L’origine
del male. Sul pensiero filosofico dell’ultimo Pareyson (La Zisa, Palermo 2016,
pp. 112), di Giada Trapani, si presta almeno a tre prospettive di lettura. E’,
infatti, prima di tutto, uno studio su Luigi Pareyson (1918-1991): e, da questa
angolazione, ha il merito di evocare uno dei maggiori pensatori italiani del XX
secolo, maestro di Umberto Eco e di Gianni Vattimo. Secondariamente è uno
studio su una delle fonti principali della meditazione speculativa dello stesso
Pareyson: il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling ( 1775-1854), a sua
volta uno dei maggiori pensatori del XIX secolo. Per quanto interessanti,
queste prime due angolazioni riguardano direttamente la storia della filosofia
e, dunque, intrigano molto di più gli specialisti della disciplina che il
lettore “comune”. A quest’ultimo, invece, può interessare piuttosto la terza
prospettiva da cui questo testo della Trapani si presta a essere letto: la
domanda, inquietante e universale (cui si riferisce il titolo stesso della
monografia), su “l’origine del male”. Ed è su quest’aspetto che mi propongo di
dire qualcosa nel corso della presentazione del libro della Trapani previsto,
in compagnia di Giampiero Tre Re, presso la Libreria del Mare (a Palermo, in
via Cala 50) venerdì 16 marzo alle 17,30. Le cronache quotidiane, ma prima
ancora la biografia di ciascuno di noi, sono sommerse da eventi dolorosi:
bambini che nascono con gravi malformazioni genetiche, individui
irresistibilmente attratti dal sadismo e dal masochismo, terremoti e uragani,
conflitti tribali e guerre mondiali… Il quadro non si alleggerisce certo se lo
sguardo si amplia sino a coinvolgere gli altri animali senzienti della Terra o
le catastrofi cosmiche in milioni o forse miliardi di galassie. Di fronte a
questi dati irrefutabili si registrano molte, diversissime, reazioni. Una prima
reazione è il voltarsi dall’altra parte, il decidere di non farci caso. Di non
pensarci, almeno sino a quando non veniamo visitati dal male nell’intimità
della nostra casa. Pascal parlerebbe della strategia del divertissment.
Pareyson accenna a qualcosa di simile quando parla di “nichilismo consolatorio,
come forma di eudemonismo” che “va alla ricerca della felicità percorrendo una
strada sollevata dal peso della pena e del dolore” (così la Trapani a p. 90).
Un modo simile di non pensarci è di affidarsi a una Volontà superiore che
chiamiamo talvolta Destino talvolta Dio : la “rassegnazione” pagana degli
stoici o di molte correnti del cristianesimo (da alcuni passi evangelici al
fideismo di circoli cattolici e protestanti contemporanei). Una terza reazione
ha trovato in sant’Agostino il suo maestro e in Leibniz il suo esponente
estremista: il male c’è, ma come risvolto inevitabile del bene. Agostino: Dio
ha voluto creare un essere libero (e la libertà è un bene), ma l’uomo ha usato
male la libertà (il peccato è appunto male morale) e, di conseguenza, ha
sperimentato la sofferenza (il male fisico come effetto del male morale:
l’anima si è ribellata a Dio, il corpo si è ribellato all’anima, l’universo si
è ribellato al corpo). Tutta questa tragedia ha costituito la condizione di
possibilità dell’incarnazione redentrice: “ O felix culpa, quae talem ac tantum
meruit habere redemptorem ! ”. Insomma, alla fin dei conti, un mondo con
un Dio incarnato per riparare il peccato dell’uomo è un mondo migliore di un
mondo senza peccato, senza sofferenze, ma anche senza Cristo. Leibniz va oltre:
questo mondo, con i suoi chiaroscuri di bellezza e di bruttezza, non è solo
migliore di un mondo senza libertà, ma – dal momento che Dio è sommamente buono
e sommamente potente – è “il migliore dei mondi possibili” (l’autrice del
saggio ne riferisce alle pp. 66 – 67). I tentativi di salvare onnipotenza e
assoluta bontà divina non convincono l’ebreo Hans Jonas: dopo Auschwitz bisogna
scegliere fra un Dio onnipotente ma non buono e un Dio buono ma non
onnipotente. Siamo a una quarta, possibile, reazione davanti al tema del male
nell’universo: Dio, per creare il mondo, si è ritratto (antica dottrina dello
zim-zum), lasciando uno spazio alle creature. In quello spazio egli non ha più
potestà: accetta il rischio che le cose vadano come devono andare, o come gli
uomini vogliono che vadano, senza poter interferire attivamente. Sia i
cristiani Agostino e Leinbiz sia l’ebreo Jonas cercano nella libertà umana la
chiave di spiegazione dell’enigma costituito dal male: ma non è questo un
orizzonte troppo antropocentrico? Soprattutto alla luce delle scoperte
cosmologiche da Copernico all’astronomia contemporanea, come cercare in un
esserino comparso pochi secondi fa la ragion d’essere di sconvolgimenti che
hanno interessato l’universo da tempi immemori e, per non andare troppo
lontano, gli animali del nostro pianetino (vedi dinosauri) ben prima della
comparsa dell’homo sapiens (e, sia pur condizionatamente, liber)? E’ sulla base
di simili considerazioni che pensatori come Schelling (e come Pareyson che a
lui si rifà) ritengono inevitabile allargare enormemente il campo d’indagine e
spingersi a cercare l’origine del male, del negativo, in Dio stesso (o comunque
si voglia denominare il Fondamento primo e assoluto da cui scaturisce momento
per momento tutto ciò che è): non accettano di “affermare che la sola libertà
dell’uomo può sostenere l’intero peso del male che dilaga nell’universo”,
convinti che una visuale solo etica “si rivelerebbe troppo ristretta per un
affare così immane e sconvolgente” (p. 101). Il male si squaderna nell’universo
non come un imprevisto – più o meno riparabile, più o meno provvidenziale – ma
come espressione necessaria di una ferita originaria nel cuore stesso della
Sorgente abissale di ogni ente. L’ipotesi interpretativa non è facile da
sintetizzare perché si basa sull’intuizione vertiginosa che ci sia “Dio prima
di Dio” (p. 103). Schelling infatti distingue, nella sfera del divino, la
Persona di Dio da una più radicale, abissale, Natura divina che come un humus
primordiale contenente di tutto, tanto di positività quanto di negatività: “La
natura di Dio è il desiderio che prova Dio di generare se stesso, è il volere
esistere di Dio. Ma il volere di Dio è privo di luce, di forma, di ordine: è il
<<volere nel volere>>, è la bramosia cieca, il buio
dell’irrazionale, il cupo mistero di Dio.[…] Dio esce dall’abisso per divenire
Dio vivente, personale e conquista la sua personalità attraverso il suo
movimento in cui si realizza la sua libertà.[…] Il principio oscuro e il
principio di luce in Dio sono inseparabili” (pp. 56 – 57). Insomma: “per
Pareyson, come per Schelling, il male è nel mondo perché è già in Dio” (p. 58).
Tutta questa teoria vorrebbe illuminare ciò che accade ogni giorno sotto i
nostri occhi: “La vita, che è conflitto tra il bene e il male, rispecchia
l’originaria lotta che è già nell’Assoluto, e la storia degli uomini che
diventa strumento e fine della vittoria del positivo sul negativo riverbera
l’affermazione che si è compiutamente realizzata eternamente in Dio, e
attraverso la quale Dio si costruisce come persona che si fa” (p. 59). Se Dio
stesso, in quanto “libertà originaria, ha avuto una profonda radicale
esperienza del negativo al punto da averlo vinto e debellato per sempre, ciò
significa che Dio stesso non è pensabile se non come contenente in sé il male
per quanto questo si mostri già superato e vinto all’interno stesso della
positività di Lui”; non è pensabile senza ammettere “una zona d’ombra nella
positività originaria stessa” (p. 103). Ma se è inquinata la Sorgente, tutto il
corso del ruscello ne risentirà: “Il dolore, l’insopprimibile tristezza umana,
la malinconia di ogni vita, la sofferenza, la finitezza della condizione umana,
il fatto ampiamente constatabile che il male è contemporaneamente nel cuore di
ogni realtà vivente e dell’universo intero, secondo il nostro filosofo, hanno
la loro radice proprio in questa zona d’ombra intrinseca alla positività
stessa” (ivi). Non è questo il luogo opportuno per approfondire questa
concezione del male, ma almeno un cenno lo si deve all’idea di Dio che essa
comporta: un Dio pensato non più come pura Trascendenza, ma come
Trascendenza-Immanenza; non monoteisticamente (né tanto meno teisticamente) ,
ma pan-en- teisticamente. Un’osservazione in margine. Queste opinioni su Dio
differiscono molto dall’idea che di Dio mostrava di avere Gesù di Nazareth,
almeno se ci basiamo sui vangeli (canonici ed extra-canonici). Tale differenza
può mettere in crisi la fede (nell’accezione abituale del vocabolo) del
credente “comune”? Dipende dalla nostra attrezzatura esegetica in campo
biblico. Se siamo ancorati a una visione medievale di Gesù come Onnisciente,
incaricato di rivelare le verità divine più segrete, quasi una sorta di
cassaforte metafisica a disposizione dei teologi, apprendere che egli avesse
una concezione di Dio altissima, ma imperfetta, può risultare sconvolgente. Se,
invece, alla luce degli studi biblici degli ultimi due secoli, abbiamo
riscoperto la vera umanità di Gesù, e dunque abbiamo capito che egli non era un
esperto di tematiche speculative ma un maestro di vita, allora le indicazioni
più tipicamente evangeliche (riguardanti l’impegno per una società improntata
alla sobrietà, alla nonviolenza, alla solidarietà, alla fraternità e così via)
resteranno valide, per nulla intaccate. Personalmente, insomma, ho molte
riserve sulle teorie pareysoniane circa l’origine del male, ma non mi sognerei
di dichiararle eretiche: vanno esaminate e discusse laicamente come laicamente
va vagliata ogni teoria filosofica. Eretico, in questo campo, può essere chi
viola l’ortoprassi più che l’ortodossia: chi conta di vivere al riparo della
sofferenza, anche a costo di seppellirsi nel bunker del proprio privato per non
vedere né ascoltare il dolore dell’universo.
(Siciliainformazioni.it,
13 marzo 2018)