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lunedì 22 aprile 2024

Torna in libreria il più antico ricettario di cucina tradizionale ebraica italiana!

 


 

Ines De Benedetti, “Poesia nascosta. Le ricette della cucina tradizionale ebraica italiana”, Edizioni La Zisa, A cura di Davide Romano, Presentazione di Daniela Fubini, Prefazione alla terza edizione di Nanette R. Hayon, Prefazione alla seconda edizione di Ines De Benedetti, Prefazione alla prima edizione di Lucia Levi, Illustrazioni di Letizia Romano

 

Ines De Benedetti, con la sua “Poesia nascosta”, non ha soltanto raccolto e pubblicato delle ricette. Ha messo a disposizione di quattro generazioni di famiglie ebraiche italiane (fino ad oggi) un compendio di kasherut (regole alimentari ebraiche) applicato, vissuto nel quotidiano in modi che nella sua, di generazione, erano evidentemente a rischio di andare perduti. E Lucia Levi nel presentare il libro al lettore di allora ne ha segnalato subito il valore come strumento per riportare i sapori ebraici alla tavola insieme ai rituali e all’osservanza dei precetti. Oggi, a distanza che appare siderale dagli anni del primo dopoguerra, dopo la seconda guerra, la Shoah e il ritorno alla vita, dopo l’arrivo in Italia degli ebrei da tutto il mondo arabo, con tradizioni ebraiche e culinarie tutte nuove, ancora oggi la Poesia nascosta trova spazio nelle nostre cucine. Con i suoi fogli macchiati e unti dall’uso, le annotazioni a margine e le modifiche appuntate su foglietti volanti, è un pezzetto di storia ebraica italiana, rivolto come la sua autrice a un futuro più consapevole e orgoglioso della propria tradizione, anche culinaria.

(dalla Presentazione di Daniela Fubini)

 

Ines De Benedetti, nata il 12 novembre 1874, è scomparsa a Padova nel 1960. Per anni è stata presidente della sezione padovana, da lei fondata nel 1929, dell’ADEI, l’Associazione Donne Ebree d’Italia, diventata in seguito ADEI Wizo, che si occupa di volontariato sociale e di diffondere la cultura e i valori dell’ebraismo e del sionismo, nonché di promuovere la condizione della donna e sostenere le istituzioni Wizo in Israele.


La cucina russa è servita... in un libro!

 


 

Il volume "Non solo caviale" di Tatiana Kalinina raccoglie ricette semplici e piatti più elaborati, per un approccio facile e gustoso ai sapori dell'est

Un viaggio nella cucina russa. Per scoprire non solo nuove ricette e sapori diversi, ma anche abitudini e costumi della Russia sovietica e immediatamente post-sovietica. Nel libro, curato dal giornalista Davide Romano, “Non solo caviale. Le ricette della cucina tradizionale russa” di Tatiana Kalinina (edizioni La Zisa) è infatti stata raccolta una selezione di ricette russe, in parte recuperate dall’autrice da alcuni ricettari russi degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.

“Fin da piccola ho sempre amato cucinare - racconta l’autrice -. E, da sola o insieme a qualche amica, mi divertivo a rielaborare piatti già conosciuti. Durante la mia infanzia, però, non c’era una grande varietà di prodotti, quindi capitava spesso di dover utilizzare fantasia e creatività per poter realizzare pranzi invitanti, anche se con pochi ingredienti a disposizione”.

I piatti proposti nel libro, spiega Tatiana Kalinina, rappresentano un mix di ricette semplici, realizzabili con pochi ingredienti, e ricette più elaborate. “Al giorno d'oggi in commercio si trovano tantissimi libri dedicati alla cucina russa - prosegue Kalinina -, ma la mia idea era quella di realizzare un volume snello che, oltre alle ricette più popolari, offrisse anche una breve storia dei singoli piatti. Un manuale che consiglierei soprattutto a coloro che si stanno preparando per un viaggio in Russia, in modo da poter essere preparati ad assaggiare nuove pietanze, senza pregiudizi, ma con una sana curiosità”.

Da borsch ai pelmeny, sono tantissimi i piatti particolari della tradizione russa, spesso sconosciuti agli italiani. “Difficilmente entreranno nella quotidianità delle famiglie italiane - prosegue -, ma alle persone più curiose suggerirei di provare qualche insalata fresca, le zuppe di funghi, i secondi piatti di pesce o i bliny con salmone e caviale”.

E a proposito dei gusti degli italiani verso la cucina russa: “Mi sembra che gli italiani siano dei buongustai, anche se ho l’impressione che non amino i sapori troppo forti, come l’eccessivo utilizzo di sale e di condimenti grassi, che invece le rigide condizioni climatiche del nostro Paese richiedono”.

 

(fonte: https://it.rbth.com/)

 

Mafia, È morto Vincenzo Agostino, il padre coraggio simbolo della lotta alla mafia. Il figlio Nino fu ucciso insieme alla moglie incinta


Il figlio Nino, agente di polizia, venne ucciso con la moglie dai killer di Cosa nostra nel 1989. All’aula bunker riconobbe «faccia da mostro» durante un drammatico confronto all’americana

È morto Vincenzo Agostino, il papà dell'agente della polizia di stato Nino, ucciso da Cosa Nostra assieme alla moglie Ida Castelluccio, l'8 agosto 1989. Vincenzo Agostino, nato il 22 marzo 1937, era il papà coraggio, che non si era mai rassegnato alla morte del figlio e della nuora - incinta di qualche mese - e aveva da subito denunciato i tentativi di depistaggio legati al duplice omicidio.

Aveva una lunga barba bianca che - aveva detto - «non avrebbe più tagliato» fino a quando non sarebbe emersa la verità sui mandanti del duplice omicidio, sui silenzi e soprattutto sui depistaggi alle indagini. Vincenzo ha continuato a combattere per il figlio anche dopo la morte di sua moglie, Augusta Schiera, avvenuta a febbraio 2019.

La scomparsa di Vincenzo Agostino non rappresenta la fine della battaglia intrapresa in nome di suo figlio, l'agente di polizia Nino, e della moglie di quest'ultimo, Ida Castelluccio, trucidati da Cosa nostra il 5 agosto 1989. Per questo delitto - per cui furono molteplici le piste investigative, di cui alcune totalmente depistanti - sono state accusate tre persone, tra le quali il boss di Resuttana Nino Madonia, il killer preferito da Toto' Riina, che ha optato per il rito abbreviato e nel 2021 è stato condannato all'ergastolo, confermato anche in appello il 5 ottobre scorso.

Anche quel giorno Vincenzo - accompagnato dalle figlie, dai nipoti e dalla sua inseparabile scorta ma senza più la moglie Augusta Schiera, scomparsa nel 2019 - si presentò al palazzo di giustizia di Palermo. La sua barba bianca, che aveva deciso di non tagliare finché non fosse stata fatta giustizia per il proprio figlio, il passo lento ma deciso agevolato da un bastone, dopo la sentenza Vincenzo Agostino fu netto, come sempre: «Sono soddisfatto perché hanno condannato il macellaio di mio figlio e di mia nuora. Soddisfatto anche per mia moglie, desideravo tanto che ci fosse anche lei accanto a me. Ora toglierò la scritta sulla sua lapide 'morta in attesa di verità e giustizia. Si sta avvicinando il giorno in cui potrei tagliare la barba, perché si avvia a conclusione anche il procedimento ordinario, in caso di condanna posso dire che quel giorno posso mantenere la promessa che ho fatto sulla tomba di mio figlio«.

«Oggi - aveva scritto su Facebook il mese prima rivolgendosi alla moglie - avremmo festeggiato 64 anni di matrimonio. Ogni secondo senza di te e' un'agonia, mi manchi infinitamente. Continuerò ad amarti, sempre tuo, Vincenzo».

Gli altri due imputati - sotto processo con il rito ordinario sono il boss dell'Arenella Gaetano Scotto, accusato del duplice omicidio aggravato, e Francesco Paolo Rizzuto, uno amico di Nino Agostino, accusato di favoreggiamento. Anche in questo procedimento Vincenzo - costituitosi parte civile, assistito dall'avvocato Fabio Repici e con lui anche le figlie, i nipoti e i familiari di Ida Castelluccio, tra gli altri - ha sempre voluto essere presente, a ogni udienza, nonostante gli acciacchi dovuti all'età.

Assisterà da altrove alla sentenza, essendo il processo alle battute finali: hanno già discusso le parti civili, il 3 maggio e il 21 sono in programma gli interventi dei difensori degli imputati e poi la Corte d'assise, presieduta da Sergio Gulotta, dovrebbe ritirarsi in camera di consiglio per la sentenza.

(Fonte: La Stampa)

Gli editori sul caso Scurati: libertà di espressione è cuore della democrazia



“L’Associazione Italiana Editori è a fianco degli editori nel ribadire che la libertà di espressione è al cuore della democrazia ed è principio guida inderogabile per tutto il mondo del libro. Un Paese forte della sua democrazia non dovrebbe mai temere le opinioni degli scrittori, qualunque esse siano”. Lo ha dichiarato il presidente di AIE Innocenzo Cipolletta in merito al dibattito che si sta sviluppando intorno alla cancellazione del monologo dello scrittore Antonio Scurati sul 25 aprile che sarebbe dovuto andare in onda su Rai3.

(Fonte: https://www.primaonline.it/)

mercoledì 10 aprile 2024

Anniversario. Il genocidio del Ruanda non è stata solo una parentesi di follia

 

Da quel 6 aprile del 1994, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Tedeschi e belgi avevano preparato lo scenario, dividendo i ruandesi per tribù

Trent’anni. E sembra ieri. I machete che si alzavano per uccidere il vicino, le radio che incitavano all’odio, l’Occidente che si girava dall’altra parte, dopo aver contribuito a creare le premesse per il disastro. Ottocentomila morti in 100 giorni, nella stragrande maggioranza tutsi, per mano delle milizie hutu, il gruppo maggioritario del popolo ruandese. L’odio e l’orrore li abbiamo visti e raccontati in mille ricostruzioni, film, libri, testimonianze, un flusso di parole e immagini che hanno provato a descrivere come, da quel 6 aprile del ’94, in poche settimane si arrivò al culmine di decenni di cattive politiche e separazioni etniche. Gli europei – i tedeschi prima, i belgi dopo – avevano preparato lo scenario, introducendo negli anni Trenta le carte d’identità e dividendo i ruandesi per tribù: prima, in Ruanda, si consideravano tutti ruandesi.

Poi i colonizzatori favorirono la minoranza tutsi, considerandola superiore. Funzionò fino alla “rivoluzione hutu” dei primi anni Sessanta, primo soffio di quella ventata d’odio che sferzò il Ruanda fino al genocidio, a quello «schiacciare gli scarafaggi tutsi» di cui il mondo finse di accorgersi troppo tardi. La notte di quel 6 aprile l’aereo su cui viaggiava l’allora presidente ruandese Juvénal Habyarimana, un hutu, fu colpito con un missile terra-aria vicino all’aeroporto della capitale Kigali. Fu la scintilla che causò la successiva uccisione del 20% della popolazione ruandese e lo smembramento di famiglie, comunità, amicizie nel Paese dalle mille colline. Uno dei massacri più sanguinosi avvenne a Murambi: 50mila tutsi, abbandonati dalle truppe francesi, vennero massacrati in appena otto ore. Molti di loro si erano rifugiati in un centro di formazione. Sopravvissero appena in 34: oggi il memoriale che ricorda quell’eccidio è uno dei sei principali luoghi della memoria di quanto avvenne in quei giorni.

Gli assalti di massa finirono solo quando il Fronte patriottico ruandese, un’armata formata da tutsi e hutu moderati e guidata dall’attuale presidente Paul Kagame, riuscì a conquistare la capitale. Era metà luglio, le immagini delle file infinite dei teschi delle vittime del genocidio facevano il giro del mondo, mentre un milione di profughi hutu, ai quali si mischiarono le brutali milizie Interamwe, fuggiva nei Paesi vicini per paura di vendette. C’erano, evidentemente, troppe persone da processare e con ruoli diversi nel genocidio: ai tribunali locali si affiancarono nel tempo un Tribunale penale internazionale con sede ad Arusha, in Tanzania, e le corti tradizionali gacaca, che ebbero un ruolo anche di riconciliazione per le comunità, oltre che di giustizia per i sopravvissuti.

Trent’anni dopo, cosa ne è di quei fatti, che Paese è diventato il Ruanda, che ruolo ha nello scenario regionale? Kagame, 66 anni e solidi rapporti con l’Occidente, è ancora lì, vincitore di tre successive tornate di elezioni presidenziali con oltre il 95% dei voti. Il 15 luglio si vota di nuovo e non c’è dubbio alcuno sulla sua riconferma: corre da solo, o quasi. L’unico sfidante è Frank Habineza, del partito dei Verdi: nel 2017 ha avuto lo 0,45% dei consensi. Victoire Ingabire, unica esponente di spicco dell’opposizione, è stata bandita direttamente dai giudici. Non potrà candidarsi perché la magistratura ha respinto la sua richiesta di ottenere nuovamente i diritti civili di cui è stata privata dopo la contestata condanna di 11 anni fa a 15 anni di carcere, metà dei quali “abbonati” con una grazia. «Decisione politicizzata, i tribunali non sono indipendenti», il suo commento. Non potrà fare appello se non prima di due anni.

Se è difficile negare l’importante ruolo ricoperto da Kagame per la stabilità e lo sviluppo del Ruanda post-genocidio, da più parti sono arrivate negli anni al presidente ruandese accuse sul suo mancato rispetto dei diritti umani, della libertà dei media e dell’opposizione. I cambiamenti della Costituzione gli consentono di governare per altri due mandati quinquennali: difficile che Kagame ci rinunci. Negli anni il Ruanda è diventato da un lato uno dei Paesi più tecnologici del continente africano, e con indicatori in crescita su scuola e sanità, dall’altro si è assegnato il ruolo di “poliziotto d’Africa”, inviando suoi militari negli scenari di crisi diventando tra i principali fornitori di truppe per le missioni Onu. Il suo interventismo, dal Centrafrica al Mozambico, è stato spesso apprezzato, anche se qualche critica non è mancata.

Le accuse principali, però, riguardano il coinvolgimento ruandese nel Kivu, la regione orientale della Repubblica democratica del Congo ricca di risorse ma devastata dalle milizie armate. Il Ruanda è sospettato dal governo congolese di sostenere in particolare il gruppo M23. Proprio tramite il Ruanda verrebbero smerciati minerali di cui viene depredato l’Est del Congo. Tantalio, stagno, tungsteno, oro, litio, terre rare: anche l’Ue ha siglato a febbraio con Kigali un accordo sulla sostenibilità e tracciabilità di minerali strategici. Ma il Ruanda «ne è diventato grande esportatore solo grazie alle guerre che esso ha acceso a ripetizione nella Repubblica democratica del Congo a partire dal 1996, sempre attraverso interposti movimenti di copertura, che in questi anni prendono il nome di M23», hanno accusato ancora di recente otto enti tra cui Rete pace per il Congo. Lotta per le risorse e il potere, vittime, profughi: l’eterno passato che rischia di non passare mai, pur in altre forme, pur in altri modi.

(Fonte: Avvenire)

martedì 9 aprile 2024

In libreria: Ernesto Buonaiuti, “Apologia del cattolicesimo”, a cura di Davide Romano, prefazione di Francesco Armetta, Edizioni La Zisa


 

L’Apologia del cattolicesimo venne pubblicata per la prima volta a Roma nel 1923 all’interno della collana Apologie, creata e diretta da Angelo Fortunato Formiggini. L’Apologia e il saggio di apologetica religiosa intitolato Verso la luce, guadagnarono al Buonaiuti la scomunica papale e la messa all’indice di tutte le sue opere. Le argomentazioni, così come affrontate dal Buonaiuti nell’Apologia, non si basavano più sui precetti della filosofia scolastica ma erano impregnate di un misticismo che diede vita ad una sorta di antitetico individualismo dell’anima. È lo stesso Buonaiuti a chiarire sin dall’inizio la sua tesi apologetica: «il movimento religioso, scaturito dalla predicazione del Vangelo, rappresenta la perfezione soprannaturale nello sviluppo della religiosità umana, e che del cristianesimo, sigillato e consacrato dalla luce incontaminata di un divino afflato rivelatore, il cattolicismo costituisce in una completa identità sostanziale la logica realizzazione nella storia».


Ernesto Buonaiuti (1881-1946), illustre esponente della corrente modernista italiana, presbitero e accademico, nei suoi studi indagò ogni aspetto e ogni figura appartenente alla storia cristiana. Oltre all’Apologia possiamo ricordare, tra i suoi scritti più significativi, Lutero e la Riforma religiosa in GermaniaGioacchino da FioreStoria del cristianesimo e l’autobiografia dal titolo Pellegrino di Roma.


martedì 2 aprile 2024

In libreria la ristampa del saggio di Laura Veccia Vaglieri, “Apologia dell’islamismo”, a cura di Davide Romano, con una nota di padre Marcello Di Tora op., Edizioni La Zisa

 

 


Quest’opera, concepita per celebrare la grandezza dell’Islam, è stata pubblicata per la prima volta nel 1925 dall’editore Formiggini e rivede ora la luce grazie all’opera meritoria della casa editrice La Zisa di Palermo, sempre attenta a riscoprire autentici gioielli ormai da tempo sepolti.

A distanza di quasi un secolo, l’autrice, la celebre arabista e islamista Laura Veccia Vaglieri, ci invita a considerare «l’Islam come religione e come civiltà, ancorate nella perfezione insuperabile e divina del Corano».

«Dunque, una religione, una rivelazione che (…) conferma e rinnova il messaggio dell’unico e stesso Dio per mezzo di un profeta, Muhammad, che si iscrive nella catena degli inviati o profeti divini che (…) hanno ricordato alle loro rispettive comunità religiose il monito divino alla responsabilità sacrale e spirituale dell’uomo in questo mondo. Quale Monito? (…) “considerare Iddio unico nella Sua sovranità, a Lui sottomettendosi devotamente, a Lui prestare obbedienza nei comandi e nelle proibizioni, facendo il bene e astenendosi dal male”».

 

Laura Veccia Vaglieri (1893 – 1989), antesignana dell’arabistica e dell’islamologia italiane, fu professore ordinario presso l’Istituto Orientale di Napoli e autrice d’importanti manuali che svelano la sua approfondita conoscenza della cultura arabo-islamica e della lingua araba. Oltre al presente volume, si ricorda il più completo e preciso testo di grammatica araba scrittoi in lingua italiana: “Grammatica teorico–pratica della lingua araba”.