poi molte bugie. Nella Sura 17. scrive che Dio comandò agli angeli che adorassero Adamo, e che tutti gli ubbidirono, fuorché Belzebub. Dice nella Sura 13. che Maria madre di Gesù è adorata da noi per Dio. Nella Sura 27. dice ch'egli fu rapito da Dio in cielo per essere ammaestrato de' misterj. Nella Sura 25. dice che Iddio ha creato il demonio da un fuoco pestifero.
6. Vi sono poi nell'Alcorano mille contraddizioni. Nella Sura 11. chiama Gesù Cristo spirito di Dio e suo messo: Iesus Mariae filius nuntius suusque spiritus; e poi nega essere Dio, e dice che non è stato crocifisso, ma in suo luogo fu crocifisso uno simile a lui. Nella stessa Sura 11. dice che ognuno, sia giudeo o cristiano, e benché lasci una legge per un'altra, se adora Dio, ed opera bene sarà amato da Dio, e si salverà; e poi nella Sura 3. dice che i Maomettani si dannano se lasciano la loro legge. Nella Sura 20. dice che niuno dee sforzarsi alla fede; e poi nella Sura 9. dice che gl'infedeli debbono essere uccisi. Nella Sura 2. dice che ciascuno può salvarsi nella sua religione, sia giudeo, cristiano o sabaita: Qui crediderint et iudaei et christiani et sabaitae in Deum, et fecerint bonum, ipsis erit merces apud Dominum; e poi nella Sura 3. dice il contrario: Et qui secutus fuerit aliam religionem praeter istam (cioè la maomettana), ipse in futuro seculo erit pereundus. I maomettani confessano queste contraddizioni, ma dicono che Dio stesso è stato quello che si è rivocato.
7. Dicono di più i maomettani che dopo morte nel sepolcro da due persone Moncker e Hakir hanno da essere pesate le opere di ognuno in due coppe di bilancia, che eguagliano la superficie del cielo e della terra. Dicono poi che vi è il ponte Sorat, dal quale i peccatori cadranno nell'inferno, dove gl'infedeli staranno per sempre; ma quelli che avranno creduto ad un Dio, vi staranno per qualche tempo, ma non più di mille anni, e poi passeranno alla casa della pace; ma prima d'entrare in questa casa beveranno l'acqua della piscina di Maometto perciò i maomettani si radono il capo, e vi lasciano una ciocchetta di capelli, sperando che per quella Maometto potrà cavarli dall'inferno. Essi sperano che almeno nel giorno del giudizio Maometto colle sue preghiere salverà tutti i suoi seguaci. Il paradiso poi che promette l'Alcorano, è un paradiso di cui si vergognerebbero anche le bestie: è un paradiso ove non vi sono altri piaceri che sensuali. Dice che ivi sono due orti ornati di alberi, fonti e pomi e donne, e che ciascuno avrà in cielo tante mogli, quante ne avrà avute in questa terra, e l'altre poi saranno concubine. Ecco come si scrive nella Sura 86. ed 88. : Ubi dulcissimas aquas, pomaque multimoda, fructus varios et decentissimas mulieres, omneque bonum in aeternum possidebunt. Avicenna maomettano, vergognandosi di tal promessa per la vita eterna, dice che Maometto in ciò avea parlato allegoricamente; ma l'Alcorano in niun luogo ammette questa spiegazione sognata da Avicenna. In quanto poi ai precetti naturali, l'Alcorano insegna: principalmente la legge della natura; scusa non però coloro che l'offendessero per causa di timore. Ammette (come già si è detto) l'avere più mogli, sino a quattro, purché possa conservarsi la pace con tutte, altrimenti ordina che se ne prenda almeno una, e concede il ripudio per due volte.
Proibisce poi il disputare sopra l'Alcorano e le scritture sacre; e ciò asserisce nelle Sure 22. e 29. essere precetto divino. Per altro con molta accortezza da questo impostore fu dato un tal precetto; giacché tutta la forza della sua legge è nell'ignoranza. Vi sono di più altre leggi positive di purificazioni, orazioni e limosine: di più del digiuno nel mese romadan e del pellegrinaggio alla Mecca. Si narra da un buono autore che Maometto mettea del grano dentro del suo orecchio, e che avea avvezzata una colomba a venire a beccarlo, affin da far credere agli altri che egli per tal mezzo era ispirato da Dio circa le cose che insegnava. Ed in conferma di ciò due maroniti presso Bayle dicono trovarsi nella Mecca alcune colombe, che dai turchi son rispettate come sacre, credendo essi che discendano da quella che parlava a Maometto.
8. Sicché non può esser vera la religione de' gentili, non quella de' giudei, non quella de' maomettani: dunque la cristiana è l'unica vera. Ma perché nella cristiana religione vi sono diverse chiese, che discordano dalla chiesa cattolica romana, vediamo per ultimo quale fra tutte sia la vera chiesa e per conseguenza la vera religione.
________________________________________
1 Maometto fu arabo di nazione, nacque nella Mecca nell'anno 571. Fu oriundo di famiglia nobilissima. Dopo la morte del padre fu applicato alla mercatura da' suoi parenti, attesoché prima fu educato in casa del suo avo e poi di un certo suo zio, dal quale di anni 13. fu condotto nella Siria. Ma di là ritornato nella patria d'anni 25, fu preso nella sua età d'anni 28 da una certa vedova nobile e ricca, chiamata Kadia, per suo fattore. Posto egli in questa condizione più alta cominciò a meditare di mutare e far mutar religione a tutta la sua patria, intendendo di liberare gli arabi dall'idolatria, nella quale egli era stato educato, e di restituire al mondo, come diceva, la religione primiera di Adamo, di Noè, di Abramo, di Mosè ed anche di Cristo, in somma di tutti i profeti del vero Dio; e perciò finse di aver colloquj coll'angelo Gabriele nella grotta d'Hira, che non era molto distante dalla Mecca, dove spesso si ritirava.
Essendo poi d'anni 40, ed essendo stato sino a quel tempo idolatra, si assunse l'officio di profeta, e per tale si fece tenere prima dalla sua moglie e da certi suoi parenti e domestici e poi da un certo Abubekero uomo di grande autorità, coll'aiuto del quale acquistò molti potenti paesani della Mecca. Dopo tre anni adunò in un convito 40 persone con Aly suo cugino, ed allora aprì la sua missione divina, come diceva. Ma da tutti, fuorché da Aly, fu allora deriso. Egli nulladimanco, non perdendosi d'animo, costituì Aly suo vicario, e cominciò a predicare in pubblico nella Mecca, dove fu a principio udito da' suoi paesani; ma quando poi si pose a riprovare i loro dei, lo perseguitarono a morte, e solo un certo Abotaleb colla sua autorità e prudenza lo liberò; ma i meccani stabilirono di non avere più commercio né con Maometto, né co' suoi aderenti. Egli non però avendo in questo tempo composta già parte dell'Alcorano, spesso provocava i suoi avversarj a formare alcuna parte simile, dicendo che non avrebbero mai potuto comporne un solo capitolo. E richiedendo coloro alcun miracolo della sua missione, rispondea ch'egli era stato mandato da Dio non a far miracoli, ma solo a predicar la verità.
Dicono per tanto i maomettani che il miracolo del legislatore è stata la propagazione della loro legge fatta nella massima parte del mondo. Ma a ciò si risponde che non può dirsi miracolo il vedere abbracciata una legge, per cui si vive più secondo il piacere de' sensi, che secondo la ragione. Oltreché questa propagazione fu fatta nell'Arabia, ove la massima parte era di gentili, vi erano pochi cristiani, e gli altri erano giudei o eretici ariani e nestoriani, fuggiti colà per gli editti degl'imperatori, ed in tutti poi regnava una somma ignoranza. Un tal miracolo bensì è avvenuto nella propagazione del vangelo, che insegna una legge opposta agli appetiti carnali. Con tutto ciò Maometto pure vantava di aver fatto un gran miracolo (ma miracolo d'un buffone per la scena): diceva nell'Azoara 64 del suo Alcorano, che essendo caduto un pezzo di luna nella sua manica, egli ebbe l'abilità di racconciarlo: che perciò poi l'imperio de' turchi porta l'impresa della mezza luna.
Indi, essendo morti la sua moglie Kadia e l'amico Abotaleb, Maometto nell'anno decimo della sua finta missione si vide abbandonato quasi da tutti; onde fu costretto a ritirarsi dalla Mecca in Tayef, luogo distante 60 miglia. Ma dopo un mese tornò alla Mecca, e si pose sotto la protezione di Al-Notaam Abn-avi. Nell'anno duodecimo cacciò fuori la favola del suo viaggio notturno in Gerusalemme e di là in cielo; ma questa favola parve così ridicola, che sarebbe rimasto affatto abbandonato da tutti, se un certo Abu-ker non avesse detto ch'egli non poteva negare la sua fede a Maometto. E nello stesso duodecimo anno si strinsero con giuramento a Maometto molti della città di Medina, e tra questi il principe della tribù detta Avos. Maometto avea dichiarato di non aver altro comando da Dio, che di predicar la verità, ma non di forzare gli uomini a crederlo; ma essendo di poi fuggito da Medina per evitar la morte macchinatagli dai meccani, dichiarò egli il precetto di perseguitare colle armi gl'infedeli, e colle vittorie propagar la fede, e d'indi in poi visse sempre in guerra, alle volte perdendo, ma più spesso vincendo.
Andò appresso con 1400 soldati alla Mecca, ed ottenne una tregua co' nemici, ma col patto che gli concedessero il potersi con esso arruolare quei che voleano seguirlo. Scrisse poi lettere al re di Persia, dell'Etiopia e di Roma, e gl'invitò ad abbracciare la sua religione. Indi si fece signore della Mecca: donde avendo scacciata l'idolatria, piantò la sua setta; e nell'anno seguente ricevette gli ambasciatori da tutte le tribù dell'Arabia, le quali, vedendo soggiogata la tribù più potente di tutta la nazione, abbracciarono l'Alcorano. Finalmente Maometto nell'età di sessentatré anni morì, e si dice morto di veleno.

venerdì 23 luglio 2010

“Storia di Rosa e delle sezioni Pci” di Mario Pintagro (la Repubblica, 10 luglio 2010)


C’è un tempo per ogni cosa. A leggere “Un miscelino per Rosa. Storia d’amore e di passioni” (pubblicato dalle Edizioni La Zisa), opera autobiografica di Sergio Infuso, sembra di percepire una città diversa dall’attuale, una città in cui lotta, speranza, cambiamento erano termini proponibili e declinabili in varie forme. E’ il racconto di una storia d’amore, ma anche di battaglie civili condotte per migliorare un pezzo di città tra i tanti. Infuso racconta di Rosa Priolo, moglie, madre, compagna di mille battaglie politiche. Rosa è un’operaia tessile, ma è soprattutto una donna energica, impegnata nel sociale. E’ un racconto toccante che s’intreccia con trent’anni di storia cittadina. Dagli anni bui della città trasformata in un’enorme fungaia cementizia assediata dalla mafia a quelli della “Primavera di Palermo”, che lasciano intravedere la possibilità di una svolta. Cuore delle battaglie è la storica sezione del Pci, poi Pds, oggi Pd, della Noce.
Da quel piccolo circolo nasce l’idea dell’Associazione per la pace, contro la mafia, per i diritti del cittadino che rappresenta ancora oggi un modello di dialogo con le istituzioni, un esempio di democrazia dal basso, mai visto a Palermo. E adesso che Rosa non c’è più rimane questo patrimonio di esperienze e battaglie che non va dimenticato e che anzi va trasmesso alle generazioni future perché comprendano l’enorme valore delle idee. Il libro si apre con una bella presentazione di Rita Borsellino, testimone di alcune battaglie, ben prima della sua discesa in politica.

Le Edizioni La Zisa aderiscono ad Addiopizzo e a Libera di don Luigi Ciotti e tutti i volumi pubblicati sono certificati "pizzo free".

Sergio Cristoforo Infuso, “Un miscelino per Rosa. Storia d’amore e di passioni”, Edizioni La Zisa, pagg. 176, euro 14,90

giovedì 22 luglio 2010

IL CATTOLICESIMO CONTEMPORANEO NEL VOLUME DEL GIORNALISTA PALERMITANO DAVIDE ROMANO


Il cattolicesimo di oggi fra la Sicilia e l’Italia
di Marta D’Auria

Qual è il volto del cattolicesimo contemporaneo? Davide Romano, giornalista, specializzato in informazione religiosa, prova a darcene un ritratto attraverso una raccolta di articoli e inchieste svolte fra il 2000 e il 2005 che vanno a formare il suo ultimo lavoro. In questo agile volumetto l’autore affronta temi quali i rapporti fra chiesa cattolica e potere politico, fra chiesa e mafia, chiesa e libertà individuali, chiesa e sessualità. Tematiche che si sviluppano attraverso le voci di teologi, vescovi, politici, o semplici uomini e donne intervistati che danno un’istantanea della chiesa cattolica ben lontana dalla realtà monolitica che in queste ultime settimane le alte sfere del Vaticano vorrebbero riaffermare e rafforzare. Con sguardo oggettivo, con una scrittura scorrevole e con un registro che non indulge mai alla polemica, Romano fa lavoro giornalistico: ricostruisce gli avvenimenti, scrive notizie, fatti, mosso dall’amore per la verità. «Sono stato educato – dice nell’introduzione – alla scuola di maestri, di vita e di studi, che mi hanno insegnato che nulla è più esaltante e nobile della ricerca della verità, una verità umana naturalmente, che talvolta si rivela anche fin troppo umana. Quella che i giornalisti chiamano semplicemente “la notizia”».
Lo sguardo di Romano si muove con padronanza su due livelli: quello locale e quello nazionale. Sul versante locale, il contesto è quello della sua terra: la Sicilia, dove i rapporti tra Chiesa cattolica e mafia assumono atteggiamenti ambivalenti, che vanno dal silenzio alla denuncia, dalla complicità all’impegno, dalla condivisione alla condanna. Accanto al bel ritratto di don Nino Fasullo, voce che si leva per denunciare le collusioni con il potere mafioso e per invocare una società più giusta, vanno segnalati due documenti inediti presenti nel volume. Si tratta di due interventi di mons. Angelo Rizzo in difesa del deputato democristiano Calogero Volpe, definito dagli inquirenti referente politico della cosiddetta «mafia del Vallone», che sono utili documenti per individuare gli intrecci esistenti tra Cosa nostra, gerarchia cattolica siciliana e partito della Democrazia cristiana.
Sul versante nazionale sono di grande attualità le pagine in cui Davide Romano rintraccia il legame esistente fra «nuova-vecchia» destra e ultra-tradizionalismo cattolico. Romano ricorda che quella «fusione» ricevette grande impulso dalla minoranza ultraconservatrice che si oppose al Concilio Vaticano II, capeggiata da Marcel Lefebvre, «portavoce intransigente della cosiddetta “Tradizione”, simboleggiata dal rito eucaristico redatto da Pio V, contro la “nuova Messa” di Paolo VI» (p. 52).
Gli articoli si susseguono agevolmente e Romano passa con disinvoltura dal nazionale al locale. Una chicca l’articolo in cui racconta di quando – siamo a Palermo nel 2000 – riesce ad intrufolarsi tra i partecipanti ad un incontro a porte chiuse organizzato dall’ala movimentista di Alleanza nazionale, su «la Chiesa davanti alla modernità», relatore don Fausto Buzzi, seguace del vescovo scomunicato Lefebvre. Buzzi non ha dubbi sui mali che hanno colpito la Chiesa: la Riforma protestante, il Risorgimento, il comunismo, infine il Concilio Vaticano II dove si parlò di «eresie» come l’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità episcopale. Se le chiese e i seminari teologici sono vuoti – continua don Buzzi nel racconto di Romano – è perché lì «s’insegna il protestantesimo» e perché la «nuova messa non è altro che una conferenza, non è nemmeno più una messa. Non è valida. Solo quella secondo il rito di san Pio V è vera messa. La nostra. E speriamo di poterla tornare a celebrare, dopo quarant’anni anche a Palermo» (pp. 60-61).
A cinque anni di distanza da quelle sortite, la messa in latino è stata ristabilita motu proprio da Ratzinger, e un documento della Congregazione per la dottrina della fede ha affermato che solo la Chiesa cattolica possiede «tutti gli elementi della Chiesa istituita da Gesù», ridimensionando le aperture del Concilio Vaticano II che avevano incoraggiato il cammino ecumenico. Le posizioni reazionarie all’interno del cattolicesimo escono fuori dalle nicchie e si fortificano. Ma il volume di Davide Romano presenta il volto composito dell’universo cattolico che, ora più che mai, va riscoperto.

DAVIDE ROMANO (Palermo), giornalista, scrittore ed editore. Ha scritto e scrive per numerose testate, tra le quali: Il Giornale di Sicilia, Il Mediterraneo, La Repubblica, Centonove, Antimafia2000, L’Ora, La Rinascita della Sinistra, Jesus, Avvenimenti, L’Inchiesta Sicilia, Narcomafie e Riforma. È stato anche fondatore e direttore responsabile del bimestrale di economia, politica e cultura Nuovo Mezzogiorno e del mensile della Funzione Pubblica Cgil Sicilia Forum 98.
Ha pubblicato: L’amore maldestro (2001), La linea d’orizzonte tra carne e Cielo (2003), La buriana e altri racconti (2003), Nella città opulenta. Microstorie di vita quotidiana (2003, 2004), L’anima in tasca (2004), Piccola guida ai monasteri e ai conventi di Sicilia (2005), Il santo mendicante. Vita di Giuseppe Benedetto Labre (2005), Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera (2005) e La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo contemporaneo (2007). Ha curato l’antologia Nuova Poesia (2008) e l’opera del dirigente comunista Girolamo Li Causi, Terra di frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-60 (2009).

"Per una società alternativa" di Davide Romano


La democrazia, per la sua fragilità intrinseca, ha bisogno di essere alimentata di continuo a tutti i livelli, con l’innovazione nelle forme che la regolano, con l’allargamento di poteri e decisioni reali a più larghe fette di cittadini, e con la difesa dai pericoli che la minacciano so-prattutto nei ricorrenti periodi di crisi economiche ed istitu-zionali, o di conflitti tra nazioni. La democrazia per funzio-nare deve essere “sentita” come la propria àncora insostitui-bile da tutti i cittadini, e per ottenere questo risultato non può ripiegare soltanto ed esclusivamente sui principi cosid-detti liberali, ma sostanziarsi anche dei valori comunitari di giustizia, di eguaglianza, di umanesimo solidaristico propri dei movimenti socialisti. È sempre più evidente che la de-mocrazia così com’è strutturata oggi viene dipinta e inter-pretata come un orpello del passato, incapace di reggere le sfide tra gli Stati. La si accusa spesso, in perfetta malafede, di avere tempi decisionali lunghi, paragonandola ai ritmi frenetici di una impresa. In realtà le moderne democrazie non sono avvertite come insostituibile regime di libertà pro-prio perché sono piene di ingiustizie e si vanno sempre più ripiegando su se stesse, fino ad essere percepita dai cittadini come luogo di gestione dei privilegi per pochi ed esclusione sociale per molti, soprattutto donne, bambini, immigrati, ri-fugiati.
Le democrazie rischiano in sostanza di chiudersi sul ver-sante dei diritti e di lasciare ai soggetti forti dell’economia campo libero nel gestire sempre più spazi di vita, di sociali-tà e di organizzazione politica. È decisivo pertanto trasfor-mare le nostre democrazie, ripensarle radicalmente per veri-ficarne i contenuti di fondo e rivederne i meccanismi deci-sionali e partecipativi. Nel contesto attuale si stanno pro-gressivamente affermando due bisogni che incalzano le de-mocrazie e le spingono a ridefinirsi. Sono due bisogni che possono restringere gli spazi di democrazia quanto allargar-ne gli orizzonti ed i livelli: il bisogno di territorialità e quel-lo di globalizzazione. Ognuno di questi bisogni trascina con sé aspetti positivi e negativi.
La sfida alle democrazie è aperta. Iniziamo ad interro-garci sul bisogno di territorialità che emerge dall’umanità. Un approccio negativo crea il rischio di trasformare la terri-torialità in localismo chiuso, asfittico e portatore di ingiusti-zia. Ci sono culture politiche che interpretano, ad esempio, le diversità religiose e le caratteristiche storico-culturali, so-ciali e linguistiche di ciascun sistema locale come apparte-nenza chiusa, che respinge qualunque apertura, culturale o sociale: una sorta di etno-centrismo razzista, integralista ed auto-esaustivo. Quest’idea di territorio abbassa i profili del-la democrazia, in molti casi li nega e chiude il territorio a quei valori di pace, di sviluppo dei diritti umani, di crescita dell’uguaglianza e della partecipazione democratica. Si può anche arrivare al punto che la propria specificità territoriale, vissuta come appartenenza totalizzante, giustifichi alleanze con le mafie locali e la negazione dei diritti umani si traduca nel proliferare di forze politiche e sociali contro i flussi de-gli immigrati, contro il pluralismo culturale, religioso e poli-tico.
Ma ci può essere un’altra idea più positiva della dimen-sione territoriale. Un’idea che valorizzi la propria specificità locale, la propria tradizione per costruire un’identità aperta, per creare una nuova socialità, per dare alla propria vita un orizzonte non massificato e omologato dai consumi e dai modelli culturali imposti dalle multinazionali. La storia, l’arte, la cultura, le lingue, i dialetti, le differenze religiose e sociali devono diventare un punto di partenza per aprire le porte della propria identità e spingerla a mettersi in cammi-no con altre culture e identità per arricchire il proprio oriz-zonte sociale, economico e politico di quei valori di fondo che bisogna sempre più condividere: la pace, la giustizia so-ciale, i diritti umani. Territorio aperto che diventa in demo-crazia centralità della città, dei municipi. Centri piccoli e grandi che cooperano ed incidono positivamente sulla vita dei cittadini. Città che sviluppano l’autogoverno locale, la partecipazione dei cittadini, la capacità di saper coinvolgere attivamente la propria comunità nell’autosviluppo locale.
Un’altra sfida alla democrazia è lanciata dalla globaliz-zazione; anche questa, come i “social forum” in varie parti del mondo stanno sempre più approfondendo, può avere un doppio esito: negativo o positivo. Attualmente nel mondo sembrano prevalere soltanto gli effetti negativi, per cui la globalizzazione fa condividere agli uomini, alle donne e ai bambini, ai lavoratori e ai disoccupati, ai poveri ed agli e-sclusi meno diritti, meno uguaglianza, meno pace. La realtà si è dimostrata più crudele ed oggi la modernizzazione si avvia progressivamente a produrre e a convivere con forti processi di esclusione sociale, economica e politica.
Per molti Paesi, soprattutto quelli del sud del mondo, la globalizzazione si è rivelata un boomerang dalle conse-guenze catastrofiche sui propri sistemi produttivi, sulle con-dizioni di vita di milioni di esseri umani e sull’equilibrio degli eco-sistemi. La globalizzazione sta schiacciando la democrazia e sta facendo crescere nel panorama economico mondiale colossi economico-finanziari che impongono mo-delli di sviluppo distruttivi per l’umanità e per l’ambiente. Anche le mafie si sono globalizzate e riescono ad imporre il narcotraffico, la gestione dei rifiuti radioattivi, il commercio delle armi e persino il traffico degli esseri umani fino a de-terminare una nuova schiavitù di milioni di donne, bambini e lavoratori, come ha documentato un’inchiesta in Italia del-la Commissione parlamentare antimafia del 2000.
Occorre allora costruire un’altra idea di globalizzazione che sia realmente in grado di governare i processi economi-ci e sociali sotto il segno di valori positivi: la globalizzazio-ne deve diventare una risorsa della democrazia che contri-buisca a far crescere la pace, i diritti umani, ampliare gli spazi di libertà, combattere le mafie ed eliminare le cause sociali, economiche e politiche che in più parti del mondo determinano il terrorismo e violenti conflitti.
La democrazia si è storicamente sposata con gli Stati-nazione, che oggi rappresentano il livello più in crisi delle democrazie. Dare un esito positivo al bisogno di territoriali-tà richiede innanzi tutto di innalzare il livello delle demo-crazie nel territorio attraverso l’autogoverno delle città, il collegamento e la cooperazione tra le comunità locali, così pure per dare una svolta radicale all’attuale globalizzazione si devono costruire livelli di democrazia mondiale che siano in grado di arricchire l’umanità, combattere le povertà e l’esclusione sociale, garantire a tutti l’accesso alle risorse idriche, al cibo, alla casa, alla cura delle malattie, ai nuovi diritti della sicurezza sociale, dell’informazione e dell’ambiente. Una nuova territorialità e una nuova globa-lizzazione devono diventare le gambe forti delle democra-zie. Ma quale sia il percorso ottimale e quale la meta finale sono temi in discussione sui quali ancora oggi le diverse o-pinioni appaiono molto confuse. Per quel che ci riguarda proviamo a sintetizzare in quattro i punti fondamentali su cui ogni democrazia deve poter incamminarsi: pace, svilup-po sostenibile, decisione democratica e partecipazione poli-tica.
Le democrazie non possono più produrre guerra. È sem-pre più evidente che la guerra sia di per sé la negazione del-la democrazia. La recente guerra in Iraq ha fatto emergere almeno sette gravi questioni:
1. la negazione del valore della pace, ampiamente rico-nosciuto nella costituzione di molti paesi e sancito nel dirit-to internazionale, e l’imposizione della terribile dottrina del-la guerra preventiva;
2. l’inutilità della stessa guerra che non ha dato soluzio-ne ai gravi e drammatici problemi dell’Iraq, paese che oggi versa in uno stato di aggravamento delle proprie condizioni, con numerose difficoltà nell’avviare un percorso veramente democratico;
3. la riduzione dei livelli di trasparenza e di democrazia soprattutto negli Stati Uniti ed in Inghilterra, al punto tale da costruire e diffondere false notizie sul presunto possesso da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa. A tal pro-posito il New York Times del 14 giugno 2003 si è espresso in questo modo: “quello degli arsenali di Saddam è il peg-gior scandalo della nostra storia politica”;
4. la crescita del terrorismo. La guerra non può rappre-sentare uno strumento per combattere il terrorismo, anzi ne alimenta le ragioni e ne rafforza il consenso tra le popola-zioni fino al punto di creare un radicamento del terrorismo in ampi territori. Solo la pace e la rimozione delle cause del terrorismo possono essere considerate una soluzione alle di-verse questioni tuttora aperte nel mondo, come, ad esempio, nel conflitto israeliano-palestinese;
5. la crescita dei fondamentalismi religiosi. La guerra crea il “brodo di coltura” per la diffusione ed il radicamento dei fanatismi religiosi. In ogni fede esistono diversi approc-ci teologici e culturali e diverse espressioni nei modi di pen-sare e praticare la propria esperienza spirituale. La guerra alimenta le componenti più integraliste, spinge interi Stati o vasti strati di popolazione verso chiusure auto-referenziali di portata preoccupante. Soltanto la pace apre al dialogo, all’ecumenismo e ad un rapporto tra la fede e la vita fecon-do, ricco di umanità e d’impegni per la promozione umana non disgiunta dalla crescita della giustizia. La scelta di papa Giovanni Paolo II di schierarsi per la pace ha contribuito ad evitare un esito, ancor più nefasto, nel complesso e trava-gliato contesto islamico con tutti i rischi dell’accendersi dell’idea dello scontro tra religioni e tra civiltà;
6. la guerra alimenta la crescita delle mafie e del narco-traffico. Le mafie ed il narcotraffico sono oggi una piaga dell’umanità, in grado purtroppo di influenzare pesantemen-te la vita di milioni di uomini e donne e riescono ad eserci-tare forti pressioni nei confronti della politica e dell’economia. In Italia, nonostante i duri e ripetuti colpi subiti, la mafia è ancora potentissima, al punto da condizio-nare ancora oggi ampi settori delle istituzioni e dell’imprenditoria. Stesso ragionamento vale per tanti altri paesi. Sottolineiamo in modo particolare la presenza della mafia nei Balcani. Dopo i controversi conflitti che si sono succeduti in quest’area geografica, la mafia del narcotraffi-co, del contrabbando di sigarette e del traffico di esseri u-mani è diventata così forte da determinare l’assassinio, in un attentato, del primo ministro serbo, oltre che collocarsi in alcuni Stati ai vertici di governo. Alcuni studiosi del feno-meno mafioso hanno coniato la parola “Stato-mafia” per in-dicare quanto sta avvenendo di così grave nei Balcani. An-che in Afghanistan oggi il narcotraffico è cresciuto e dopo la guerra milioni di ettari in più sono stati utilizzati nella produzione dell’eroina. Per quanto riguarda la cocaina, le mafie della Colombia, grazie anche alla guerra, sono ancora forti e stanno di nuovo organizzando cartelli di aggregazio-ne dei vari boss locali. Di recente in Italia si è potuto accer-tare il loro continuo collegamento con la mafia siciliana e calabrese, riuscendo a far entrare in Europa migliaia di chili di cocaina e a riciclare il denaro “sporco” in diversi istituti bancari e finanziari situati in Europa e nei diversi “Paesi off-shore” o cosiddetti “paradisi fiscali”;
7. la guerra ha prodotto una pericolosa crisi dell’ONU. Con la guerra preventiva all’Iraq gli Stati Uniti hanno ab-bandonato la struttura che la comunità internazionale si era data a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Que-sta struttura era incentrata sull’Organizzazione delle Nazio-ni Unite e si fondava sul divieto della guerra come metodo per risolvere i conflitti tra Stati. Gli Stati che hanno retto il sistema ONU negli ultimi cinquant’anni possono essere cer-tamente criticati sotto diversi punti di vista, ma oggi l’amministrazione Bush rimette in discussione l’essenza stessa dello sforzo di creazione di un autogoverno interna-zionale: la decisione di muovere una guerra preventiva con-tro l’assenza di una minaccia diretta viola il principio di non ricorso all’uso della forza e rischia di distruggere il residuo di autorità delle Nazioni Unite.
Questa politica è stata del resto già anticipata dalla forte e devastante opposizione dell’attuale governo americano ai più importanti trattati multilaterali formulati negli ultimi anni: il protocollo di Kioto, la moratoria sui test nucleari, il protocollo aggiuntivo alla convenzione sulle armi biologi-che, il Tribunale penale internazionale. Se questi strumenti fossero stati ratificati e consolidati il mondo oggi sarebbe più sicuro. In sostanza la guerra uccide umanità, valori, cul-tura e ambiente, spinge i popoli verso i fondamentalismi, occulta e manipola i problemi reali e primari quali le pover-tà, le ingiustizie e le disuguaglianze. La guerra è la sconfitta della politica e della democrazia. Naturalmente la pace im-pone faticosi sforzi per diventare cultura e pratica nella vita quotidiana, nei rapporti tra le persone, le famiglie, le comu-nità, cultura e pratica nella gestione dei conflitti internazio-nali.
La democrazia ha bisogno di più pace. Come hanno di-mostrato in tutto il mondo milioni di cittadini organizzati nei diversi e plurali movimenti della pace insieme a voci au-torevoli come quella del Papa e di altri capi religiosi che si sono levate contro la guerra. Così a livello internazionale si avverte sempre più pressante l’esigenza di una riforma radi-cale dell’ONU che dovrebbe giungere a contenere tre diver-si livelli decisionali in grado di interagire tra di loro: i go-verni, i parlamenti e la società civile organizzata. Non solo. Questi tre livelli debbono cooperare tra loro ed essere tutti e tre in grado di gestire le problematiche mondiali di più am-pio respiro. L’ONU così riformata deve intervenire su tutti i teatri di conflitto locali così come in Colombia. L’Organizzazione delle Nazioni Unite deve aprire dei tavoli di dialogo, incentivare gli accordi, denunciare e penalizzare la negazione dei diritti umani. Da qualunque parte siano causate.
Il nostro modo di vivere, di consumare, di comportarci, decide la velocità del degrado entropico, la velocità con cui viene dissipata l’energia utile e il periodo di sopravvivenza della specie umana. Si arriva così alla necessità di far emer-gere le democrazie come promotrici del concetto di sosteni-bilità, intesa come insieme di relazioni tra le attività umane e la biosfera, con le sue dinamiche generalmente più lente. Queste relazioni devono essere tali da permettere alla vita umana di continuare, ai cittadini di soddisfare i loro bisogni e alle diverse culture di svilupparsi, ma in modo tale che le variazioni apportate alla natura dalle attività dell’uomo stia-no entro certi limiti così da non distruggere il contesto biofi-sico globale. Se riusciremo ad arrivare ad un’economia da equilibrio sostenibile, le future generazioni potranno avere almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto: è un rapporto tra economia ed ecologia, in gran parte ancora da costruire, che passa dalla strada dello sviluppo sostenibile. È tempo pertanto di costruire percorsi democra-tici di governo dello sviluppo in grado di rompere i mono-poli dei brevetti nelle mani di alcune “corporations” o co-lossi finanziari.
Nel campo della sanità, solo per citare un caso, i vari si-stemi di brevettazione oggi causano la morte di milioni di africani impossibilitati ad accedere ai farmaci antivirali per la cura contro l’AIDS. In Mozambico, ad esempio, il 16 per cento della popolazione è colpita dall’HIV e l’aspettativa di vita è scesa a 41 anni. Sono necessari dai 15.000 ai 25.000 dollari per una cura annuale di farmaci “antiretrovirali bre-vettati”, mentre è invece di 350 dollari il costo annuo di una cura con farmaci “antiretrovirali generici”. Valutazioni, queste, che sono il frutto dell’esperienza di associazioni di volontariato che in Mozambico stanno sfidando una multi-nazionale come la “Bigpharma”. Le regole ormai le cono-sciamo tutti, sette multinazionali detengono il monopolio dei brevetti sulle terapie anti-AIDS. L’incremento dei pro-fitti delle multinazionali farmaceutiche è stato del 20 per cento soltanto nel 2002. È ormai risaputo che i brevetti sui farmaci sono protetti dal WTO in base agli accordi TRIPS approvati nel 1994. Le case farmaceutiche hanno pertanto il monopolio sui farmaci brevettati per venti anni, fino al 2016 per le terapie anti-AIDS. Ma i bambini, le donne e gli uo-mini ammalati di AIDS cosa fanno?
Per le multinazionali farmaceutiche di fatto possono mo-rire. Lasciano semmai ad una piccola parte di popolazione qualche chance sottoponendola alla selvaggia sperimenta-zione per conto di qualche multinazionale. È bene anche ri-cordare che i paesi che hanno ratificato gli accordi TRIPS possono acquistare i farmaci anti-AIDS esclusivamente dal-le società titolari del brevetto, in caso contrario subiscono sanzioni commerciali. Va apprezzata, invece, la scelta del governo del Sud Africa che nel marzo 2001 si è scontrato nelle aule di giustizia contro le multinazionali per aver deci-so di produrre farmaci anti-AIDS. Dopo le proteste interna-zionali, le società si sono ritirate dal processo. Ricordiamo, inoltre, che Brasile, India e Thailandia hanno cominciato a produrre autonomamente i farmaci senza ratificare gli ac-cordi TRIPS ed hanno rifiutato compromessi con le multi-nazionali. È chiaro ormai che queste regole sui brevetti deb-bano essere radicalmente riviste. Ma una soluzione in que-sto senso è stata bocciata lo scorso dicembre dal governo americano.
Lo sviluppo sostenibile deve rompere con questo model-lo di organizzazione dei brevetti. E lo stesso lavoro bisogna fare nel campo dell’agricoltura bloccando le manipolazioni genetiche e favorendo le coltivazioni biologiche. Pensiamo alle enormi possibilità di sviluppo che si possono avere nell’agricoltura biologica, nell’agriturismo biologico, nel commercio “equo e solidale”, nell’accesso al credito dei piccoli produttori di beni e servizi. Così bisogna agire anche nell’ambito della gestione delle risorse idriche, dell’accesso alla casa, al cibo, all’informazione, all’istruzione e alla ri-cerca scientifica. Per fare un esempio la FAO, all’ultimo vertice di Roma, ha chiesto 24 miliardi di dollari per dimez-zare la fame nel mondo entro il 2015. Ma i Paesi ricchi d’Occidente non sono disposti a dare neppure queste bricio-le. Confrontiamo questi 24 miliardi con i quasi 500 miliardi di dollari che costituiscono il bilancio delle spese militari USA per il 2003. Siamo di fronte non solo ad una gigante-sca sproporzione nella distribuzione delle risorse, ma ad una trasformazione epocale da uno Stato liberale e sociale ad uno Stato militarista.
Tutto ciò richiede una rottura progettuale di enorme ge-nialità. Non sarà un lavoro facile. Ma intanto bisogna inizia-re. Si potrebbe partire dalla costituzione di nuove autorità indipendenti da inserire all’interno dell’ONU riformata, in cui in modo paritetico governi, parlamenti e movimenti del-la società civile organizzata possano creare le nuove regole di base per ridurre progressivamente il commercio delle ar-mi, combattere lo sfruttamento del lavoro minorile, creare le condizioni di pari opportunità salariali tra i lavoratori e tra gli uomini e le donne, di accesso al lavoro, di crescita pro-fessionale, di promozione dei diritti umani, sociali e politici. Devono essere autorità indipendenti con poteri forti, in gra-do di definire la base minima cui ogni paese deve attenersi nei campi appena richiamati. È necessario che queste autori-tà abbiano anche le risorse economiche per poter intervenire adeguatamente, sperimentando ad esempio la Tobin Tax sul-le transazioni finanziarie internazionali.
Troppe decisioni sono espressione della volontà di una minoranza di persone, anzi la maggioranza delle decisioni sono prese da soggetti esterni alla democrazia: la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario, ad esempio, decidono i destini dell’umanità seppur privi di legittimazione democra-tica.
Gli accordi commerciali, le multinazionali, i circuiti dell’economia finanziaria sono sempre più determinanti e agiscono al di fuori di qualunque controllo democratico. Stesso ragionamento è estendibile ad altri versanti. Ci rife-riamo, ancora una volta, al ruolo svolto dalle mafie che sempre più sono in grado di movimentare risorse e condi-zionare il destino di tanti uomini e donne, di intere comuni-tà. Basti pensare a quello che riescono oggi a fare nel campo dei circuiti finanziari internazionali: in pochi minuti deter-minano lo spostamento ed il riciclaggio di tali flussi di de-naro e di titoli così da aggirare e schiacciare qualunque con-trollo o esercizio della sovranità nazionale di qualunque pa-ese nel mondo. Bisogna organizzarsi per evitare tutto ciò, per fare in modo che siano le strutture a base democratica a decidere i destini del mondo e ridare così alla politica de-mocratica la sua dovuta centralità. L’idea di democrazia li-berale non è in grado di affrontare questo complesso e fati-coso compito. Della democrazia liberale dobbiamo mante-nere ferma la cosiddetta divisione dei poteri, garantendo so-prattutto piena autonomia e indipendenza alla magistratura. Il resto è da rinnovare attraverso una ridefinizione dei poteri a vantaggio della partecipazione dei cittadini organizzati.
Ma è anche necessario ridefinire l’accesso all’informazione. Oggi anche questa è nelle mani di pochi. È necessario anche costruire una forte democrazia dal basso per consentire ai cittadini, alle organizzazioni sindacali, ai movimenti e alle associazioni di partecipare alla costruzione dei bilanci delle città e di essere coinvolti negli interventi di promozione di tutti i diritti come pure nella crescita delle piccole e medie imprese e dell’autosviluppo locale. Biso-gna, inoltre, costruire, ampliare lo spazio della decisione democratica creando delle forti unità sociali, economiche e politiche tra i paesi omogenei, come sta avvenendo in Euro-pa. Bisognerebbe fare lo stesso in America Latina, in Africa e nel Sud-est asiatico. Avremo in questo modo più poli, più democrazia e più chance per la pace e per i diritti umani. La globalizzazione ci impone di collocare la crescita della de-mocrazia in contesti sempre più ampi. Nella difesa degli Stati-nazione non c’è un adeguato spazio politico, sociale ed economico per ottenere dei risultati positivi. Soltanto in contesti più estesi ed omogenei è possibile realizzare rifor-me strutturali e positive per i diritti dei lavoratori e per la lotta alle numerose forme di esclusione sociale e alla distru-zione dell’ambiente.
Solo in questi nuovi contesti politici di aggregazione tra gli Stati è possibile realizzare nuovi livelli di crescita eco-nomica in coerenza con lo sviluppo sostenibile e con la promozione di tutti i diritti. In tal modo possono riprendere con forza nella società nuova cammini post-ideologici di cambiamento e miglioramento dell’umanità. In sostanza la decisione democratica passa attraverso un salto di qualità da far fare alla democrazia della rappresentanza.
Non è sufficiente lavorare sulla democraticità delle deci-sioni per ridare forza e ruolo alle democrazie; né avere delle istituzioni più democratiche nelle città e nei circuiti della globalizzazione; né, ancora, integrare la democrazia della rappresentanza con la democrazia partecipata. Occorre pun-tare molto sulla partecipazione politica democratica che de-ve maturare e crescere attraverso la “riforma della politica”. Non ci riferiamo tanto agli aspetti istituzionali o legislativi. Quanto, piuttosto, alla politica organizzata dai partiti e dai movimenti. Perché la politica così com’è non è in grado di costruire la democrazia. Anche la politica necessita di una radicale riforma nei valori che la caratterizzano, nei soggetti che la praticano, nei livelli organizzativi che la strutturano, nella progettualità in cui si concretizza.
La politica si è sempre più impoverita e molti cittadini le voltano le spalle tenendosi lontano dalla militanza e dalla partecipazione. Essa viene percepita, spesso a ragione, come luogo dell’inganno, della corruzione, degli intrighi, delle incoerenze. E così non si colgono più le differenze tra gli opposti schieramenti e tra i partiti. C’è poi una corsa al mo-deratismo piuttosto sfrenata ed ideologica. Si fa largo una sorta di rinuncia all’idea che la politica debba essere il luo-go in cui si contribuisce al cambiamento democratico della società.
In molti Paesi i leaders politici hanno conquistato i parti-ti, svuotandoli della parte sana della loro tradizione e della partecipazione degli iscritti, dei militanti e degli stessi citta-dini. Fino al punto da ritrovare in giro per il mondo partiti senza identità con a capo leaders dispotici guidati dai propri interessi economici e spesso accusati di avere rapporti con le mafie. La soluzione non può essere quella di voltare le spalle alla politica rinunciando all’impegno politico, così ripiegando nella presunta neutralità della società civile. Na-turalmente non si può neanche fare appello ad un generico impegno politico e ad un inserimento nella politica così co-me è. È necessario, invece, chiamare tutti a spendersi per la riforma della politica: una sfida sia per i partiti che per i movimenti.
I partiti non vanno cancellati, ma radicalmente riformati e ciò attraverso meccanismi aperti di selezione delle classi dirigenti, nonché attraverso una marcata ridefinizione della progettualità programmatica e la riorganizzazione e la ri-strutturazione dei vari livelli organizzativi. Le stesse asso-ciazioni ed i movimenti non debbono commettere l’errore di dare per scontata la propria capacità di innovazione politica. Anche queste realtà devono elaborare e praticare una pro-pria autonoma riforma della politica. Diventa fondamentale, ad esempio, elaborare e sperimentare percorsi concreti in cui si definiscano la crescita politica delle leaderships, la gestione delle differenze, del pluralismo e dei possibili con-flitti, del come progettare la propria presenza nel territorio e nella globalizzazione. In tal senso non mancano segnali po-sitivi che vanno arricchiti da itinerari formativi e da espe-rienze progettuali ed organizzative che sostituiscano il “fare per i cittadini” con il “fare con i cittadini”.
È tempo per ritornare all’impegno politico perché senza la partecipazione politica non saremo in grado di dare voce alle ansie e alle ingiustizie dell’umanità, così pure non sa-remo in grado di dare voce e rappresentanza alla speranza e all’innovazione presenti in qualunque parte del mondo.

Castelbuono (Pa) 24/07, Presentazione del libro di Anna Mauro “Stracchiolitudine” (Edizioni La Zisa)


Nell’ambito delle manifestazioni estive organizzate dal comune di Castelbuono, in provincia di Palermo, sabato 24 luglio, alle ore 22, nel cortile Dafne (dietro la fontana Venere Ciprea), naturalmente a Castelbuono, verrà presentato il libro “Stracchiolitudine”, pubblicato Edizioni La Zisa e giunto in pochi mesi alla seconda ristampa, della scrittrice, regista e attrice teatrale Anna Mauro.


Il LIBRO: Accanto al mondo dei potenti e dei conformisti ne esiste un altro parallelo. È il mondo degli invisibili, di tutti coloro che non hanno voce in capitolo, eppure eccedono nei gesti, nella voce, nell’uso delle parole, come a volersi imporre su una società che tende ad ignorarli e che per loro nutre un profondo disprezzo.
La protagonista, Franca, è una donna spassosa, esilarante, che ai margini della società non ci vuole stare “manco scannata morta” e che per questo decide, alla pari di politici, assassini e presentatori televisivi, di scrivere il suo libro per averlo pubblicato. Un solo, piccolo neo: è semianalfabeta...

L’AUTRICE: Anna Mauro, scrittrice, regista e attrice teatrale, nata e radicata a Palermo dal lontano 1957, dove vive ed insegna (per la precisione vive a casa sua ed insegna in un liceo cittadino) sostiene di essere l’unica eccezione che conferma la regola “L’ironia è delle persone intelligenti”. Si definisce scriborroica e femminopatica.

mercoledì 21 luglio 2010

Quel Belpaese visto da lontano nel nuovo libro di Davide Romano


Mass Media
Quel Belpaese visto da lontano
di Rossella Puccio (la Repubblica)

Davide Romano nel suo libro-inchiesta “Dicono di noi. Il Balpaese nella stampa estera”, pubblicato dalla Edizioni La Zisa (pp. 104; euro 10), indossa i deformanti occhiali dei colleghi d’oltralpe per capire come viene interpretata l’Italia fuori dai nostri confini. Aprono il libro le presentazioni di Rosalinda Camarda e di Pino Apprendi, poi lo stesso Romano definisce margini e fini della sua inchiesta: la spesso superficiale e contraffatta visione, della stampa straniera, sull’Italia. Il catalogo degli italici difetti, come sostiene l’autore, che si dipana da fenomeni di malversazione amministrativa a quelli di collusione mafiosa nel tempo, dall’Italia unita alla videocrazia berlusconiana. Un carosello di stereotipi che svoltano velocemente su vizi e virtù di un intero Paese. Romano taccia la velocità dolente dei colleghi stranieri, il loro approccio viziato e approssimativo al “caso” Italia, a cui sfugge il reale e dimenticato. E’ la “Repubblica delle banane”, come disse Eugenio Scalfari, soleggiata, contraddittoria e chiacchierata.

venerdì 9 luglio 2010

Palermo 16 luglio, Presentazione del romanzo di Annalisa Giordano, "La rosa del deserto", Edizioni La Zisa




La casa editrice La Zisa si tinge di rosa e lo fa inaugurando una nuova collana di romanzi diretti soprattutto al pubblico femmnile. La collana, che si chiama Le Rose, viene inaugurata dal romanzo di Annalisa Giordano, "La rosa del deserto" (pp. 192, euro 9,90), che sarà presentato venerdì 16 luglio, alle ore 16, nella suggestiva cornice della Sala delle Carrozze di Villa Niscemi (piazza Niscemi 1), a Palermo. A discuterne con l'autrice, giovanissimo assessore del comune di Campofelice di Fitalia (Pa), i giornalisti Alessia Franco e Davide Romano.


Il Libro: Che cosa hanno in comune una giovane e bella apprendista che muove i primi passi nel mondo della moda e il ricco figlio di un governatore? Complice la seducente Tunisia, le strade di Elisa e Shams - cresciuti in due mondi diversi e apparentemente destinati a rimanere tali – si uniranno indissolubilmente grazie a tanti momenti magici passati insieme. Un'avventura da non perdere per chi crede che anche il sogno più arduo da realizzare non sia impossibile.

L'autrice: Nata a Palermo il 28 gennaio 1984, Annalisa Giordano è cresciuta a Campofelice di Fitalia (Palermo). Dopo gli studi all’Istituto d’Arte di Monreale, dove si è diplomata in Arti Applicate, nel 2008 si è laureata come Progettista di Moda all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Appassionata fin dalla tenera età di romanzi rosa, la giovane autrice è al suo primo romanzo, che inaugura la collana Le Rose della casa editrice La Zisa.

giovedì 8 luglio 2010

Solidarietà delle Edizioni La Zisa alla giornalista Alessia Cannizzaro definita su Facebook “una ex-prostituta incazzata”

Un certo sig. Vito Introna, chiacchierando allegramente su Facebook con una certa Linda Rando, oltre ad insultare per l'ennesima volta la casa editrice e il suo staff (il direttore della stessa è stato, fra le altre cose, definito “tipografo scadente”, “rincoglionito” e “imbecille siculo”), si è permesso di definire la nostra autrice e amica, la giornalista Alessia Cannizzaro, "ex prostituta incazzata". Vorremmo esprimere ad Alessia tutto il nostro affetto e la nostra vicinanza per l'essere stata oggetto di tanta ingiustificata volgarità e informare il Sig. Introna e sodali che sosterremo l'azione legale che la Dott.ssa Cannizzaro intende intraprendere contro di lui e la Sig.na Rando per diffamazione.

mercoledì 7 luglio 2010

LIBRI, 'VINCOLI D'ONORE, STORIE E UOMINI DI MAFIA TRA NEW YORK E PALERMO' DI GIUSEPPE INCANDELA


E' in libreria il volume "Vincoli d'onore. Storie e uomini di mafia tra New York e Palermo" di Giuseppe Incandela, edizioni La Zisa.Molte tragiche vicende criminali che nell'ultimo sessantennio hanno occupato le prime pagine dei notiziari non solo nazionali, trovano la loro origine nel rinnovato patto tra la mafia siciliana e quella americana siglato nei primi anni del secondo dopoguerra. Soprattutto il traffico degli stupefacenti, per gli ingenti profitti che esso procura, ha messo in crisi vecchi e consolidati assetti delinquenziali, provocando di conseguenza una lunga catena di omicidi, sia all'interno delle famiglie mafiose, che nei confronti delle componenti istituzionali piu' determinate nella lotta al crimine organizzato.
Di volta in volta, l'alleanza tra le due mafie, nonostante le differenze strutturali che le contraddistinguono, e' servita anche di valido supporto nelle fasi critiche che entrambe hanno attraversato. In ultimo, gli USA sono diventati terra di esilio dei boss fuggiti dalla Sicilia all'indomani della guerra scatenata tra i clan negli anni '80. Il paventato ritorno degli "scappati" nell'isola sta pero' determinando un nuovo scontro tra favorevoli e contrari, i cui sviluppi ulteriori al momento attuale non e' facile prevedere.
Giuseppe Incandela vanta al suo attivo una lunga esperienza giornalistica iniziata quarant'anni fa sulle colonne del quotidiano palermitano L'Ora, e proseguita con la collaborazione alla sede palermitana dell'Agenzia Radiocor, diretta da Mauro De Mauro, a TVR Sicilia e al VideoGiornale. Attualmente conduce due rubriche sui canali del Centro Televisivo Palermitano. Tra le sue numerose pubblicazioni: Piero Gobetti e la Rivoluzione liberale (1961); I cattolici nella politica italiana dal 1919 al 1924 (1963); La politica delle chiacchiere (1966); Dalle strade alla storia (1966); Sospetti e veleni (1989); Gli anni che sconvolsero Palermo (2004); Il lungo fiume di sangue (2006); Anni Ottanta. Attacco della mafia allo Stato (2007); Morte di un Presidente. Inchiesta sul delitto Mattarella (2009).

martedì 6 luglio 2010

Davide Romano (”Riforma”) su “La mafia spiegata ai turisti



(da “Riforma”, 2 luglio 2010)

Augusto Cavadi, insegnante e giornalista palermitano, prova con il suo libricino “La mafia spiegata ai turisti” ( Di Girolamo, 64 pp, euro 5.90) a sfatare il mito della mafia e i luoghi comuni che l’accompagnano. Rispondendo alle tre domandi principali “Di che si tratta?, “C’è sempre stata?” e “Ci sarà per sempre?” l’autore scioglie equivoci, dubbi e paure della cultura popolare, attraverso un linguaggio semplice e il richiamo ai maggiori fatti di cronaca. La differenza tra “mafia buona” e “mafia cattiva”, l’immagine della Sicilia assimilata a quella del Far West, il rapporto Stato-Chiesa-mafia, questi sono solo alcuni dei temi trattati dall’autore, utilizzando la struttura e l’immediatezza dell’intervista come modello di comunicazione. I “turisti” del titolo non sono solo gli stranieri, ma anche gli italiani e i siciliani, spesso i primi a non essere informati sull’argomento. Questa lettura ha uno scopo preciso, la conoscenza come arma non-violenta, come speranza di legalità contro un fenomeno sociale, come quello mafioso, nocivo ma potente e ben radicato nel territorio italiano e non solo. L’opera è stata realizzata multilingue, proprio perché la mafia non è solo un problema italiano ma globale, e da qui nasce il bisogno d’istruire le società, dove la maggior parte degli individui sceglie di essere spettatore passivo. Inoltre nel volume è dedicato ampio spazio alla vita di Giuseppe Impastato, alla sua storia di figlio ribelle della mafia. Un capitolo che ha il potere di commuovere riportando dei dati storici, il cui susseguirsi dà il ritmo all’indignazione. Il libro dà anche una risposta d’autore alla domanda che ci si pone sempre, la mafia avrà mai fine? Dal testamento civile “Cose di cosa nostra” di Giovanni Falcone una risposta chiara: “Dovremo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi una fine”. (Davide Romano)

Girolamo Li Causi, “Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960”. A cura di Davide Romano, Edizioni La Zisa


Girolamo Li Causi, “Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960”. A cura di Davide Romano. Presentazione di Italo Tripi. Prefazione di Oliviero Diliberto, ed. La Zisa, pagg. 224, euro 9,90 (ISBN 978-88-95709-28-4)


Questa opera inedita di Girolamo Li Causi, terminata nel 1974, e non più rivista dall’Autore, è una lunga riflessione critica, ed autocritica, sull’attività svolta dal PCI e dalle classi dirigenti siciliane, negli anni della ricostruzione post-bellica, dai mesi immediatamente successivi allo sbarco delle truppe anglo-americane sino alla formazione dei governi Milazzo. Un arco di tempo lungo un quindicennio, durante il quale Li Causi assolse anche l’incarico di segretario regionale del partito. Da questo suo osservatorio privilegiato emerge il ritratto vivo e spesso pungente di uomini e vicende che hanno segnato la storia passata e presente dell’Isola.

GIROLAMO LI CAUSI (Termini Imerese 1906 - Roma 1977) è stato uno dei massimi dirigenti nazionali del Partito comunista italiano, al quale aderì giovanissimo poco dopo la sua fondazione. Parlamentare per diverse legislature, è stato per alcuni anni vice presidente della Commissione nazionale antimafia. Collaboratore e direttore di numerosi periodici, ha pubblicato: Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma, Editori Riuniti, 1974.
DAVIDE ROMANO (Palermo), giornalista. Ha scritto e scrive per numerose testate, tra le quali: Il Giornale di Sicilia, Il Mediterraneo, La Repubblica, Centonove, Antimafia2000, L’Ora, La Rinascita della Sinistra, Jesus, Avvenimenti, L’Inchiesta Sicilia, Narcomafie e Riforma. È stato anche fondatore e direttore responsabile del bimestrale di economia, politica e cultura Nuovo Mezzogiorno e del mensile della Funzione Pubblica Cgil Sicilia Forum 98. Con questa casa editrice ha pubblicato: L’amore maldestro (2001), La linea d’orizzonte tra carne e Cielo (2003), La buriana e altri racconti (2003), Nella città opulenta. Microstorie di vita quotidiana (2003, 2004), L’anima in tasca (2004), Piccola guida ai monasteri e ai conventi di Sicilia (2005), Il santo mendicante. Vita di Giuseppe Benedetto Labre (2005), Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera (2005) e La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo contemporaneo (2007).


Presentazione
di Italo Tripi

Il merito di ridare oggi voce ad un uomo politico come Girolamo Li Causi non risiede soltanto nella ricognizione storica di un periodo straordinariamente importante come il quindicennio 1944-1960, ma serve anche a mettere in luce il profilo e la consistenza di un politico lungimirante e tenace nel sostenere le ragioni di una scelta.
Il sempre più diffuso bisogno di “ritorno alla Storia” è indicativo delle difficoltà che stiamo attraversando e serve a recuperare il senso di un percorso, di un cammino, di una storia appunto che ci riguarda, ci appartiene.
La selezione degli scritti ad opera del curatore del libro che presentiamo mostra per intero la sua efficacia perché riesce a dare il senso di una stagione politica così ricca di avvenimenti che hanno visto la Sicilia al centro della storia nazionale come nel caso dello straordinario movimento contadino, della nascita del “partito nuovo” e la scelta autonomistica, della lotta alla mafia e dei riverberi a Portella della Ginestra dello scacchiere internazionale caratterizzato dalla cosiddetta “guerra fredda”.
La figura di Girolamo Li Causi emerge in tutta la sua brillantezza e, come nel caso dell’attentato del 16 settembre 1944 a Villalba, mette in mostra non solo l’acume politico ma anche la caratteristica umana di chi con coraggio e coerenza parla al cuore delle persone e fa muro alla furia criminale e assassina della mafia.
Muro che, fra l’altro, ha visto in decine di sindacalisti della Cgil i mattoni di una costruzione che della liberazione dal giogo politico mafioso ne ha fatto il presupposto dell’azione politica.
La lettura dei testi in appendice conferma in pieno le qualità dell’uomo Girolamo Li Causi e riassume le tappe più significative del decennio in questione.
Non posso tacere, in conclusione, che la Sicilia di oggi – afflitta da un grave declino delle sue classi dirigenti e segnatamente di quella politica e da una ostinata separatezza dal resto d’Italia – ha bisogno di ritrovare il bandolo della sua storia per capire come e dove orientare il cammino futuro, per dare fiducia e vigore alle nuove generazioni e impulso ad una stagione di profondi e ineluttabili cambiamenti.
Italo Tripi

Prefazione
di Oliviero Diliberto

Gli anni raccontati da Girolamo Li Causi in questo straordinario libro sono quelli decisivi della Repubblica italiana, quelli che l’hanno indelebilmente segnata, ne hanno condizionato il futuro sviluppo: anni che pesano ancor oggi. Dal 1944 al 1960, accade infatti praticamente tutto. La fine della guerra e la vittoria sul nazi-fascismo; la formazione dei primi governi democratici di unità nazionale e la successiva esclusione delle sinistre da essi; l’Assemblea Costituente e la nascita della Costituzione; l’attentato a Togliatti; la sconfitta delle sinistre nel ’48 e il centrismo; l’avanzata del Pci e delle sinistre a prezzo di lotte, politiche e sociali, grandi e terribili; le conseguenti repressioni di Scelba; la legge-truffa, e poi ancora la crisi del centrismo, le prime avvisaglie del nascente centro-sinistra, e infine la formazione dei governi Milazzo alla Assemblea regionale siciliana, resa possibile da una spaccatura all’interno della Democrazia cristiana, e la conseguente estromissione temporanea di questo partito dalle leve del potere.
In questi primi anni si coglie soprattutto la fine di una stagione di speranze aperta dalla Resistenza, la constatazione che la classe dirigente sceglie allora di non rompere decisamente con il passato, di non voltare pagina – anche e soprattutto per via del contesto internazionale, il mondo diviso in due blocchi, la guerra fredda degli anni più cupi –, in un continuiamo deteriore tra passato e presente, tra apparati dello Stato gravemente collusi con il regime fascista e riciclati, a vario titolo, in quelli della nuova Repubblica. I nemici di ieri diventano “utili” in quel momento per contrastare i nuovi nemici, i comunisti: e certo non solo in Italia. Le conseguenze di quelle scelte sciagurate, in Sicilia come nel resto del Paese, le paghiamo ancor oggi.
Li Causi racconta tutto ciò da un’ottica particolare, ma decisiva: la Sicilia del dopoguerra. L’autore narra, da protagonista, la battaglia contro la mafia, la connessione tra Stato, malavita organizzata, economia forte, le incursioni dei servizi americani. Oggi, tutto ciò ci appare più evidente. Sono emersi documenti, testimonianze, i fatti si delineano nella loro gravità e complessità: ma in Li Causi – attore protagonista tra i più importanti del periodo, a livello siciliano e nazionale – l’analisi è sin da quegli anni di una lucidità che oggi appare straordinariamente lungimirante. Aveva già chiaro tutto. E lo diceva.
L’autore – è quasi superfluo dirlo, ma forse non è inutile sottolinearlo in questi tempi di perdita colpevole di memoria – è stato personaggio leggendario. Incarcerato nel 1928 dopo la condanna a 20 anni di reclusione comminata dal tribunale speciale del fascismo, liberato nel ’43, è subito tra i capi della Resistenza nel Nord Italia, poi dirige il partito e le lotte per l’occupazione delle terre (e non solo) in Sicilia, è autorevole parlamentare e membro della direzione nazionale del Pci.
Popolarissimo e amatissimo tra le masse, Li Causi è l’alfiere della lotta contro la mafia, quando in certi ambienti politici (e giornalistici) essa non si poteva neppure nominare, negandosi addirittura la sua esistenza. Li Causi accusava apertamente di connivenza con la mafia i vertici dei partiti di governo in Sicilia, ad iniziare ovviamente dalla Dc, parlava delle collusioni con Cosa Nostra: lo faceva quando pochissimi, isolatamente, osavano farlo. Le prove giudiziarie sono venute a galla solo nei processi più recenti. Ma quelle politiche erano già allora di fronte agli occhi di chi voleva vederle. Li Causi univa dunque la capacità, straordinaria, di conoscenza e di analisi, ad un eccezionale coraggio.
Emerge a tutto tondo la figura di Li Causi comunista. Ma anche di Li Causi siciliano. Di quella Sicilia che ha dato straordinarie figure di dirigenti, nel corso dei decenni, al Pci nazionale, ma che ha visto protagonisti anche migliaia di donne e uomini meno noti o sconosciuti, militanti e dirigenti locali, politici e sindacalisti, che hanno dedicato al riscatto della propria Isola tutta la loro vita, non di rado mettendola concretamente a repentaglio e talvolta perdendola, proprio in nome e per via delle battaglie antimafia. Un nome per tutti: Pio La Torre.
Guttuso – altro siciliano illustre – amava ripetere, con la civetteria dei siciliani colti e cosmopoliti, che anche quando dipingeva una mela, c’era dentro la Sicilia. Se la portava dietro ovunque fosse e qualunque cosa facesse. Saudade isolana, ma anche coscienza della propria identità forte, delle radici che non si recidono, di valori che urlano dentro di sé. Ed è proprio in Sicilia che Li Causi matura alcune delle sue convinzioni più profonde, ad iniziare dall’adesione senza tentennamenti, e da subito, alla svolta togliattiana del ’44, la nascita del partito nuovo, capace di unire sempre la protesta alla proposta, l’identità e le alleanze. Li Causi è sempre attento all’unità delle masse, mai velleitario, nemico giurato del massimalismo. Egli crede e si batte per un partito che aderisse pienamente ai valori e ai principi della nuova Costituzione, scegliendo di tenere uniti democrazia e socialismo.
Li Causi fu dirigente comunista di prima grandezza. Pieno di umanità e partecipazione personale ai drammi del sottosviluppo, della povertà, dell’emarginazione sociale. In lui, nelle sue pagine, si avverte come prioritaria gli appaia la lotta contro le ingiustizie, i soprusi, le prepotenze dei potenti contro gli umili: Manzoni avrebbe detto le soperchierie. Passione politica, dunque, unita sempre alla tensione morale. Ma dal libro si chiarisce anche che nei comunisti siciliani la battaglia per la legalità e quella per il riscatto sociale non siano mai astrattamente scisse, anzi esse appaiono indissolubili tra loro: pena la sconfitta su entrambi i terreni.
Un esempio, dunque, ancora oggi vivissimo. Queste riflessioni politiche inedite, che commentano e si incrociano con alcuni passi significativi della sua vicenda autobiografica postbellica, sono quindi utili, feconde, istruttive. Ne dobbiamo essere grati ai brillanti curatori, che allegano anche pagine particolarmente struggenti, come le lettere di Li Causi dal carcere e le testimonianze dei compagni e dei dirigenti del Pci, seguite alla sua scomparsa.
Concludendo la lettura, mi viene spontaneo pensare (ripensare, ancora una volta) allo scioglimento di quel partito – il Pci – al quale Li Causi e intere generazioni di comunisti in Italia hanno dedicato l’intera propria vita. Anche questo straordinario libro, infatti, testimonia la grandezza e i meriti storici di quella comunità di donne e uomini che lo costituivano. Vi ho riflettuto con amarezza.
Ma è motivo di ottimismo e di speranza pensare anche che questo libro possa esser letto, e meditato, da una generazione ancor più giovane: quella che viene dopo la mia e non ha conosciuto il Pci, per un ovvio fatto anagrafico. A questi giovani, che oggi hanno vent’anni, e nascevano quando crollava il Muro di Berlino, questo libro insegna che ciò che è stato fatto era giusto farlo e che i comunisti italiani sono stati i protagonisti della lotta per la democrazia, la legalità, l’emancipazione del popolo: in definitiva, per un’Italia migliore.
In definitiva, questo libro ci insegna, ancora una volta, quanto sia straordinariamente vitale il vecchio principio che i filosofi ci ripetono da un migliaio di anni. Noi, oggi, riusciamo a vedere più lontano di chi ci ha preceduto non perché siamo più bravi, ma semplicemente perché siamo nani issati sulle spalle di giganti.

Oliviero Diliberto

IL TEMPO LEGGENDARIO di Adriana Piazza (Ed. La Zisa)


Presentazione di N.N.

Ringrazio l’autrice del “ Tempo leggendario” per avermi affidato il delicato compito di presentare il suo romanzo.
A una parte dei presenti è nota la Prof.ssa Adriana Piazza , ma per coloro che non abbiano avuto modo di seguire il suo percorso artistico, dirò brevemente.
La biografia di chi scrive va dedotta o intuita e interpretata nell’opera, tenendo conto che scrivere e narrare per l’autore, non è confessarsi, quanto: sublimare l’esistente, tradurlo in simbolo, perché la vita vi traspaia.
Adriana Piazza ha insegnato lingua e letteratura francese, presso gli Istituti superiori di questa città, ha pubblicato testi scolastici sulle problematiche legate al turismo e alla civiltà francese, nel 1997 è stato dato alla stampa il suo primo romanzo storico:”L’inflessibile voglia di Marie” sul ruolo delle donne nella rivoluzione francese, romanzo che è stato accolto con un discreto successo di critica e di pubblico.
“Il tempo leggendario” è il suo secondo romanzo, di carattere storico – psicologico, al centro dell’universo dell’autrice ancora una volta memorabili figure di donne anticipatrici e capaci di cambiamenti epocali,come Marie la sovversiva del suo primo romanzo.
Un pomeriggio di primavera, come questo che ci vede riuniti: la nipote accompagna la nonna alla Villa dei Colli, vecchia dimora di famiglia, ormai fatiscente; chiede di restare sola con se stessa e ripercorre a ritroso le tappe della sua esistenza, di quel pomeriggio sintesi di una vita rimane un prezioso quaderno di appunti: la nipote è Adriana Piazza, il romanzo è: “Il tempo leggendario.”
L’analessi è la tecnica che consente questo memorabile viaggio nel tempo, in un gioco di simmetrie speculari, che approda ad una concezione ciclica del tempo,
quello lineare della modernità è reso attraverso l’osservazione del dissennato processo di cementificazione e avvertito pertanto con disappunto.
Il tema centrale, per rievocarlo alla maniera proustiana, è :”l’immenso edificio del ricordo” o più poeticamente, alla maniera di Foscolo :
” e quando
il tempo con sue fredde ali vi spazza
Fin le rovine, le Pinplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.

La poesia come memoria collettiva che vince il silenzio dei secoli e allieta i deserti.
Altro tema altrettanto forte, quello del luogo, come composizione e specchio dell’identità antropologica dei personaggi.
Una bella costruzione in stile Art Nouveau.
Un grande cancello all’ingresso, sormontato da un arco, è la Villa degli Spiriti che la bambina Giulia e il fratello Franz hanno preso l’abitudine di andare a spiare la sera, attraverso la cancellata: paura, mistero, curiosità, ma anche coraggio che la presenza di Franz infonde in Giulia, sono questi i sentimenti che animano le loro scorribande.
Incollata alle sbarre del cancello, Giulia non riesce a vedere che dettagli insignificanti, niente di tutto ciò che la sua fervida fantasia può avere partorito.
L’autrice del tempo leggendario non ha fatto altro che sviluppare questa semplice immagine e portarla alle sue estreme conseguenze.: il cancello è il filtro tra Giulia e la realtà, e Giulia che trascorre una vita tutt’altro che da eremita, però sempre mantenendo tra sé e gli altri, questa minima, ma invalicabile distanza.
Giulia che guarda da dietro la cancellata della villa è un’allegoria dell’autrice?
Del suo modo sospeso di essere nel mondo?
E’ un’allegoria del “disimpegno” ?
O al contrario dell’”impegno”?
Lo sfavillante mondo della Belle Epoque palermitana, che è il contesto del romanzo, è riproposto come un ideale attuale , sia pure con le sue sbavature e censure o è ironizzato nello stesso senso in cui Manzoni si faceva beffe di alcuni aspetti della vuotaggine del seicento?
Queste sono alcune delle questioni che nascono spontanee.
Il romanzo si snoda su tre direttrici principali: edificazione di un eden, impietosa dissoluzione e riedificazione alla luce di una mutata visione del mondo.
Gli occhi di Giulia, la bambina protagonista del romanzo, sono acuti e ineludibili, sono gli infiniti occhi di tutti coloro che prematuramente hanno varcato la soglia dell’età adulta.
il romanzo costituisce un nitido affresco della Belle Epoque palermitana.
Romanzo piuttosto insolito che sfugge ad ogni definizione precisa,ma qualche accostamento può essere tentato ed essere letto come una sorta di : “Luna e i falò” all’incontrario, perché anche per Pavese ricordare è la vera materia del romanzo, Anguilla ritorna, rivede le colline, il Belbo, le vigne e i falò, mitizzati da lontano, sono al suo ritorno: la testimonianza della dissoluzione di un mondo.
Giulia rimane e dal deperimento dell’universo che ha idoleggiato, ne vede sbocciare un altro, meno enfatico, ma, forse,anche più vero.

La mitica età dell’oro con la convinzione prepotente che l’umanità si sia totalmente e trionfalmente affrancata dalle barbarie e miseria fallirà di fronte alla crisi che condurrà di lì a poco al primo grande conflitto mondiale, i segni premonitori di questa tragedia epocale e di decomposizione della società sono presenti nel romanzo, occorre una lettura rallentata per poterli identificare, si assisterà ad un cambiamento che scardinerà un mondo per ridisegnane un altro, ad un prezzo inaccettabile, come ebbe a dire Ungaretti:
” Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro.

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto”

In questo quadro di riferimento si muovono i personaggi del romanzo. quelli maschili: lestofanti, come Carlo, il fidanzato di Marianna e il conte, marito di Carolina o leggendari e irraggiungibili, come il padre e il fratello di Giulia, Franz; tutte queste figure strutturate in coppie antitetiche, insieme ad altri personaggi, forse minori, come Michele più strumentale alla rivisitazione de “La Villa dei Colli”.
Andrea lo sfuggente e affascinante pianista, Peppino il devoto custode, delineano un orizzonte complesso col quale si interseca e da cui si diparte quello femminile.
Anche i luoghi sono antitetici, sotto il profilo valoriale, perché gerarchicamente strutturati; basta osservare la geografia della villa dove alle stanze della rappresentanza e dell’esteriorità si oppongono quelle della quiete, della laboriosità: la cucina, la biblioteca e più riposte infine, quelle dell’intimità.
Ma tutti gli spazi, pur se l’autrice non rifugge da talune descrizioni miniaturistiche, siano essi aperti o chiusi, sono essenzialmente funzionali a definire l’identità umana dei personaggi che li vivono: la Marina, la Favorita, Mondello, e più lontano: la Tunisia, Malta, la Grecia che svela a Franz un più autentico senso dell’esistenza che non gli consente più battute d’arresto; sia nella sua città, dove ora ne scopre un’altra, perché ai villini dell’Olivuzza e al fasto di via Butera si contrappongono i quartieri fatiscenti, sia a Messina dove si compirà, insieme al suo stesso destino, uno dei drammi più inattesi di inizio secolo.
E’ questa la linea d’ombra che segna l’impietosa dissoluzione dell’Eden, sono le figure maschili a squarciare quel velo, ora per esplorare i confini di un mondo nuovo più inquietante, ma anche tanto più umano, o tutti tesi, narcisisticamente, a rincorrere i luoghi del delirio edonistico e della vita da copertina, come fa il marito di Carolina a Montecarlo.
Ma non occorre andare così lontano, perché i luoghi della vanità sono anche dietro il cancello del giardino della Villa dei Colli: alla festa della zagara:” con lo sperpero di fiori recisi, sacrificati in un’esibizione di inutile vanità;” ai sabatini di Villa Giulia per le fanciulle “ninnolo;” a casa di donna, forse, Laura o Adelaide Florio; ma si può anche restare al di qua del recinto e la festa ha trasformato,per una diabolica alchimia, la sala di rappresentanza: “con l’odore nauseabondo, gli avanzi di fiori appassiti, i rimasugli dei liquori nei bicchieri;” nella sala degli orrori.
Ma cosa resta a Giulia, a Marianna, a Carolina, a Sofia che esplorano quel mondo o da dietro la cancellata del giardino de “La Villa dei Colli”, metafora dell’universo
miniaturizzato o da un convento dove gli unici deliri edonistici assumono il volto, o del trionfo di gola, o della vegetazione lussureggiante che stride, un po’ tanto, con l’atmosfera austera e ne denuncia i limiti, così che il tutto non convince Giulia che forse non è mai stata completamente bambina: la delude la recita delle sorelle così lungamente attesa, non le scaldano il cuore le cerimonie religiose, ma le raggelano i pensieri e con la mente percorre, gli spazi aperti, come Franz, il fratello che la ammalia; lo segue nelle scorribande alla “Villa degli Spiriti”, ma è lì, che con i graziosi cagnolini che si dileguano, soffocata dall’angoscia, Giulia scopre di essere “di porcellana.”
Ma, come le altre donne del romanzo, trova una forza, ma una forza che rovescia ogni sconfitta in vittoria: Marianna, infrange la convenzione corrente e respinge il fidanzato fedifrago che vuole barattare un valore disatteso con un volgare gioiello e dopo la rottura del fidanzamento con Carlo, compie il più bel viaggio dell’animo umano e ritrova se stessa.
Carolina si rivela, dopo la separazione dal marito che, invece della famiglia, ama l’azzardo, il lusso e le proprietà della moglie che allegramente dilapida: madre esemplare e maestra encomiabile.
Sofia, anche se non conosce la sconfitta, lotta con altrettanta tenacia e trasforma i vagheggiamenti di una bimba nella realizzazione di una donna, attraverso l’arte.
Giulia sta a guardare e nella Villa scopre: nelle sere d’estate, quando la terrazza assomiglia ad un immenso planetario: l’incanto della notte nel giardino di casa, l’affettuosa intimità materna sul pianerottolo dinanzi alla finestra prima di andare a dormire, le voci inquietanti degli abitanti nel cortile, l’amore per la letteratura nella biblioteca con Franz, l’amicizia con Franceschina e il desiderio di libertà di cui, il paniere di ficodindia che scambia con i suoi giornalini, è l’emblema.
Fuori dalla villa scorge: i violinisti ciechi al teatro delle marionette, la magia del mare, lasciandosi inzuppare i vestiti dalla risacca, vicino casa di madrina Elvira a Cefalù, le famiglie in cerchio che vegliano sui bambini addormentati per la festa di Santa Rosalia che anche il padre predilige, la incantano gli splendori del viale della Libertà, il sapore della merenda a “La Palazzina Cinese”.
Ne scaturisce un universo femminile, prima sognante e disarticolato dalla realtà, poi caparbiamente solido, unito: persino la sottile incrinatura tra Giulia e Sofia è stata ricomposta, un nuovo mondo è nato a rappresentare i valori più edificanti di una società, che lo sguardo sapiente di Giulia ha colto nei suoi bagliori, ma anche nei suoi inaccettabili egoismi, perché disgusto e rabbia offusca l’animo di Giulia, davanti alla cucina dei contadini con la mangiatoia per gli animali; ma l’amicizia con Franceschina, i doni scambiati stanno a dirci, già da allora, che la crescita di una società è possibile, solo attraverso un dono reciproco, e la gioia dei contadini, a dispetto del degrado del luogo, beffeggia l’inutile lusso delle passeggiate alla Marina.
Le figure femminili, alcune, solo apparentemente minori: perché, anche Marta la cuoca e Bettina la bambinaia magica, insegnano pazienza e tenerezza, su tutte le immagini campeggiano, oltre a quella della protagonista che dà luogo all’indimenticabile flashback, quella della mamma di Giulia, la donna a cui lei più di tutte vuole assomigliare nella vita di coppia, di madre e in quella sociale e soprattutto nell’indiscusso coraggio che dimostra dopo l’amputazione della gamba.
Ma insieme allo slancio lirico, ricordare è la vera materia del romanzo?
C’è un movente morale?
E qual è?
Il messaggio materno che l’amore è possibile nel delicato dialogo dei corpi e delle anime, pur con qualche fugace malinconia e l’incanto del giardino della Villa, dagli effetti lirico-simbolici, chiudono il romanzo; a significare nel fluire delle sequenze scenografiche che la vita è fatta di momenti, sospesi al filo del ricordo e poiché la fotografia ci consegna gli istanti; può essere come quella in copertina, emblema della vita: contro la beffa inclemente del tempo.
Ma è Franz, forse il vero protagonista del romanzo, alla ricerca di un mondo oltre i confini di quell’esistenza dorata .
la Grecia, Malta, la Tunisia, e quello che ha visto, non gli consente di essere più come una volta, i luoghi sono visti privi di ogni infatuazione paesaggistica, perché pullulano invece di un’umanità sofferente che non è possibile ignorare, tutto ciò non cambia in Franz il sentire di un momento, ma cambia dalle fondamenta l’uomo che matura un progetto di società diversa, fondato su una concezione di umanità globale, è forse questo il messaggio di straordinaria modernità e di attualità del romanzo, avvertito e vissuto forse dal più profondo dei personaggi creati dall’autrice, perché Franz da cui la sorella Giulia è ammaliata, ed è facile essere ammaliati, perché è colui che spinge gli occhi un po’ più in là del comodo cortile di casa, è l’Ulisse che è in ognuno di noi, colui che dà senso alla propria esistenza attraverso la conoscenza di sé e del mondo più vasto e ne paga il prezzo più alto.
Certo Franz come tutti i personaggi profondi, è scomodo, perché non si muove in sintonia con un mondo che vagheggia banchetti e festini.
E la sala della rappresentanza che si trasforma nella sala degli orrori, con i rimasugli dei liquori nei bicchieri, esprime così densamente l’accartocciarsi di un mondo, quando ruota intorno a sé stesso, incapace di guardare oltre il cortile di casa propria, chiuso in un narcisismo trionfante, a questo proposito molto sta a dirci, soprattutto oggi, questo personaggio inquieto, animato da un’ umanità straripante, figura tanto più chiaroveggente, se si pensa che il mondo ridisegnato dal conflitto mondiale che da lì a poco si sarebbe scatenato, non ne ha migliorato i confini, ma inasprito i conflitti in un’escalation di sopraffazione e di morte.
Il messaggio di solidarietà di Franz, così brutalmente inflazionato oggi in una società che molto ne parla, ma poco la pratica, dovrebbe farci riflettere su una questione a mio avviso nodale che l’umanità necessita di un pensare e di un sentire globale, non finalizzato al saccheggio mondiale di tutti contro tutti, ma alla condivisione più equa di tutto per tutti,
Ma quale può essere il senso della letteratura in una società così prodiga di oggetti e avara di sentimenti?
Forse quello di esplorare e rappresentare il luogo privilegiato dell’anima e i suoi misteri.
Ringrazio la Prof.ssa Piazza di averci regalato personaggi che con la loro umanità aiutano a dilatare la nostra.