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«Il cristiano non può essere
mafioso». Nella loro quasi ovvia semplicità ed immediatezza queste parole
recentemente pronunziate nel ricordo di Padre Puglisi da Papa Francesco a
Palermo, sono state da più parti salutate come il segno di una nuova
consapevolezza ecclesiale di fronte alla mafia. Un cammino discontinuo e
piuttosto tortuoso, partito da territori di cristianità marginali ed esperienze
pastorali periferiche e di minoranza. Già nell’estate del 1963 infatti,
all’indomani della strage mafiosa di Ciaculli, il pastore valdese Pietro Valdo
Panascia con una clamorosa iniziativa si appellava «a quanti hanno la
responsabilità civile e religiosa del nostro popolo» per «la formazione di una
più elevata coscienza morale cristiana». La chiesa cattolica reagì invece con
una certa lentezza, con la lettera pastorale "Il vero volto della
Sicilia" dell’Arcivescovo di Palermo, il Card. Ruffini. Una risposta,
giudicata da molti insoddisfacente, ritardata dalla divergenza di vedute tra
Paolo VI e lo stesso Ruffini, il quale respingeva l’idea che la mentalità
mafiosa potesse in qualsiasi modo associarsi a quella religiosa.
Per trovare una nuova presa di
posizione della chiesa cattolica siciliana, con le celebri omelie del Card.
Pappalardo, bisognerà attendere l’epoca dei grandi delitti eccellenti, tra la
fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta del secolo scorso. La
disponibilità della chiesa siciliana postconciliare, offerta da Pappalardo, a
una cooperazione con lo Stato in vista del rinnovamento di una coscienza
comune, anche civica, per la legalità, fu definita da alcuni “la rivoluzione
degli onesti”: opporre «all’ingiustizia di molti la propria personale
giustizia».
Una stagione di durata
relativamente breve. Quando fu chiaro che il progetto di impegno della chiesa
contro il fenomeno mafioso passava per una riformulazione politica del sostegno
dell’episcopato nazionale al partito unico dei cattolici e la rimozione di
quelle connivenze tra mafia e poteri dello Stato non di rado garantite da
figure nominalmente cattoliche, si tornò alla vecchia difesa apologetica dallo
stereotipo mafioso in nome di un’astratta identità culturale cristiana
dell’uomo siciliano.
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